LXXXVII.
L’ultimo misfatto — La
punizione.
Il cardinale a questa uscita del lussurioso suo zio, fu
preso da violenta collera. Don Domenico aveva realmente esaurita la sua
longanimità.
— Voi non uscirete più di qui — tonò con voce cupa e
solenne.
— Perché di grazia?
— Non ne uscirete che accompagnato dai birri, i quali vi
porteranno alle carceri per essere giudicato e punito di tutte le nequizie che
avete commesse, antiche e recenti.
— Sarebbe troppo lungo. Verrebbe la fine del mondo, prima
che il processo fosse esaurito.
— Il vostro cinismo vale le vostre azioni.
— Si possono quotare alla borsa.
— Credete che si ignorino le vostre turpitudini, le vostre
seduzioni, le vostre corruzioni di minori, i vostri stupri.
— Oh delizie! Non rammentatele eminenza perché mi fate
correre l’acquolina in bocca.
— Turpissima e sozza creatura, indegna d’anima d’uomo; così
si parla in presenza di un porporato, di un membro del sacro collegio, di un
principe della Chiesa?
— Un principe della Chiesa... un porporato... un
cardinale...! Oh la bella splendida idea che mi viene. Fra i molti capricci che
mi son levato, questo mancava. L’occasione non potrebbe essere migliore.
Il cardinale lo ascoltava, senza comprendere il senso delle
parole... e incominciava a ritenerlo in preda ad un delirio alcoolico, e stava
riflettendo ciò che gli convenisse di fare, quando si sentì afferrato a mezza
vita dalle braccia poderose del prete osceno e buttato a bocca sotto, sopra un
divano del fondo del salotto. Supponendo che volesse ucciderlo e preso da
irresistibile terrore, mormorò con voce soffocata:
— La vita! La vita, lasciatemi la vita.
— Voglio ben altro che la vita da te, nipote mio. Non capita
tutti i giorni d’assaggiar carne di cardinale.
E senza più s’accinse ad infliggergli l’estremo oltraggio.
Tentò di ribellarsi l’infelice. Ma l’Abbo tenendolo colle
ginocchia serrato, lo afferrò con ambo le mani alla gola, né lo lasciò che
quand’ebbe compiuto il nefando misfatto.
Il corpo del cardinale cadde allora bocconi al suolo. Era
morto per soffocazione.
Rinvenuto in sé, dinanzi al cadavere del nipote, Domenico
Abbo fu preso da terribile sgomento. Egli misurò d’un tratto la situazione.
Comprese che la salvezza per lui era impossibile e per sottrarsi
all’immancabile forca che l’aspettava, decise di buttarsi a fiume. Lasciò il
salotto maledetto, e si diede a fuggire come un pazzo giù per le scale del
palazzo. Alcuni servi lo seguirono, altri salirono nel di lui appartamento e
trovata la salma dell’assassinato cardinale, sparsero per ogni dove l’allarme.
Mentre il prete dissoluto giunto al ponte Sant’Angelo,
rincorso dai servi, tentava di salire sul parapetto per lanciarsi nell’acqua,
fu afferrato da alcuni soldati e trattenuto.
Intanto giungevano i primi ed i secondi servi informati del
delitto. Domenico Abbo venne portato a Castel Sant’Angelo e chiuso nelle
prigioni di quello.
Il processo ebbe luogo segretamente, e fu prontamente
spicciato, perché premeva all’autorità di evitare l’enorme scandalo. Intanto si
era fatto correr voce che il cardinale era morto per improvvisa sincope e fu
severamente ingiunto ai domestici di parlare del fatto. Ma di molte ciarle
erano già state fatte e la verità trapelava nel pubblico.
La notte del 3 al 4 ottobre 1849 fui chiamato nel forte di
Castel Sant’Angelo e quivi sull’albeggiare mozzai la testa al prete dissoluto.
Domenico Abbo aveva svestiti gli abiti sacerdotali e gli erano stati raschiati
i polpastrelli delle dita, colle quali aveva tante volte amministrata la sacra
particola, e la tonsura per sconsacrarlo. Egli si era cinicamente confessato di
tutte le sue oscenità, menandone vanto, ed entrando ne’ più minuti particolari.
Esortato a far atto di contrizione, per meritarsi la grazia celeste, rispose
beffandosene:
— Ho goduto un cardinale, spero di aver buona fortuna anco
col diavolo, lasciate che me ne vada all’inferno.
Chiese ed ottenne di non essere né bendato, né legato.
Camminò imperterrito e con saldo passo dalla carcere al posto ove era stato
eretto il patibolo, guardò sorridente il patibolo e porse la testa alla mannaia
dopo aver esclamato:
— Tutto è finito.
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