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Cap. 46
Malmenato Alfonso da un ingiusto pretensore di
Beneficj, lo benefica: accusato si discolpa col Re, e resta maggiormente
accreditato.
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Succeduta in Arienzo la
vacanza di un Canonicato, e spettandone al Papa la provista, tra i tanti, che
si raccomandavano ad Alfonso, per la commendatizia in Roma, si presentò, e
pretendevala per un suo Fratello Mansionario, il consaputo Gentiluomo, che,
tempo innanzi, tutto inquietato l'aveva per l'altro Fratello minore, che,
concorso nel canto, anche pretendeva il Mansionariato.
Monsignor dimentico di ogni offesa, non essendo soddisfatto della condotta del
Mansionario, esibì la Commendatizia per il minor Fratello, che peranche
trattenevasi in Napoli, avendone di questo ottimi riscontri. Appagato non restò
il Gentiluomo, non convenendo in senso suo, esser preferito il minore al
maggiore.
Non spostandosi Monsignore, e volendola vincere il Gentiluomo, grandi furono le
angustie, in cui si vide il povero vecchio, venendo assistito così da questo,
che da altri pretensori. Volendosi togliere d'imbarazzo, e non cedendo il
Gentiluomo, non diede fuori commendatizie, né per il Mansionario, né per altri.
Ajutandosi tutti in Roma, Canonico si vide eletto un vecchio Sacerdote, che
meno si pensava.
Questa provista, così fatta,
pose Alfonso in un mare di affanni. Persuaso il Gentiluomo, che egli fatto
avesse la commendatizia per il provveduto Sacerdote, diede nelle più alte
escandescenze. Credendosi burlato, l'insulta, li perde il rispetto, e caricalo
di vitupero.
Alfonso vedendosi
malmenato, mi dai questa mortificazione, li
disse, non me la merito, ma me la prendo
per amore di Gesù Cristo. Anziché calmarsi, più s'inviperisce il
Gentiluomo, né finiva caricarlo coi termini i più ingiuriosi.
Dispiacendo a
Monsignore non l'offesa sua, ma l'offesa di Dio: Non ho mai giurato, li disse,
ma ora vi giuro, che non ho fatto in Roma veruna commendatizia. Il cimento
fu tale, che mutoli si videro, essendoci presenti il Vicario, e i familiari,
non sapendo, che altro di peggio accader poteva, se di vantaggio il Gentiluomo
veniva ad irritarsi.
Qui non finì la
faccenda. Sdegnato voltandoli le spalle, lo minaccia volerlo ruinare, e farlo
restar pentito. A capo di giorni, avendo fatto un ricorso troppo nero, ma falso
in tutto, presso la Real Giurisdizione, va, e l'intima egli medesimo, essendo
Notaro, una lettera del Delegato. "Prenditi questa sfogliatella per ora, temerario li disse, che appresso tengo altra
roba per ricrearti.
Ricevendosi Alfonso con
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volto ilare la
lettera, ringraziando il Notaro, me la
prendo, disse, per amor di Dio; e quello, entrando in maggior furia,
sdegnato lo carica di nuovo con mali termini; né finita l'avrebbe, mi dissero
il P. Maestro Caputo, ed il Canonico D. Benedetto Barba, se entrando noi, ed
altri, e prendendolo pel braccio, non l'avessimo cacciato fuori. Sì fatta
temerità in un Uomo, che non sembrava uomo, ma cadavere, fe senso in tutti; né
davasi pace di tanta moderazione in Monsignore. Via, mo, finitela, lor disse,
che non è niente; è poveretto, e tratterò io, per quanto posso, raddolcirlo, e
renderlo consolato.
Non è, che finì qui la
rabbia del Notaro. Unendo un mucchio di altre falsità, formandone un libello,
lo presenta al Real Trono. Tra l'altro accusa Alfonso, come refrattario delle
Reali Disposizioni; e che per dipendere dal Papa, e non dalla Maestà Sua, non
provvedeva, e teneva in attrasso più Parrocchie.
Essendoseli rimesso
questo ricordo, per giustificarsi, trovandosi presente il nostro P. D. Mattia
Corrado, disse: Questo capo delle Parrocchie
è vero, ma tutto il di più è falso. Avendo umiliato le sue discolpe,
persuaso il Re dell'integrità sua, e sua rettitudine, se li rescrisse dal
Marchese De Marco, "Che certo il Re di sua savia condotta, rimettevasi
alla sua prudenza per la provvista delle Parrocchie". Questa Reale
determinazione, che non aspettavasi, siccome con sua gloria, tolse Monsignore
da qualunque angustia, così sortì con non poca confusione dell'accanito Notaro,
e suoi aderenti.
Altro malcontento vi fu
in S. Agata. Non vedendosi sodisfatta una persona né suoi ingiusti desiderj,
ricorrendo al Re, anche carica Monsignore di mille falsità. Tra l'altro, che
disprezzando la Cattedrale, trattenevasi in Arienzo, e con manifesta
ingiustizia, nelle provviste de' beneficj, posponeva i Cittadini di S. Agata,
conferendoli a Diocesani. Volendo il Re, che in questo si discaricasse, Alfonso
rappresentò esservi dichiarazione di Papa Benedetto XIV, che standosi in
Diocesi, intendevasi stare nella Cattedrale; e che egli in Arienzo non trattenevasi
per piacere, ma per pura necessità, ritrovandosi confinato in letto, e stroppio
a segno, che non era più un uomo: maggiormente, che contratto aveva un tanto
male in S. Agata, perchè in clima umido, e freddo.
Scagionossi ancora per
la provista de' beneficj. Presentandoseli il Dispaccio da D. Michele Nuzzi,
che, come Sindaco, ne portava l'impegno, Alfonso con un sorriso li disse:
"Dunque l'Arcipretura di Frasso, che rende ducati settecento, e così
quella di Durazzano, e di Real Valle, di necessità, sieno meritevoli o no,
debbo darla ai paesani, e non ad altro Diocesano, ancorché di maggior
merito".
Rappresentò al Re, che sua consolazione sarebbe, se, vacando un beneficio,
ritrovasse sempre in S. Agata soggetti degni per l'impiego, ma non trovandoli, - 243 -
di necessità dovea far
capo tra i Diocesani. Similmente, che in S. Agata l'istituzione de' Beneficj
non era ristretta ai soli Cittadini, e che il Vescovo, in coscienza, era tenuto
provvederli ai più utili per la Chiesa, non già fuori Diocesi, come potrebbe
farlo, e ve n'erano anche gli esempj nella medesima S. Agata.
Oltre di ciò fe presente al Re, che facendo la Cattedrale un gregge con tutta
la Diocesi, il Vescovo, nelle vacanze de' Beneficj, è in obbligo aver presente
tutti i soggetti, e prescegliere i più meritevoli. Rappresentò soprattutto, che
nel Vescovo è necessaria una tal libertà, non solo per il maggior bene della
Cattedrale, ma benanche di tutta la Diocesi. "Così si eccita, ei disse,
emulazione tra tutti, si studia con impegno, ed atto rendesi ognuno per servire
la Chiesa, e giovare al popolo. Non avendo che sperare i Diocesani, e sicuri
essendo i Santagatesi, che i Canonicati sono per essi, così gli uni, come gli
altri, per opposti riflessi, marcir si vedrebbero nell'ozio, con evidente
pregiudizio del popolo, della Chiesa, e dello Stato.
Riflessi così savj
restar fecero soddisfatta la mente del Re. Il Marchese di Marco, oltre un
Dispaccio onorifico per Alfonso, encomiando condotta così savia, anche, con sua
lettera di confidenza, li scrisse, che nelle provviste de' beneficj, come stimato l'avrebbe innanzi
a Dio, così con libertà si fosse servito.
Altro complimento
apparecchiavasi per Alfonso in Arienzo, per opera dell'Inferno, o sia
dell'anzidetto Notaro. Volendolo come detronizzato in quella Chiesa, erasi per
chiedere al Re, con enorme disturbo dell'Ecclesiastica Disciplina, che i
Canonici, e i Mansionarj si eleggessero, non dal Vescovo in quella Collegiata,
ma dal Popolo, tenendosi pubblico parlamento.
Monsignore subodorando
le mosse, e prevenendo il Sovrano, rappresentò ciò, che si meditava; e che,
oltre lo scandalo, che stimava inevitabile, prescegliendoli per la Chiesa, tra
il tumulto del Popolo, soggetti meno degni, e forse indegni, in ogni elezione
mancar non potevano mille peccati di odio tra i partiti, e mille risse.
Tanto rappresentò, e conchiuse: "Questi soli inconvenienti, ed il timore
specialmente di tanti peccati, che sarebbero per succedere, mi spingono a far
tutto presente alla Maestà Vostra. Non stimando così, supplico voler ordinar le
cose in modo, che si evitino tali e tanti inconvenienti. Saputasi questa
prevenzione; e sapendosi il gran credito, che Monsignore aveva presso del Re,
disanimato il Notaro, e gli altri cervelli torbidi, si diedero indietro, nè più
si parlò di venirsi a tal patto.
Rubbricati restarono,
per sì fatti attentati, con carbon nero, presso del Vicario, e gli altri
familiari, ma non presso Monsignore, il Notaro, e i fratelli. Tra questo tempo
succedette altra provista di Canonicato
nella medesima Chiesa di Arienzo. Monsignore facendosi fare al solito la
lezione spirituale, e leggendosi nella vita di Innico Caracciolo Cardinale, - 244 -
e Vescovo di Aversa, che
avendo avuto un grave disgusto da un Prete, vendicossi col conferirli un pingue
Beneficio, sentendo ciò, fermatevi, disse
al Lettore, e tornate a legger lo stesso.
Sollecito chiamandosi il Vicario, Ho
risoluto, disse, voler dare al Notaro
una consolazione. Così dicendo, imposeli dar fuori la provista del
Canonicato in persona del di lui fratello minore.
"Non voglio
impedire, rispose il Vicario questa vostra santa risoluzione; ma non ancora
essendosi spiegato il Re soddisfatto di voi per l'ultimo ricorso, si potrà
dire, con vostro discapito, che intimorito vi siete".
"O bella! ripigliò Monsignore, siamo ridotti a quello si dice. Si pensi, e
si dica ciò che si vuole. A me preme guadagnar l'anima del Notaro, non la
gloria mia. Impaziente, in quel punto, si fa chiamare il Notaro, e come se
stretto amico li fosse, Fate venire,
li disse, vostro fratello da Napoli, che
penso farlo Canonico. Come disse, così fece.
Questa provista non solo dispiacque ai familiari, ma
generalmente a tutti: cosicché dicevasi, chi vuol esser aggraziato, e promosso
da Monsignor Liguori, devesi far merito con vilipenderlo, e maltrattarlo.
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