— Alcuna invidia mai, gramo bifolco,
Io non ebbi di te, sebben sì dura
Opra mi sia quel profondarti il solco,
E franger la maggese, e a mietitura
Carreggiarti il frumento, e poi le botti
Gravi portarti dopo svinatura.
Ché senza affanno a me volgon le notti
Nella fumida stalla; e tu ti sdrai
Senza letto né pace in tristi grotti.
A me ferrana e lupinella mai
Non mancano; tu, dopo la fatica,
Spesso, fratello, un solo pan non hai.
Solo pel tuo signor cresce la spica,
Verziga l’orto; e sol per lui quel vino
Che tu ne spremi dà la vigna aprica.
Chi più gramo di te? Non l’uccellino
Che svola e becca, pur tra nevi e geli,
Quanti germi ha la zolla e fior lo spino.
Non pur quelle che sotto aperti cieli
Van pecorelle per la valle sola
Brucando i cespi ed i rïarsi steli.
Nulla tu sei! Tu pieghi alla parola
Del tuo signore; a lui, tu, senza saio,
Vedi filare quella tua figliola
E lana e lino. Poi, quando è brumaio,
Scalzo mi segui e, servi, andiamo insieme
Per le colline morse dal rovaio.
Fra le porche gelate stride e geme
L’aratro: io vò sereno, ché chi bene
Si nutre il gelo e l’opera non teme.
È mezzogiorno: roco il suon ne viene
Dal piano; e tu quel pan, che ti dispensa
Scarso il padrone per nudrir tue pene,
Biasci pensoso. A me s’apre l’immensa
Campagna con sua fresca erba odorosa,
Più lieta e liberale d’ogni mensa.
Tali i nostri destini. Né mi è cosa
Dolente il giogo, poiché tu sopporti
Giogo più grave, e pieghi dolorosa-
mente la fronte invidïando i morti.
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