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Siamo giunti prima di Leydet.
Egli è entrato un po' corrucciato. I giornali avevano incominciato a metterlo
in burletta e a farlo diventare un giudice istruttore da commedia. Si vedeva
ch'egli era seccato o doveva avere ricevuto una ramanzina scritta. Tuttavia non
appena vide la Steinheil
nei grandi veli che le davano un'aria così addolorata, con il volto bianco come
se fosse uscita da un lungo bagno di latte si è sbronciato.
— Segga, le disse additandole la
sedia. Usciere fate entrare Alessandro Wolf.
È un uomo formidabile. Ha delle
braccia che sembrano colonnette di marmo. Una testa massiccia. La giacca alle
spalle pare stia per scoppiare. Ritratto fisico. Ventinove anni, faccione
ampio, alto, vestito della carne biancastra dell'alcoolizzato, naso forte e
grosso alle narici, occhi chiari, grandi, imbambolati, labbra del vizioso che
lasciano vedere la lingua adagiata sul labbro inferiore, baffi neri, spioventi,
staccati al centro boccale, orecchie smisurate, pappagorgia a crespe, petto del
tirapugni, aspetto d'uomo pesante, pachidermico.
— Madama, incominciò Leydet, con
voce insinuante, mantenete sempre le vostre accuse contro il figlio della
vostra cuciniera?
Alessandro Wolf si è voltato,
l'ha guardata negli occhi che in quel memento parevano metallici, con
crispazioni labiali, stringendo i pugni come per trattenersi l'impeto interiore
di andarle sopra a schiacciarla su se stessa.
— Absolument! rispose la
donna del celebre passaggio. Absolument!
È stata una pausa terribile. La carne floscia del suo
collo ebbe dei tremiti.
— Signora, mentite! aggiunse con
la voce palpitante di sdegno e coi suoi denti che scricchiolavano come sotto
l'azione di uno sfregamento osseo. Mentite!
Leydet pregò allora la signora
di precisare le accuse con i particolari e a tutti noi parve che le sue guance
stinte assumessero il colore cadaverico.
— Precisare? L'ho veduto,
— Come avete veduta la perla nel
carnet, signora!
— Veduto coi miei occhi,
sissignore. Siete voi, proprio voi che siete entrato nella mia stanza e che mi
avete lasciata la vita a condizione che io non vi denunciassi. Sì, sì, voi
siete l'assassino di mia madre e di mio marito! Vi vedo correre come un'ombra
spaventata, diss'ella agitata, con la mano tremante, additandolo al giudice con
il dito puntato e la faccia increspata dall'orrore che sentiva nel vederselo
davanti. Eravate così quella notte, con lo sguardo truce, con il riso beffardo,
come adesso, con l'aria assassina come adesso...
— Qualche volta, madama, avete
avuto dei dubbi sul riconoscimento, vi pareva e non vi pareva lui.
— I miei dubbi, sono sempre
stati la mia paura di essere assassinata. Ora non ne ho più: lo rivedo; è lui:
Alessandro Wolf, il figlio della mia ex cuciniera. Dovessi andare al rogo
manterrei la mia accusa. Lo vedo ancora palpeggiare con mani tragiche i biglietti
delle cinque mila lire che mi ha rubata.
— Sgualdrina!
— Tutto quello che volete, ma
voi non vi salverete nè come ladro, nè come assassino!
Non ci fu più ritegno.
Alessandro Wolf era in tempesta. Digrignava i denti, si morsicava i pugni,
stralunava gli occhi, buttava fuori parole di tutti i colori.
— Miserabile, meretrice,
scellerata, donna della strada, adultera, vile creatura! sapete bene che io non
c'entro per nulla nel delitto.
— Sì, sì, c'entrate, voi siete
l'assassino, l'assassino!
— No, no, no e poi no!
rispondeva con accenti di collera violenta Alessandro Wolf. Voi mentite, voi
siete una mentitrice, un mostro, un infame, una donnaccia che porta sventura a
tutti coloro che vi conoscono. Nessuno vi può credere, nessuno vi crederà.
Siete troppo bugiarda e troppo sfacciata.
— Negate fin che volete. Io sarò
creduta. Voi andrete al patibolo. Consegnerò io la vostra testa a Deibler e
vendicherò così la morte di mia madre e di mio marito, i miei poveri morti... aggiunse
scoppiando in lacrime.
Alessandro Wolf non ebbe più che
serque d'ingiurie. Era lo scozzone che l'aveva finita con i riguardi. Egli
esumò tutta la fraseologia fracida e scurrile dei bassifondi. La coperse di
oltraggi fangosi fino a quando intervenne il magistrato a far cessare il duello
fra chi voleva mandare al patibolo e chi non voleva andarvi, ordinando
l'entrata della signorina Marta, figlia dell'accusatrice. Fu una scena che fece
venire le lagrime agli occhi e che ammutolì anche Alessandro Wolf.
La giovine piangente si gettò ai
piedi della madre, baciandole l'abito e supplicandola di dire la verità.
— Mamma, mamma, confessate, dite
tutto, dite tutto, ve ne supplico!
La madre accarezzava la testa
della figlia e la figlia continuava a singhiozzare fra le gonne della madre. Si
aspettava un finale che assolvesse Wolf, ma la Steinheil, dopo essersi
asciugati più volte gli occhi, si alzò come sicura di se stessa, e con voce
solenne, come se fosse stata davanti ai cadaveri, disse: «Giuro alla presenza
di mia figlia, che io sono assolutamente estranea alla tragedia crudele di casa
mia, come giuro che l'assassino dei miei cari morti è Alessandra Wolf».
Nuova scena di commozione. La
figlia coperse di baci la mamma con un immenso sospiro filiale.
— Non dubitavo della tua
innocenza!
Leydet licenziò la signorina con
un gesto e ricominciò l'interrogatorio.
— Madama Steinheil, non ci sono
più dubbi. Voi persistete nell'accusa: Alessandro Wolf è l'assassino.
— Sì, è lui, rispose la vedova del pittore.
Alessandro Wolf era li lì per
abbandonarsi alla furia, ma il magistrato gli impose di rimanere tranquillo.
— Il motivo del delitto? Che
cosa è venuto a fare da voi Alessandro Wolf?
— Per godermi, replicò madama
Steinheil.
Dopo una interrogazione più
incalzante dell'altra, madama Steinheil ha fatto allibire anche il giudice:
— Che volete che vi dica? Le
persone che sono venute da me ieri mi hanno detto che Alessandro Wolf è il
colpevole. Hanno continuato a ripetermelo e hanno finito senza dubbio per suggestionarmi.
Io dunque non posso che dire questo: egli è il colpevole!
La suggestione che le aveva
fatto accusare Remy Couillard era un'altra volta la lavoratrice della sua
sventura. Si è dovuto sospendere la seduta per paura ch'ella svenisse. Le si è
lasciato un'ora di riposo. Alla ripresa ella fu più aggressiva e più
resistente. Fra lo scambio di invettive atrabiliari ella continuava a dire:
— Sei tu l'assassino! sei tu
l'assassino! Lo giuro! Lo si arresti!
Wolf in quel momento si è
ricordato che otto giorni prima aveva pranzato in cucina di casa Steinheil, con
sua madre, e che lei, passando, gli aveva detto: «buon appetito, caro Wolf».
— E voi avete potuto augurare il
buon appetito all'assassino di vostra madre e di vostro marito? Megera! Megera!
Io e Bizet ce ne siamo andati
scorati. Era dunque un'allucinata? Si rimangiava la confessione, ridiventava
drammatica con le affermazioni, faceva giuramenti solenni e poi cancellava
tutto dicendosi vittima della suggestione. Dopo i confronti tra lei e il Wolf,
stato rimesso al largo come Couillard, per inesistenza di reato, la Steinheil, soggiungeva
Bizet che cominciava a credere davvero la vedova del pittore un'ammalata, è
stata capace di ricominciare la scena in prigione! Non volevo credergli. Ma una
volta che abbiamo potuto trovare un caffè per dissetarci egli mi disse la deposizione
della contessa Alba Ghirelli, e di Margherita Boselli, sue compagne di cella.
Ascoltate. È lei che mi ha raccontato e io non faccio che ripetere, mi disse
Bizet, avvicinandosi a me per non essere udito dal pubblico. Noi l'abbiamo
veduta nella pistola numera 13, se vi ricordate. Ebbene una volta entrata,
verso le dieci, mentre la
Ghirelli era a letto che incominciava a pisolare, la Steinheil pareva lieta
della nuova abitazione, dicendo che il letto era fin troppo soffice. Le due
suore che l'avevano accompagnata, prima di uscirne si curvarono all'orecchio
della contessa, raccomandandogliela, perchè le autorità carcerarie avevano
paura di qualche colpo teatrale. La Steinheil, come avete veduto, era sulla sedia,
con il cappello in mano, che pareva indecisa se coricarsi o aspettare. Senza
che alcune delle condetenute se l'aspettassero ella si è alzata, girò concitata
per la stanza, domandando loro se la conoscevano.
— Io sono, disse, Madama
Steinheil. Sono qui perchè ho mentito, ma ne uscirò presto. La menzogna non può
essere un delitto.
Poi, emozionata da qualche
ricordo, si mise a piangere. Si svestiva buttando gli abiti dove andavano,
pronunciando pensieri rotti, senza filo. Le compagne la consolavano dicendole
che non bisognava disperarsi. A letto era agitata. Durante la notte si è
voltata, rivoltata, alternando i singhiozzi alle lagrime copiose, ai brividi
che le facevano stridere i denti, alle esaltazioni che facevano paura alle
altre. Sovente domandava: dormite?
Alla mattina era invece di una
calma assoluta. Non pareva più l'esagitata della notte. Diede a tutte il buon
giorno, si occupò del regolamento carcerario per vedere se l'accusata poteva
conservare nella toilette una certa eleganza, poi suonò, si fece portare dalla
sua borsetta uno specchio, il bastoncino di rossetto per colorarsi il viso e
della polvere di Kohl per farsi i nerucci che rendono tanto interessanti gli
occhi, Si guardò a lungo nello specchio, con tocchi e ritocchi, poi terminata
l'acconciatura, disse:
— È venuta l'ora del caffè.
Fece la prima colazione, scrisse
molte lettere con mano febbrile, s'informò se le lettere giungessero presto
alla loro destinazione, raccontò un po' della sua vita per mettersi tra loro
come una donna che aveva vissuto, poi raccontò la menzogna della perla.
— Ero così torturata dall'idea
di trovare un colpevole che ho perduto la testa e ho messo la perla nel
portafoglio di mio cugino. Sua moglie, che mi aveva veduta compiere l'atto, è
venuta a me col revolver in mano:
— Meg, se tu accusi mio marito
ti uccido!
La minaccia mi ha scosso e fatto
paura. Ecco perchè poi ho messa la perla nel taccuino del mio domestico.
E come è ritornato in ballo
Alessandro Wolf? Per autosuggestione? È la fissazione più duratura. Anche dopo
averla smentita in carcere ha detto:
— È vero, ho detto la verità.
Nella notte dal 30 al 31 maggio io ho veduto penetrare nella mia stanza
Alessandro Wolf. Egli aveva in mano una bugia che depose sul mobile al disopra
del quale è uno specchio. Lo specchio mi ha riflesso la sua faccia.
— Siete sicura di averlo
riconosciuto? le domandò ansiosa la Ghirelli.
— Come sono sicura di vedere
voi. Se non fosse lui direi che è il suo doppio, tanto era perfetto.
— Allora perchè vi siete
ritrattata davanti il giudice?
— Ho mentito, è vero, ho mentito
incessantemente. Oggi, ieri, come nel giorno in cui ho ammaginato la storia dei
leviti. Forse che sapevo quello che mi facevo? Ero pazza. Era necessario un
colpevole... Erano necessarii dei colpevoli. Io non so nulla del delitto... Non
ne so nulla... nulla... nulla... Ho affermato che l'assassino è il figlio di
Marietta. Se mi son ritrattata è perchè ho avuto paura.
— Perchè? le ha domandato
un'altra volta la Ghirelli.
— Perchè mi ha terrorizzata, mi
ha detto che se l'accusassi direbbe che sono stata io a dargli 1'incarico degli
assassinii.
Continuò a parlare tra sè,
passando da una cosa all'altra, contraddicendosi spesso, fino a quando si è
fermata su un pensiero che parve alle condetenute tragico.
— D'altronde, disse, si
accomoderà tutto. Non manca che un suicidio e il suicidio dovrà avvenire.
— Il nome? domandai a Bizet.
— Marietta Wolf.
Ella aspetta la morte violenta
di Marietta Wolf. Ah! ah! Bizet fece una risata di sarcasmo e io e lui ci
avviammo a pranzo, mentre per le strade si strillava il Mattino con l'uomo
della notte, il nuovo complice che stava per essere lanciato sulla piattaforma
criminale.
Non appena partito il tram da
Parigi, io e Bizet siamo andati nel vagone restaurant a sgarbugliarci i
pensieri con la bibita e a leggiucchiare i giornali quasi tutti col battimano
per Briand che aveva fatto passare il dossier della Steinheil dalle mani
di Leydet in quelle di Andrè, uno dei giudici più minuziosi e più cautelosi del
Palais.
— Il ministro ha fatto bene a
far cessare il sottovoce che sgretolava la fama di magistrato onesto del
Leydet. L'amico di casa Steinheil non poteva continuare la parte di giudice
istruttore quando la signora della villa dell'impasse Ronsin da vittima
dei cambrioleurs diventava, con le sue confessioni, la protagonista
della tragedia.
— Dunque ormai la vostra
convinzione è fatta.
— Dal giorno in cui i miei cani hanno fiutato nella
Steinheil l'assassina, la mia convinzione è diventata certezza. Ma la mia
convinzione non deve mai sopraffare il documento. Ecco perchè noi siamo in viaggio
per il castello di Maurizio Borderel, il quale ci deve attendere questa sera
col suo automobile alla stazione di Mézieres, nelle Ardenne.
Ci fu una pausa lunga. Bizet,
seduto al tavolino, con una gamba sull'altra, fumava un trabucos, guardava le
campagne che passavamo a volo d'ucello, e stringeva nelle mani il suo berretto
da jockey. Di tanto in tanto i suoi occhi si chiudevano con crispazioni alle
occhiaie come se fosse stato sotto l'azione di qualche puntura d'ago.
— Non posso mai percorrere
questa linea tracciata ai nostri disastri militari, senza che mai veda davanti
la folla dei nostri alti gallonati, dei nostri marescialli, dei nostri
generali, del nostro Stato Maggiore, l'uno più tenebroso dell'altro. Pareva che
tutta quella gente che doveva sviluppare il «piano» fosse composta di Napoleoni
che avessero al proprio dorso la gloria d'Austerlitz. Lo stato maggiore dei più
alti spallinati era seguito dalle ganze parigine. I prussiani si preparavano a
bloccarli e a batterli come tanti uomini di gesso e loro crapulavano, si
abbandonavano a orgie chiassose rimaste nella memoria delle popolazioni
terrorizzate dei villaggi e delle città affollate di uniformi. Che momenti
d'indicibile scoramento, caro Baragiola. C'erano generali e marescialli che si
facevano la toilette due o tre volte il giorno come quando frequentavano i
salotti delle mondane parigine.
L'imperatore che tutti credevamo
una testa militare, che tutti credevano l'erede del coraggio e dell'arditezza
napoleonica era anch'esso istupidito dal bagascismo imperiale. È andato contro
l'esercito ch'egli supponeva composto di barbari dai capelli rossi, armati di
fucili a pietra focaia, con un materiale enorme che gli permettesse di
costruire, meccanicamente, in meno di un'ora una piccola Tuilerie: tappeti molli,
mobili eleganti, tovaglierie ricamate nelle fabbriche di Calais, cristallerie
di Murano, argenterie e oreficerie lavorate e cesellate per i pranzi ordinarii
e di gala, letti soffici per lui e per il suo seguito, donne nude di bronzo
sparse per i salottini improvvisati, cortinaggi di una ricchezza sfarzosa,
birra fresca che gli forniva la casa viennese della signora Drecher, biscotti
detti Madling di Commercy, dolci, confetture, di uva spina e di lamponi,
di Bar-le-Duc, sardine di Nantes, datteri, susine, mostarde aux fines herbes,
centerbe degli Abruzzi, vino Geres, vieux Cognac, champagne che gli mandavano i
più noti fabbricanti di vini di Chalôn sulla Marna e un treno che andava e
veniva da Parigi tutti i giorni per la cucina imperiale.
Basta, parliamo d'altro. La Francia si è rialzata dal
suo disastro e la mia collera postuma non ha più ragione di essere.
Mi offerse una sigaretta, si
mise in testa la berretta di seta greggia aderente ai capelli e, passeggiando,
domandava al cameriere a che ora si andasse a tavola per il lunch.
— Alle dodici, signore.
Il treno filava in direzione di
Reims e Bizet, con la mano penzolone per il vano dello sportello, sulla linea
destra, mi additava un punto lontano, dicendomi che egli vedeva Metz con lo
châlet imperiale a fianco, dove era incominciata la sventura della Francia e il
disfacimento dell'impero e dove Napoleone III, a pochi giorni dalla disfatta
completa, banchettava con una delle sue drude, fatta venire col treno speciale
sul teatro della guerra.
— Ah, se i soldati avessero
saputo!
— Quelli intorno a lui, lo
dovevano sapere, perchè l'alta biche è discesa all'entrata dello châlet
da un tiro alla Dumont, avvolta in un mantello di ciniglia bianca, foderato di
seta gialla e bordato di pelli di volpe lunghi e neri, sotto un cappello
dall'ala che si piegava da tutte le parti senza che vi rimanessero le
piegature. Ella era senza dubbio una cliente del grande habilleur
(vestitore) della via della Pace, vale a dire del celebre Wörth, messo in voga
a Parigi da madama di Metternich nel 1858.
— Un'altra contessa di
Castiglione, suppongo.
— Contessa del rigagnolo
parigino, volete dire.
— Allora era più bella.
— Più bella della Castiglione
era un po' difficile. La sua entrata a una soirée di Corte ha fatto
sospendere le danze, tanto la sua bellezza abbagliava. Le è andato incontro lo
stesso imperatore con la mano tesa e con grande dispetto della imperatrice. La
vostra compatriotta divenuta l'amante del sire delle Tuileries era di una
bellezza indescrivibile. Armonie di linee, profilo puro, occhi lunghi e pieni
di fuoco, bocca piccola che pareva dipinta, collo slegato che sorreggeva una
testa piena di capelli superbi, con la gola libera da ogni freno e tutta
ammantata di una carne che direi quasi diafana. Quella del rigagnolo parigino
era carica di piaceri sessuali.
In ultimo Napoleone non aveva
più gusto che per la bellezza grossolana, sensuale, fatta di spalle, di
fianchi, di seni, di braccia, di cosce con abbondanza di carne.
Non amava che il donnone, la
donna pesante. Pazienza. I re e gl'imperatori non vogliono sottomettersi alla
legge del matrimonio. Ma dare lo scandalo in giorni così tristi, in faccia a
tutto l'esercito, che dico! in faccia a tutto il Paese, di occuparsi dei suoi
sensi e del suoi adulteri, cinque o sei giorni prima della vigliaccheria di
Bazaine, vuol dire che la patria fremebonda non era con lui. E in chi era fra
la moltitudine che indossava la montura cordonata d'argento e d'oro, coperta al
petto di decorazioni? In nessuno, aggiunse Bizet, buttando nell'aria il
mozzicone del suo trabucos. Secondo quei signori dai capelli illustrati, dai
grandi mustacchi la Landwehr
(milizia territoriale) e la
Landsturm (leva in massa) erano composte di vecchioni armati
alla guerra con la tabacchiera e la bottiglia dell'acquavite per la mattina e
il fiore di sambuco per il decotto della sera. Sciocchi!
— Napoleone è stato proprio
sfortunato.
— Non ha avuto un generale che
valesse due soldi. compreso Mac-Mahon. duca di Magenta.
— Il quale duca di Magenta si è
lasciato ferire in tempo utile da una scheggia di granata per mettere tutte le
responsabilità e il comando supremo sulle spalle del generale Ducrot, un altro
pauroso, un altro senza idee per una grande guerra, come il vostro Baratieri,
caro a quel vostro lombrosiano di Sighele passato l'altro giorno da Parigi.
Ducrot ha riversato tutto su Wimpfen, un incapace giunto dall'Algeria sul
teatro della guerra due o tre giorni prima che si tentasse di sbloccare Bazaine
dalla piazza forte di Sedan, divenuta un incendio in poche ore.
A furia di chiacchere eravamo
giunti al lunch. Il restaurant è popolato. Noi restammo al nostro tavolino che
ci dava il piacere di vedere tanta distesa di verde solcata di ricordi del '70.
Mangiammo delle ostriche con pepe e succo di limone e del pesce in bianco con
sciampagna. Rifiutammo la carne e ci facemmo portare un piatto di tartufi alla
provenzale, saltati in un olio finissimo, di un gusto squisito. Il caffè era
più saporito di quello che si beve a Venezia. Aveva un profumo delizioso. Il
treno era entrato nella zona delle Ardenne, con la curva che lo metteva in
linea retta verso Mézieres, e noi accendevamo la sigaretta centellinando il
cognac. A tutti i tavolini si parlava della Steinheil come a Parigi. Cesare
Lombroso era sballottato da una bocca all'altra per il suo articolo sull'eroina
dell'impasse Ronsin. Il signor Pichù, come lo chiamavano coloro che
facevano colazione con lui, era il più scalmanato. Tra un pensiero e l'altro
intercalava fiotti di ingiurie che contrastavano con il suo faccione carnoso e
pulito, con gli occhi di un azzurro chiaro e con le faldelle bionde che gli
davano la grand'aria di un lord d'antico stampo. Con in mano la Rivista di
Parigi diceva agli amici che il genio dell'antropologia criminale aveva
commesso la bassezza di consegnare anticipatamente una donna sub judice alla
galera o al carnefice.
— Come? gli domandarono tutti.
— Con il suo articolo. Egli non
ha studiato la Steinheil
circondandola dei dubbi che deve sentire ogni galantuomo fino a quando la
giuria ha parlato, ma ha detto chiaro e tondo che è una delinquente nata.
— E non lo è forse? domandò il
mio amico Bizet, mettendosi spontaneamente in mezzo alla discussione fra lo
stupore generale. Io sono forse meno lombrosiano del signore così conturbato
per un giudizio che esce dai fatti portati in pubblico da tutti i giornali.
L'uomo, o meglio, il tipo umano
morale ed equilibrato, costruito dal professore torinese per amore di polemica,
mi pare non esista. Tutti vedono, anche in questo restaurant, che ciascuno di
noi ha in sè qualche deviazione che lo distingue dal tipo perfetto di Lombroso.
— Se si dovesse guardare alle
deviazioni fisiche, Lombroso dovrebbe precederci tutti nel suo museo criminale,
interruppe un signore che diceva di averlo veduto anni sono a un congresso. È
un professore che fisicamente manca da tutte le parti.
— D'accordo. Io non l'ho veduto
che in fotografia e non mi è parso che uno sgorbio.
— È alto un po' più di un
paracarro, porta gli occhiali con le stanghette d'oro e ha più lui della
scimmia di ogni soggetto studiato per il suo museo antropologico.
— D'accordo! rispose Bizet. La
sua deficienza fisica non è in discussione. Piuttosto vediamo s'egli, come
studioso di delinquenti, non abbia diritto di dare la sua opinione prima dei
giurati.
— No! rispose Pichù con il viso
rimasto di cera e con i pugni sul tavolo. No! nessuno deve avere il diritto di
precedere il giudizio della giuria se non per preparare un verdetto di
assoluzione o di colpevolezza, cosa che può avvenire in una società barbarica,
non in Francia, dove sono cadute tante teste per giungere alla eliminazione
delle ingiustizie più scellerate. Tra le scelleratezze metto quella di
influenzare i verdetti. Oh, dite, deve essere permesso a un uomo divenuto
celebre a furia di paradossi... scientifici, di dire di una donna sotto
un'accusa che può costarle la testa, che è una degenerata nata da parenti che
abusarono di Venere e di alcool, con un fratello alcoolico e una madre
immorale? Deve essere permessa, continuava Pichù, con la rivista in mano, a questo
microcefalo dell'antropologia di dire della donna sub judice, che manca
di senso morale, che ha i gusti precoci del male, che è andata sposa dopo avere
avuto un figlio o una figlia, che odiava ferocemente la madre e il marito, che
pur tolleravano la sua condotta sgualdrinesca, che probabilmente per il suo complice
è stato pagato con il prezzo del suo corpo? Non è questo il modo di mandare una
disgraziata alla ghigliottina col treno lampo? Cari signori, per capire la mia
indignazione, non avete che da mettervi nei panni di un accusato. Che cosa
direste se io, mentre voi siete sotto chiave, andassi frugando nella vostra
vita, nelle vite dei vostri antenati, dei vostri bisavoli, dei vostri trisavoli
per cercare tutte le malattie di coloro che vi hanno preceduti sul grand'albero
genealogico e mettervele sulla gobba come un peso della vostra delinquenza e
trarne un giudizio che vi presentasse alla opinione pubblica, come ha fatto
Lombroso della Steinheil, come autori dei delitti di cui siete accusati?
— Se mi permettete porto la mia
tazza sul vostro tavolo, disse Bizet tranquillamente, prendendo posto intorno
alla tavola di Pichù senza aspettarne il consenso. Voi capirete bene, o
signori. che con le idee del signor Pichù il giornalismo non avrebbe più
ragione di esistere.
— Quello del bluff, quello che
gonfia gli avvenimenti, che fa del sensazionalismo di mestiere, che fa denari
sulle catastrofi individuali o sociali, che va nelle intimità della gente come
il Matin, per esempio, o come il Journal, suo rivale, per
esempio, giornalismo condannato alla sparizione anche da Roosevelt.
— Faccia il politico, faccia il
cacciatore di leoni; non faccia l'intruder, l'intruso; l'ex-presidente
della Repubblica al di là dell'Atlantico. Egli vorrebbe proteggere la sua
poltroneria giornalistica ingiungendo a tutti gli altri di andare adagio.
— Ridicolo! La penna del
quotidiano non è per la sua mano pigra. Egli ha i crampi al braccio. Il suo
cervello ha i movimenti del ruminante.
— Non c'è giornale che non
vorrebbe averlo come redattore capo.
— Per il suo passato, signore.
Egli è un'insegna alla Barnum.
Attirerebbe i lettori come il famoso elefante Jumbo attirava gli spettatori. Il
suo primo articolo sulla «Outlook» mi dà ragione. È stato ripubblicato
dai giornali di tutto il mondo, perchè l'autore ha lasciato ieri la sommità del
potere nazionale. Se fosse stato l'articolo di uno sconosciuto, vi garantisco,
signori, che avrebbe avuto per tomba il cestino. Non c'è direttore che avrebbe
avuto il coraggio di stampare una prosa indolente, stantia, con idee canute,
con la sintassi dei vecchiardi sempre impacciati a legare i loro periodi. Via,
lasciamo l'intruder. Come giornalista, egli è un pesce fuori d'acqua.
Io, direttore, non gli darei un dollaro la settimana per il suo lavoro di redazione
e a condizione che non lavorasse che con la gomma e la forbice.
— Voi chi siete, signore, che
parlate dell'ex presidente della repubblica americana con tanta petulanza? Io
sono un americano, sapete?
— Non m'importa, signore, chi
siate. Quello che importa, rispose Bizet un po' eccitato, è che il signor
Roosevelt non è giornalista. I proclaim it in the face of the world — lo
dichiaro in faccia al mondo, signore.
— Io non parlo mai con persone
sconosciute. Vi domando chi siete, signore.
— Sono il signor Adolfo Bizet,
direttore e proprietario dell'agenzia dei detectives in Parigi.
— Colui che ha scovato che la
signora Thaw riceveva prima del matrimonio una sovvenzione di venticinque
dollari alla settimana dal signor White, l'uomo ucciso dal marito?
— Sissignore, coi miei detectives
sono andato sui di lei precedenti e ho potuto dimostrare che l'attrice cenava
nei gabinetti particolari, cambiava gli amanti o i protettori sovente come la camicia.
— Le mie congratulazioni per il vostro fiuto, rispose
Pichù cambiando il tono della voce e tendendogli la mano. Garçon, portateci la
bottiglia del brandy con delle sode. Voi accetterete il bicchiere
dell'amicizia, non è vero?
— With pleasure, con
piacere, rispose con accento prettamente nasale, come un americano di Washington.
Venite qui anche voi, aggiunse Bizet, facendomi segno di avvicinarmi alla
tavolata. Vi presento disse egli, un italiano, il signor Baragiola, a Parigi a
studiare la Steinheil.
— Egli è dunque un giornalista,
suppongo?
— Per ubbidirla, risposi con un
inchino.
Mi strinse la mano scuotendomela come un americano, prese
la bottiglia del brandy e ne versò in tutti i bicchieri, intanto che il
cameriere lo seguiva con la soda.
— Chin-chin, à la vôtre santè, messieurs.
— Alla vostra, risposero tutti.
Dalla veemenza verbale passammo
a servirci dei suoi eccellenti avana e delle sua dolcissime sigarette di
tabacco biondo dorato. Eravamo giunti alla stazione di Rancourt, dove il treno
faceva una sosta di venticinque minuti. Ci sgranchimmo le gambe in su e in giù,
buttando fumo da ogni parte, fin a quando il signor Pichù — si è fermato
accarezzandosi le faldelle e domandando un'altra volta a Bizet se proprio non
riprovava lo scritto di Cesare Lombroso.
— Non sono un sentimentale,
diss'egli. E come dovrei biasimare un uomo che ha faticato tanto per tener
dietro agli avvenimenti e piantare in pubblico una Steinheil quale è stata
nella vita? Voi siete per il silenzio fino a cosa giudicata, come una volta. Ma
una volta, o signore, il giornalismo non era intraprendente e accettava tutto
quello che gli diceva la giustizia, perchè non era abituato a procurarsi le
informazioni. Adesso la si precede. Se io giornalista vado alla ricerca del
passato e del presente di Soleilland, il satiro di Charonne che ha sgozzato una
fanciulla dopo avere abusato di lei in tutti i modi devo aspettare la giustizia
a sguinzagliare la mia indignazione? L'assassino della piccola Marta è sul mio
tavolo come un documento vivo e il verdetto dei giurati non mi può dare nè
togliere del mio giudizio, sia esso di assoluzione o di condanna. Prima o dopo
resta, per me, un satiro sanguinario, un'oscenità umana che va dai sogni
erotici agli spettacoli sanguinosi.
Vi parrebbe giusto che io
rispettassi Soleilland e aspettassi ad ammutinare l'opinione pubblica contro di
lui fino alla cosa giudicata? I miei nervi giornalistici non sono così calmi
come quelli di Roosevelt.
— È un'altra cosa, signor Bizet,
il misfatto, Soleilland non era circondato di dubbi come quello della
Steinheil.
— La vostra è una vecchia abitudine
giuridica che esige l'accusato salvo dalla furia popolare fino al giudizio di
dodici persone — persone che molti psichiatri, come il Ferri, per esempio, respingono
dicendole incompetenti. Non c'è transizione. O la si accetta per tutti o non
esiste. È poi vero che ci siano dubbi intorno alla Steinheil? Cesare Lombroso,
per brevità, non ha potuto certamente dilungarsi sul confronto tra la Steinheil del nostro
tempo, e madama Valerie Marneffe del tempo di Balzac.
— Se prendiamo per paragone le
dame dei romanzieri possiamo ammettere come vera anche la creazione fantastica
della piovra di Victor Hugo. Non ci sarebbero più limiti.
— Caro signore, voi confondete
Balzac coi Montepin. La popolazione balzachiana ha il suo stato civile. È gente
vissuta come la Bompard,
la Steinheil,
il Solleillend, il Pranzini e il Troppmann. Non c'è persona che non si sia
incontrata coi papà Grandet, con i signori Rastignac, entrati nel gran mondo
con la chiave d'oro appesa al braccialetto della signora Delfina di Mucingen.
Il criminalista d'appendice, Emilio Gaborieu, non ha mai saputo plasmare una
figura viva e immortale come il signor Vautrin, il genio dei Bagnards o
dei galeotti.
— Voi siete un balzacolatra.
— Non idolatro che me stesso, come Oscar Wilde. Io non
cito personaggi di stoppa. Gobseck è uno strozzino che io ho conosciuto nei
miei giorni crucciosi. La gotta di Birotteau è la gotta di tutti i mangiatori
di fagiani e pernici. E chi non ha conosciuto Luigi Lambert?
— Vale a dire Balzac in persona?
— In persona. Madama Marneffe è
la bellezza venale nascosta nella onestà borghese.
— In treno, signori, si parte.
In Francia c'è un po' più di
strepito che in Inghilterra alla partenza dei treni. I conduttori sono come
agitati per i passeggeri. Alzano il braccio e battono le mani e chiudono gli
sportelli con fracasso continuando a gridare che si parte. Pichù, vero yankee,
freddo, guarda l'orologio a pochi passi dal predellino del vagone dicendo:
— We have two minutes more
— abbiamo ancora due minuti. We no need to hurry ourselves — non abbiamo
bisogno di affrettarci.
Pichù rimase per ultimo,
buttando in aria il fumo del suo grosso sigaro, salendo e chinandosi lui stesso
fuori del finestrino a chiudere lo sportello. Siamo rientrati al restaurant con
il margine del cielo in fiamme che annunciava incominciato il tramonto. Ci fu
un po’ di silenzio, interrotto dalla versatura del brandy con soda come
aperitivo. Pichù riprese in mano la rivista domandando a Bizet se approvava il
periodo che stava per leggere.
— Quindi essa, la Steinheil, si è fatta
trovare imbavagliata, legata, e delirante, comodo espediente quest'ultimo per
non accennare ai fatti successi.
— Non è mandarla in galera?
— Se i fatti sono quelli, che
colpa ha il signor Lombroso? non è forse provato, e provatissimo che la
bambagia non è mai stata in bocca e salivata dalla protagonista del dramma?
— La Steinheil nega.
— Caro signore non siete ancora
a Sherlock Holmes, il secondo investigatore giudiziario di ordine superiore in
Europa, secondo la dichiarazione di un suo cliente. Se aspettate ch'ella
confessi! La Meg
della Parigi occulta si dice che continuerà a dirsi, con abbondanza di lacrime,
innocente. Non per nulla il professore torinese l'ha appaiata come mentitrice e
criminosa alla Marneffe, una donna che le assomigliava nell'andare alla ricerca
dei ricchi che si innamoravano di lei per farsi pagare il prezzo che valeva,
secondo l'espressione di Walpole; una maritata ambiziosa che accettava la
depravazione come conseguenza e si decideva a far fortuna divertendosi, senza scrupoli
sui mezzi, una malmaritata che aveva fatto del marito un complice e un
reclutatore d'uomini intorno alle sue gonnelle... Nessun giornalista francese è
stato così felice nel paragone. Le Meg e le Valerie Marneffe sono le peggiori
fra le femmine di Parigi, perchè invece di avere il lampione rosso all'entrata
che avverta gli uomini che è la insegna luminosa delle femmine di tutti,
circolano nella vita come maritate oneste, come virtù ambulanti, senza mai
lasciar vedere i bisogni urgenti e volgari dei loro ménages.
— È una tirata morale che avete
fatto... Je m'en fiche, sapete della morale. Essa è buona per le beghine
e per i filantropi. Io sono del mio tempo. La donna maritata è una merce in
tutti i paesi. La Thaw
in America, la Steinheil
in Francia, la Crawford
in Inghilterra, la
Cifariello in Italia, la Draga in Serbia e via via. Per sopprimere
l'ipocrisia maritale bisogna metterle tutte sul mercato e non avere fisime per
alcuna. È una proprietà? Pagatela! Voialtri moralisti poi siete ingiusti,
diss'egli allungando le gambe come annoiato. Accusate la donna... E l'uomo non
c'entra per nulla? Senza di lui non ci sarebbe l'insidia... L'amore non è che
un tradimento dell'egoismo e dell'interesse... Lasciamo la morale.
— Non m'interessa. Io desidero
solo sapere da voi se approvate lo scienziato che si vale della sua fama
mondiale per mandare in giro delle sentenze da padre eterno. Pazienza Sherlock
Holmes. Le sue sentenze e i suoi metodi di sgrovigliare le questioni ch'egli
chiama giudiziarie non fanno nè caldo nè freddo. Ma quelle del professore si
fanno sentire nella opinione pubblica. E allora, caro signore, io vi domando se
non è sconveniente affermare con tanta sicumera che la Steinheil ha preparato e
facilitato il delitto col dare una o due delle chiavi dell'appartamento ai
complici, col mandar via i cani di guardia, col nascondere o impegnare i
gioielli, col lasciar vuoti gli astucci per fuorviare la giustizia e far
credere a un assassinio a scopo di furto, col mettere in scena tre mascherati e
una donna dai capelli rossi per poi finire coll'accusare Couillard e Wolf.
A leggere il centone di Cesare
Lombroso si direbbe che lui era alle calcagna dei cambrioleurs con la
lanterna cieca. Ridicolo! ridicolo!
— Invece di essere alle calcagna dei delinquenti il professore
Lombroso non ha fatto che seguire a passo a passo la narrazione e gli
avvenimenti che si sono svolti intorno alla Steinheil. Non è forse vero che è
sparita una chiave dell'appartamento dal tascone del grembiale del domestico?
— È vero, ma chi l'ha involata?
È una supposizione di Lombroso ch'essa sia stata sottratta dalla padrona di
casa. E che bisogno aveva di farlo se era sua?
— Anche Sherlock Holmes, caro
signore, vi direbbe che la sparizione della chiave fa parte del trucco
dell'invenzione dei cambrioleurs.
— Chi lo dice? il professore Lombroso?
Pichù accompagnò il nome con una
risata che fece impallidire Bizet.
— La chiave o le chiavi fanno
parte del trucco come il romanzo stato trovato in casa della Meg, riprese Bizet
dopo una lunga pausa. Tra chiave e romanzo c'è legamento, c'è una idea unica:
la preparazione. Sapete che cosa si legge in quel romanzo d'appendice?
— La narrazione della Steinheil?
— Qualche cosa di simile. C'è un
capitolo intitolato la scena del legamento.
— Ebbene?
— Ella ha studiato il delitto
nel romanzo, come Lemoine ha studiato la fabbricazione dei brillanti
artificiali nella Stella del sud di Giulio Verne. Tanto l'uno che
l'altro sono plagiarii.
Pichù si rimise a ridere
sgangheratamente, tenendosi con le due mani il ventre che sussultava della sua
risata convulsa.
— Ah! ah! ah! ah!
— Voi potete ridere, signore, ma
Lombroso ha veduto tutta l'orditura del dramma. Innocente! Basterebbe
ricordarsi del giorno in cui si fingeva in letto ammalata e delirante. Non
appena ha udito lo strepito all'apparecchio telefonico si è precipitata dal
letto ed è accorsa all'ordigno auricolare per dire al signor Borderel con voce
gioiosa ch'ella era lieta di ascoltarlo.
— È una prova della sua
innocenza, caro signore. Il suo interesse sarebbe stato di rimanere nella
finzione se, come dite voi, si fosse dato il compito di fingere. Oh, che
burloni sono i moralisti! concluse Pichù con un'altra risata rumorosa.
Sospettano di tutto e di tutti. In nome della loro morale pietosa, fredda,
grigia, insensibile alle emozioni umane farebbero riappendere Gesù Cristo!
— Eppure nella telefonata c'è
tutta l'imprudenza delle criminali. Chi ha chiesto la comunicazione, con
Borderel? La Steinheil.
Dunque l'ammalata che
farneticava, che urlava, che spaventava, che fingeva di vedere nella nebbia del
sogno gli assassini mascherati e la donna rossa con la rivoltella puntata alla
tempia ha potuto uscire dal delirio due volte, come se fossero state due
sospensioni meccaniche, per correre al telefono prima per la comunicazione e
poi per l'ascoltazione! Eh, via! ci vorrebbe Sherlock Holmes, il falso
detective, per ingoiare simili fandonie!
Pichù aveva acceso un altro
sigaro e rispondeva o metteva tra un pensiero e l'altro di Bizet una spallata.
— I fatti sono fatti. Se il cambriolage,
vale a dire il furto, non fosse uscito dal romanzo di appendice con i ritocchi
della Steinheil, i malfattori di professione non sarebbero andati nella casa
dogli Steinheil senza gli strumenti di lavoro. Sarebbero personaggi da teatri
popolari i ladri che penetrassero nell'abitazione degli altri a mani vuote come
quelli che han rubato e assassinato due persone nella villa del passaggio
Ronsin. Come potevano sperare di trovare in casa la ovatta per tamponare loro
la bocca, la corda per strangolarli, la fune per legare la Steinheil in letto?
Siamo sempre nel trucco. Non ci sono ladri che dopo un doppio assassinio si
compiacciano di vuotare gli astucci delle gioie, di togliere una perla da un
anello per buttar sul tappeto l'oro, di lasciare sul tappeto un biglietto da 50
franchi, di bere il cognac... E il furto dei bijoux smentito dalla
stessa Steinheil, non vi convince ch'era tutto un trucco, che madama Steinheil
rappresentava la commedia?
— Mi sono ingannata! ha risposto la Steinheil, quando il
giudice è riuscito a raccogliere le gioie e a dimostrarle che aveva mentito.
Grazie tante. È una confessione. Non si sparpagliano gli astucci vuoti, non si
scastona la perla, non si nascondono le spille e i braccialetti senza una
ragione. Quale? Quella di dimostrare che il motivo del delitto fu il furto.
— Voi dimenticate che la Steinheil ha soggiunto
che se avesse mentito vi avrebbe messo un po' d'astuzia.
— È quello che rispondono tutti
coloro che si trovano colti nella tagliola. Se fosse vera la sua dichiarazione
non avrebbe aspettato ad accorgersi dell'errore quando era scoperta. Si è
corretta e ricorretta tante volte che una volta di più non avrebbe significato
nulla. E i denari? Una volta colta con la mano nel sacco ha fatto come con le
gioie.
— Mi sono ingannata!
Uno psichiatra francese ha detto
che la spinta al delitto è delle più comuni alle delinquenti volgari: la
cupidigia. E il professore non si è sbagliato. Con la morte della madre, la Steinheil si impossessava
di una eredità di novanta mila lire e con la morte del marito si impadroniva di
Borderel, un uomo che vale più di 200 mila lire l’anno, signore. Il professore
ha detto che la signora del passaggio Rensin è una delle criminali più
imprudenti e non ha sbagliato. Dopo il delitto, mentre lasciava credere al
Borderel di non pensare che a lui, inviava lettere continue al generale
Gallifet, un vecchione sanguinario della Comune, e un divoratore di bellezze
femminili, e al generale Dalstein. Il grande professore non poteva essere,
sommariamente parlando, più documentista.
— Nè lui nè voi avete capito la Steinheil, rispose Pichù
con gli occhi allargati del pazzo. I moralisti non capiscono un accidente.
Interpretano i fatti. Io non me ne contento...
— Come me...
— Non come voi... Io mi contento
di accettare lo avvenimento nel suo ensemble. E nel suo assieme voi
vedrete che non c'è giurato che la condanni. Una colpevole, come la dite voi e
il professore zoliano, non come i Mesmer e i Cagliostro in gonnella, come ai
tempi della Pompadour, per scoprire i cambrioleurs... gli assassini...
— Trucco!.. La Steinheil, meno abile
della Gretchen che ha organizzato l'assassinio del suo amante ricco, prevedendo
tutto con una avvedutezza sconosciuta fra le criminali, accortasi che aveva
parlato troppo, ha cercato di togliersi dai gravi sospetti con le stramberie
che le venivano in mente nei momenti di terrore.
— Voi siete più lombrosiano del
Lombroso autentico. Tutta la requisitoria del professore di Torino si fonda
sulla falsa concezione della donna. Mente! È caratteristica non di un sesso ma
di due. Provi il signor Lombroso che non mente l'uomo come la donna e gli farò
di cappello. Mente il politico, mente l'uomo d'affari, mente il giornalista,
mente l'impiegato, mente il marito, mente l'amante... Noi non siamo che popoli
di mentitori. Accusare pubblicamente una povera diavola, caduta nella disistima
e nel sospetto come la
Steinheil, e affermare pubblicamente ch'essa è partecipe o lo
strumento principale del delitto è una mascalzonata... inconcepibile anche in
un gaglioffo.
— Signore, voi insultate un uomo
assente...
— Ah! ah! ah! ah! Come se
Lombroso non avesse accusata la
Steinheil assente! Ah! ah! ah! ah!
Bizet, ragionatore paziente,
incapace di movimenti impulsivi, non ha saputo trattenere, al suono beffardo
dell'atroce risata che gli avea fatto correre il sangue alla testa. E con la
mano in alto per il manrovescio si sarebbe precipitato su Pichù e Pichù su lui
se io e gli amici dell'americano non avessimo impedita la colluttazione.
— Siate gentiluomini! dicemmo
tutti, credendo di pacificarli.
Ma Pichù che aveva bevuto molto
brandy, irruppe di nuovo con uno, scroscio di: ah! ah! ah! ah! ah!
— Ubbriacone!
Non ci furono più che corpi a
corpi.
— I am a boxer, urlava
l'americano.
— I am too, io pure sono
pugilista, rispondeva Bizet, assestandogli colpi che tendevano a rompergli il
naso e schiacciargli gli occhi nelle occhiaie.
C'è voluto il fischio del treno
che rallentasse per la fermata per staccare l'uno dall'altro.
— Mézieres!
Ansanti, continuavano a
ingiuriarsi e a promettersi che si sarebbero ritrovati e che l'uno o l'altro
sarebbe rimasto sul terreno.
Gli amici di Pichù si erano
piantati fra i due boxeurs e io con la valigia mia e di Bizet, discendevo
dicendogli di non occuparsi di un uomo bestialmente alcoolizzato.
— Lasciatelo sbraitare!
Sotto la tettoia, con il treno
che stava per riprendere il viaggio, Pichù, rovesciato con la testa fuori dello
sportello, si accomodava la cravatta con altri ah! ah! ah! ah! che facevano
diventare il detective di tutti i colori.
— Benone! gridò Bizet col treno
in moto.
— Ah! ah! ah! ah!
— Non è individuo che valga la
vostra collera. Non vedete che gestisce e sghignazza come un animale impazzito.
— È stato quel suo ah! ah!
piazzaiuolo, plebeo, villano, che mi ha irritato. Invecchio! È la prima volta
che mi sono lasciato trasportare dalla collera. Gli ah! ah! ah! nella sua gola
di rame sembrano una legione di rane appiattate in una cupola di metallo. Ne ho
ancora i versacci che mi squillano nella testa. Maledetto americano! Va al
diavolo tu e Lombroso! È toccato a me a difenderlo che dissento così spesso.
Dell'articolo non m'è piaciuto che il cenno che appaia la Marneffe alla Steinheil.
Sono due sorelle, due anime in una sola, due cervelli, con gli stessi vizi, le
stesse tendenze, gli stessi metodi. Esibizionismo religioso, grandi arie di
signore per bene, alla testa o in mezzo alle carità cittadine, circolazione per
i salotti come dame influenti del gran mondo, svaligiamenti degli uomini
all'insaputa l'uno dell'altro, considerandoli casse forti, amori bestiali con i
grandi uomini dello Stato per arricchire e lavorare i piccoli uomini con la
potenza occulta, insegne maritali di sicurezza per gli amanti di tutte le età,
mantenuti che le riducono alla povertà e le ripagano della ipocrisia che vendono
agli altri.
Uscimmo dall'omnibus e andammo
nell'albergo storico, ci facemmo un po' di toilette e alle sette eravamo a
tavola, lieti di esserci decisi a passare la notte nella cittadina tragica,
piena di ricordi del '70 e sicuri che il riposo ci avrebbe dato modo
all'indomani di gustare l'aria fresca con una scarrozzata fino al castello di
Bellevues.
Tra un boccone e l'altro gli
domandai perchè l'albergo in cui eravamo si chiamasse «storico».
— Perchè qui siamo
nell'anticamera degli avvenimenti sanguinosi del grande dramma nazionale
terminato con un finale di vigliaccheria napoleonica. Tutti i generali sono
andati e venuti da questo albergo. Qui si è pensato alla ritirata, da qui sono
partiti i rinforzi all'esercito nel cerchio di Sedan, qui è venuto l'imperatore
a cercare un asilo più vicino alla fuga e da qui è ritornato a Donchery e poi a
Sedan, dove egli si è massacrato con la sua dinastia, girando lontano dai
pericoli come un fantasma, issando la bandiera parlamentare quando Wimpfen
voleva combattere ancora, cedendo la spada al re tedesco diventato imperatore
con parole che lo hanno reso ridicolo davanti il proprio esercito, davanti
l'esercito prussiano, davanti la
Francia, davanti la posterità.
— Il suo passato...
— Di bandito! L'imperatore era
un masnadiero, un La Gala,
un Mandrin, tutto quello che volete tranne che sovrano di un popolo adulto e
capo di un esercito regolare. Il suo passato è quello di un policeman, di un
ladro, di un insorto, di un fuggiasco di prigione, di un voltafaccia politico,
di un delibatore di donne, di un carpitore di corone, di un macellatore di
cittadini...
— Non gli perdonate nulla...
diss'io ridendo.
— Io l'ho veduto da vicino e
l'ho seguito anche nei momenti in cui la Francia imperiale era in uno stato agonico... Non
ho trovato in lui che il lussurioso e il vile. Io ho pianto di vergogna a
questo stesso tavolo, disse Bizet, con la faccia in fiamme, quando ho letto che
Napoleone III ha avuto il coraggio della vigliaccheria di consegnare la sua
spada con queste parole:
— N'ayant pu mourir à la tête des mes troupes, je remes mon epèe à votre
majestè! — non avendo potuto morire alla testa delle mie truppe, rimetto la
mia spada a vostra maestà.
— Qual'è la spada che consegna
il vostro imperatore? domandò Bismarck al generale Castelnau che gliel'aveva
portata. È quella della Francia o è la spada personale? La prima può cambiare
le condizioni di resa, la seconda le lascia immutabili, aggiunse il cancelliere
di ferro.
— Fino a quando si fosse
limitato a disarmarsi, nessuno avrebbe detto niente. Era un episodio privato e
comune dopo il disastro del 1° settembre. Ma mettersi nella storia come un eroe
della fatalità di una guerra che ha veduto i prussiani in Parigi senza avere
mai sguainata la spada, non avere assistito a un combattimento, non aver
cercato la morte sui campi delle nostre disfatte... ah! che burlone! Il suo
gesto drammatico è passato sulla Francia ferita profondamente al cuore come lo
sberleffo d'uno che si lava le mani dei disastri politici e militari, dicendo:
non è colpa mia.
Vuotata la bottiglia di
sciampagna che l'albergatore ci assicurò che aveva fatto parte della cantina
ambulante dell'esecrato personaggio che non aveva saputo morire alla testa dei
suoi soldati e bevuto il caffè con cognac Martel, siamo usciti a fare due passi
prendendo la strada mulattiera sulla quale Bizet, in mezzo alla bruma delle
quattro del mattino del 30 agosto, aveva udito i lunghi echi strazianti dei
cannoni che annunciavano che la battaglia di Sedan era incominciata.
— Vedete laggiù, mi diceva
dall'altura di uno scoglio che permetteva di discendere mentalmente nella
vallata fin dove Bazaine era stato chiuso in quella specie di ridotto, dove le
masse umane si erano date appuntamento per sostenere l'urto del blocco
prussiano, laggiù io ho veduto in quella mattinata fatale uscire un incendio,
una massa di fumo incandescente che pareva rossa del sangue dei nostri soldati,
con obici che scoppiavano in alto come per sospingere la nuvolaglia, con
scariche di mitraglia che la frastagliavano e illuminavano i dintorni di un
bagliore sinistro. Da tre ore avevo perduto di vista Napoleone.
Egli aveva dettato qui,
nell'albergo di Mézieres, l'ultimo telegramma che domandava a Bazaine se si
poteva inviargli il vettovagliamento che si era ingorgato in Mézierès e nei
dintorni per un milione d'uomini. Poi aveva preso, come pentito della fuga, la
strada per Donchery, prima che i bavaresi ne tagliassero il ponte. Non era più
un uomo. Era un cadavere. La penultima volta che l'ho veduto è stato allo
svolto dello stradone, a fianco di un bosco dove passava a pancia terra uno squadrone
di corazzieri dai lunghi mantelli bianchi e dagli elmi scintillanti nel buio
della notte come fantasmi in una foresta. E l'ultima volta fu a Donchery,
seduto sull'erba con Bismarck, di fronte al cottage di un tessitore, dove erano
Moltke e il generale Blumenthal e Wimpffen col generale Faure. Fu in quel
momento terribile che ho conosciuto Archibald Forbes, il corrispondente di
guerra in erba che aspettava con in mano le redini del cavallo, che nitriva, la
notizia della pace, accompagnata dalle imposizioni della Prussia per correre a
telegrafare al primo ufficio che credo fosse in Mézierès. È una confessione che
vi faccio.
Credetemi, davanti
all'imperatore infranto che aspettava la carrozza per essere avviato prigioniero
al castello di Wilhelshöle, presso Cassel, in Prussia, io che avevo il suo
corno in custodia, sono passato attraverso la demenza del regicida e senza
l'addio frettoloso di Archibald Forbes che mi ha turbato o tolto il velo dagli
occhi, io mi sarei imbrattato del suo sangue, disse Bizet, buttando avanti le
due braccia come se avesse voluto triplicare l'enfasi della sua confessione.
Chi me ne aveva dato il coraggio? E potete domandarmelo? L'esercito disfatto, la Francia invasa dallo
straniero, i trenta, i quaranta, i cento mila morti caduti inutilmente, la
vigliaccheria dei generali, dei marescialli dell'imperatore, le orge che si
sono consumate sotto i miei occhi, il vandalismo militare, gli incendi dei
villaggi, i massacri dei contadini che volevano bene al loro paese e la
baldanza e la tracotanza bavarese che avrebbero indignato i santi...
Come la Steinheil, così Bizet,
dicevo adagiandomi nel letto soffice. Sono esseri multanime. A ogni momento è
indispensabile il ritocco. Quando si crede di averli plasmati con la loro carne
e col loro sangue e con il peso esatto della loro mentalità, eccoci in piena
sorpresa. Bisogna proprio dire che l'individuo non è studiabile che a poco a
poco, giorno per giorno, fatto per fatto. Marietta Wolf può portare nella testa
tutti i segreti della Steinheil senza conoscerla. Mesi sono ella non avrebbe
mai sospettato in lei la delinquente capace di mandarle il figlio sul patibolo.
La mia lunga conoscenza con Bizet non mi aveva dato che il detective paziente
che si mette sulle piste del delitto senza mai stancarsi, fino a quando
l'autore è nelle sue mani. Ignoravo in lui il patriotta, il regicida, l'uomo
che si scalda per le ingiustizie inflitte agli altri, il cittadino che esige
dal rappresentante della vita pubblica un'esistenza che si possa vedere
attraverso i vetri della sua abitazione.
Mi svegliai che Bizet era con le
nocche al mio uscio.
— Vi aspetto dabbasso.
— Va bene.
Corsi alle docce in accappatoio,
mi feci inondare dai soffioni che flagellano e purificano le carni, mi vestii
in due minuti e in un salto fui nel salotto con l'impazienza nelle gambe di
fare un miglio a piedi. Presi il caffè con il giornale in mano che percorsi
senza leggerlo e poi uscimmo, io e Bizet, dicendo al portiere di far aspettare
la carrozza che doveva venirci a prendere alle nove precise. Mentre
inghiottivamo la nostra razione di aria fresca, io domandavo a Bizet come
Maurizio Borderel era andato alla ricchezza sfondolata.
— Forse come Méunier?
— Il cioccolattiere della Repubblica,
volete dire? Come i suoi figli. Egli ha ereditato, ha migliorato con la
coltivazione moderna delle sue terre e ha aumentate le sue ricchezze. A Parigi
è uno snob. In campagna è un gentiluomo. Egli è un marzapane di bontà. Nella
vedovanza ha cercato di attutire il dolore dell'isolamento con un lavoro
febbrile. Alzandosi presto, mettendosi in mezzo ai paesani, irrigando dove era
la siccità, costruendo cottages, andando per le catapecchie a sollevare la
miseria, passando ore a caccia, ore a cavallo, ore nella uccellanda, ma tutto
gli è venuto a noia. Aveva lunghi periodi di prostrazione dai quali usciva
rotto. La lettura non gli dava sollievo. Il suo cuore pareva atrofizzato. Padre
di tre figli non voleva relazioni nuove nè concubinaggi, cose scandalose in
mezzo ai campagnoli. Se avesse avuto la smania di Méunier, il cioccolattiere
che non sapendo più come consumare parte delle sue rendite, si era dato a
comperare pazzamente quadri di tutte le scuole, scambiando sovente lo sgorbio
per il capolavoro, avrebbe potuto difendersi dalla noia affollando la casa di
artisti e di amateurs dell'arte. Ma le tele che si sono trasmesse di
padre in figlio, sono rimaste alle stesse pareti del castello senza che egli se
ne sia occupato o gli sia venuta la voglia di aumentarle.
— La nuit me tue, diceva
spesso a chi andava a smutriolarlo. La noia mi uccide.
Lo hanno voluto sindaco e per un attimo si è ingolfato
negli affari del comune, sperando di trovare tregua. Qualche donna ambiziosa ha
cercato di metterglisi intorno, ma finite le gentilezze egli si annoiava
mortalmente, profondamente. Non fu che quando qualche amico cercò di snobizzarlo
nei salotti parigini che ha trovato un po' di requie per i suoi nervi e un po'
di svago per la passione che portava sonnolenta nel sangue. Caduto nelle mani
della Steinheil la sua natura si è risvegliata.
È ridiventato uomo. Ha
dimenticato il Comune, stava a disagio nel castello, non aveva più gusto per la
caccia, dimenticava le donne dei dintorni che gli avevano resi i servigi della
compagnia e correva col treno, dello sleeping-car delle 3 pom. a Parigi,
in quattro ore e due minuti, distanza che gli faceva soffrire tutti i tormenti.
Gli uomini, a cinquantaquattro
anni, incendiati dalla Circe parigina, diventano fanciulloni come i Muffat che
passano dalle crisi religiose e dalla sobrietà sensuale alle passioni violente,
furiose, ruinose. Borderel, nel cervello del mondo, indossava il frac e andava
come un collegiale alle soirées dei grandi salotti a bearsi della
Steinheil, sempre circondata di maschi come preda al miglior offerente. Pieno
di dubbi, pieno di incertezze, pauroso di cadere nelle panie di una ciurmatrice
finiva sempre per essere il più trascurato e per credersi il solo amato a
insaputa degli altri. Immaginatevi che la bella Meg che ha avuto tanti amanti,
quanti sono i sassi della strada, come ci ha detto Marietta Wolf, è riuscita, a
trentanove anni, a farsi credere ch'ella non era mai stata d'alcuno e col primo
adulterio gli portava la primizia degli amori proibiti.
Pranzava alla villa del
passaggio Ronsin tutte le volte che poteva, pagandone i conti di soppiatto,
alla nostra amica, la quale, anche lei, prometteva di non farlo sapere a
nessuno, neanche a madama per non contaminare il pensiero di un amore
passionale con il maledetto danaro che piaceva tanto ai balzachiani Gobseck e
Grandet. A tavola rimaneva in contemplazione, ascoltando con benevolenza le
sciocchezze del pittore della strada, di Steinheil, il quale era divenuto,
negli ultimi tempi, macilento, angoloso, sospettoso come un sordo.
La Steinheil aveva cura di
invitare quando c'era lui, come la
Marneff, i personaggi parlamentari, ministeriali,
dell'esercito e della marina. Tra loro vi figurava spesso Galliffet, l'odiata
figura che ha epilogata la
Comune, con tanto sangue da spaventare la storia.
— Ritorniamo, sono i campanelli
della nostra vettura.
Qualche minuto dopo il domestico
livreato è venuto ad incontrarci e a mettersi a nostra disposizione.
— Non sarà troppo presto per il
vostro padrone?
Il servitore, con la tuba dalla
schiaffa di pelo grigio, ebbe come un sorriso di vergogna.
— Il mio signore è già in piedi
da parecchie ore.
Davanti all'albergo era la
berlina a due cavalli scappatori, uno dei quali era montato da un fantino in
velluto verdognolo. Le bestie dal pelo dorato, senza pezze nè macchie, con una
criniera resa morbida dalla strigliatura, scalpicciavano sul selciato e
nitrivano dall'impazienza.
— Montate Baragiola.
Mi curvai alla gentilezza e
presi posto a destra. Adagiato nel soffice, con i piedi allungati, con il
braccio sulla imbottitura della portiera e il corpo abbandonato di peso nel
cavo molle del dorso, accesi la sigaretta, dopo averla offerta anche a Bizet.
— Via! diss'egli.
Il lacchè mise con una curva il
piede sul predellino che metteva alla sua piattaforma e scomparve dietro di
noi, lasciando solo sormontare la tuba in attesa di ordini.
Prese la strada mulattiera per
non scomporci le ossa lungo le scorciatoie. Io godevo l'aria fresca che mi
radeva le guance e mi giocava nei capelli fino alla titillatura del cuoio
capelluto.
Con gli occhi nel cielo
azzurrato, seguivo la corsa precipitosa dei cavalli che non diminuiva e non
aumentava, senza che il fantino facesse schiocchiare la punta dello scudiscio o
li aizzasse con gli imperativi della bocca.
— Ah! esclamò Bizet che stava
leggendo il giornale. La ripresa della pena di morte è stata votata dalla
Camera con 390 voti contro 201.
— Ritorniamo alla barbarie.
— Chissà! mi rispose Bizet. Io
non sono tra coloro che prolungano l'esistenza dei malfattori per immurarli
vivi negli stabilimenti penali o circoscrivere la loro libertà nelle colonie
guianesi dei forzati.
— La vita dovrebbe essere sacra.
— D'accordo, se i signori
assassini considerano tale la mia. Ma fino a quando ci sono i Toiet, i Baudy,
gli Antonietti, i Vere Gould, i Manda, i Brierre, i Soleilland, i Bilars, gli
Assen, i Vongier, i Cambrai, i Parrat, i Branchehy, i Guyot e i Lawe, grido
anch'io, come la Francia:
viva Deibler!
È il mio mestiere che lo esige.
Se non avessi fatto uno studio personale di ciascun assassino, credete voi che
io potrei, non appena davanti a un cadavere o ai cadaveri, fiutare la mano o le
mani di coloro che hanno ucciso? Non v'ho mai fatto vedere il mio enorme
casellario, il più prezioso lavoro del detective che non si chiami Sherlock
Holmes. Alla Guiana, nelle isole dove sono i penitenziari e dove impera il
matrimonio socratico, ho dovuto convincermi che la bestia umana non si umanizza
nè si riforma nè migliora. È quella che è. Il sentimentalismo di qualche chemineau
(vagabondo) sanguinario è dell'opportunismo. Uscito dalla zona torrida ritorna
belva. Prendiamo Marcello Jadot di 27 anni. Era un parlatore, aveva i numeri
per diventare un letterato o un poeta. Innamorato della letteratura di Oscar
Wilde, contrasse una relazione mostruosa con un adolescente rispettabile. Messo
alla porta dal padre della vittima, un giorno in cui l'idea sanguinaria gli
turbinava nel cervello, ha ammazzato a colpi di revolver il suo amante e il di
lui genitore. Egli è ora un forzato all'isola Reale, nella Guiana francese. Che
ce ne facciamo? Anche là ha il suo amante. Invece di esecrare l'invertito che
ha fatto di lui un assassino se ne è innamorato di nuovo. Non c'è dunque emendamento.
Tanto vale ghigliottinarlo. Taillefer è un suo compagno penale. Egli era fra
noi come un cambrioleur di professione, Lo si potrebbe chiamare il
precursore di Leray, colui che ha aggredito il vagone postale del treno n. 16.
Egli ha rubato a colpi di revolver dal furgone dei valori cinque mila franchi.
Che ce ne facciamo? Studiate Baudy. Egli ha messo, come dice lui, quattro
martellate nella testa di un fattorino di banca che portava al collo la borsa
delle riscossioni. Che ce ne facciamo? Antonetti? Viveva sulla prostituzione
della sorella e ha ucciso l'ufficiale che ne era divenuto l'amante senza
sottomettersi alle sue estorsioni. Voi potete esser idealista...
— Allora si ritorna al tu hai
ucciso, sarai ucciso. Si capisce che l'uomo possa essere un malvivente, ma io,
società, io nazione, non posso discendere al suo livello. Sarei implacabile
come lui. Io sono con Victor Hugo, il grande maestro che mi ha insegnato la
riabilitazione dei caduti. Più il delitto è grande e più il tempo deve essere
lungo per il pentimento.
— Reveur! sognatore! Hugo è
andato in esilio, piuttosto che indossare il saio del galeotto. Non ha mai
saputo cosa fosse la vita galeottesca. Il suo Jean Valjean è una creazione
letteraria. Egli non sapeva che un Paese di antighigliottinisti è più spietato
di un Paese di ghigliottinisti. Io sono stato nei quattro penitenziari delle
isole della Salute e dell'isola Reale, dell’isola di S. Giuseppe e dell'isola
del Diavolo, dove è stato Dreyfus e dove è ora il «traditore» Ulmo. È là che mi
sono sbarazzato del victorhughisti buttandolo ai terribili coccodrilli che nuotano
nel Maroni come tronchi d'alberi abbandonati ai flutti. E perchè sono passato
fra coloro che non credono più alla vita di dolore e di purificazione? Perchè
ho veduto che fra i cinque mila forzati sparsi nei quattro penitenziari non
sopravvise più nulla di umano. Avevano tutti una fisonomia bestiale. Mandibole
voluminose, guance scavate da solchi lunghi e profondi, orecchie che sembravano
catini di carne affumicata, occhiaie spaventose come quelle che ho veduto a
Cambrai, il satiro, che darebbe ragione a centomila Lombrosi. Nei galeotti
muore tutto. Muore la bontà, l'intelligenza, l'affetto, la pietà, il ricordo.
Non resta di loro che l'animale. Tutta la colonia penitenziaria era composta di
pederasti attivi e passivi.
La ghigliottina è, se non altro,
un lampo d'operazione chirurgica che impedisce l'accumulazione di tanta palta
viva impregnata di delitti. Fra poco cadranno quattro teste a Bethune e io vi
darò modo di assistere alla loro esecuzione, perchè confrontiate un sistema
coll'altro, il sistema di coloro che sono sinceri anche davanti alla macchina
dei capolavori, e il sistema che vuole il trionfo del sentimentalismo, quasi
avesse per compito la missione di ridurre la Francia a un deposito di delinquenti della
peggior specie.
Il lacchè era alla portiera
aperta, con il cappello in mano, e Maurizio Borderel era sulla gradinata del
castello nel frocoat bigio del gentiluomo di campagna, che agitava la tuba
dello stesso colore per darci il benvenuto.
— Venite, venite, ci diss'egli
con voce affettuosa, stringendo la mano di Bizet non appena ci siamo trovati
sotto il portico a colonnate. Voi siete troppo famoso perchè occorra che siate
presentato. Piuttosto ditemi il nome del vostro amico.
— Il signor Baragiola.
— Lieto di fare la vostra
conoscenza.
Io non potevo staccare gli occhi
dalla mole dell'edificio che mi dava l'idea del castello moderno senza
sopprimermi l'idea del castello antico. Tutta la parte esterna mi faceva
sorgere il feudatario possente, davanti al quale non esistevano volontà o
desiderii che non fossero suoi. L'immenso giardino che lo circondava e si
prolungava al dorso con una fioritura viva che andava a perdersi in un bosco
fronteggiato di pini alti e affusolati sul cielo, profumava l'aria che
respiravo come l'essenza il budoir di una cocotte, di un palazzo
sontuoso. Una volta entrati si è come nel tempio di voluttà misteriose. Sale,
salotti, dagli alti soffitti lavorati in legno e scolpiti, fughe di stanze
dalle vetrate maestose che temperano la luce, bronzi e gruppi di bronzo sulle
caminiere antiche, oggetti d'arte, porcellane di secoli sono o di Sèvres,
mobili guarniti agli angoli di placche d'oro smunto, tassellati di lacca
cinese, specchi grandiosi incorniciati nel legno prezioso, qualche volta
liscio, qualche volta lavorato e sormontato dalla femmina nuda e curvata per
sorridere a colui che si specchia. Lo studio dell'ex amante di madama Steinheil
era così aristocratico da svogliare il lavoratore, Uno scrittoio monumentale,
di legno nero, con due figurine agli angoli che rappresentavano Molière e
Rosseau, nei costumi del tempo, come due custodi dei manoscritti e due
ispiratori della scrittore abituato alle penne d'oro, intinte nel superbo
calamaio di cristallo di rocca al centro di una lastra metallica color ruggine.
— Seggano, signori, ci disse
Maurizio Borderel, con un benevolo sorriso. M'immagino che a quest'ora sarò il
sottovoce di tutta Parigi.
— Oh no, rispose Bizet con
dolcezza. Certo che i moralisti...
— Alla De Maitre! quelli che
negherebbero l'aggettivo di grande a Napoleone I, per le sue scappate
femminili, mi farebbero a pezzi e bocconi.
— Chi si cura di loro? Davanti
alle donne siamo tutti deboli. Il male è quando la donna diventa per noi una
passione.
— Come era diventata per me la Steinheil.
— Appunto. Voi ne eravate dominato.
— E dominato al punto di credere
alla fedeltà della donna. Che imbecille!
— Tutti siamo almeno una volta
imbecilli nella vita.
— Io più di una volta.
Smemorato! si disse a se stesso. Che cosa prendete? La colazione non è che alle
undici e mezzo e voi, non abituati all'aria mattutina, avrete fame.
— Grazie, se mi permettete io
mangerei delle uova sul lardo secco all'inglese, con del thè.
— E voi, signore?
— A me basterebbe una tazza di
latte.
È venuto il cameriere senza peli
sulla faccia, con la testa rasata a melone, a prendere gli ordini, poi si
ricominciò la conversazione. Intanto ho avuto modo di abbozzarlo sul rotondo
del manichino sinistro della mia camicia. Fisicamente è un atleta: alto e largo
di spalle, capelli a spazzola baffoni neri, barbetta a punta, occhi
sentimentali, voce piacevole, anni 54. Leale e onesto, quando non si tratta
della donna degli altri.
Bizet si è messo a mangiare come
in casa propria. Pareva della famiglia. Si vuotava la bocca, si puliva i baffi
e interrogava.
— M'immagino, diceva Bizet, che
avrete letto la confessione fatta ai due giornalisti dalla Steinheil nella
famosa notte dei suoi rimorsi. In essa la signora del passaggio Ronsin figura
prostrata, abbattuta, decisa a liberarsi dai segreti e a confidare le ragioni
per cui ha accusato Couillard e Wolf.
— Lo so. Ella ha detto che li ha
accusati per potersi giustificare agli occhi di una persona che non voleva
nominare.
— E quella persona che ha poi
nominato nel colloquio sareste voi.
— È vero. Da quel momento mi si
è ribadita la idea della sua colpevolezza.
— La vostra impressione deve
essere stata disgustosa.
— E come no? Non si dà in pasto
il nome di un uomo che non ha fatto che del bene se non per rovinarlo e
trascinarlo nel proprio disastro o per diminuire le proprie colpe.
— È forse stata una vendetta.
— Quale?
— Voi siete accorso a Parigi non
appena avete saputo del delitto. L'avete veduta in letto, siete rimasto
costernato e ne siete uscito turbato. Siete ritornato all'impasse Ronsin
più turbato ancora, con dei sospetti e le avete detto che non sareste più
ritornato da lei e non l'avreste mai più riveduta se non dopo che fossero
scoperti gli assassini, e lei si fosse lavata completamente dall'accusa di
complicità che correva di bocca in bocca.
— Infatti la storia mi era sembrata
un po' inverosimile.
— Non era una invenzione sua.
Ella si era regolata sur un delitto stato commesso in Francia nel 1885 in identiche
circostanze. Le plagiarie del delitto non hanno fortuna, come non l'hanno neanche
i ladroni della letteratura.
Nell'epoca nostra, cogli annunci
e i libri dei ricordi dell'annata, si sa tutto e si legge ogni cosa.
Maurizio Borderel rimase
silenzioso e disinteressato in quello che diceva Bizet, il quale continuava a
mangiare senza la minima soggezione. Sulla sua faccia di bonaccione v'era però
un'aria malinconica d'uomo che aveva gli occhi sugli orrori del dramma.
— E da quel momento, signor
Borderel, voi avete supposto che il vostro nome sarebbe apparso sul tappeto
pubblico.
— Quale? diss'egli, scuotendosi
come per uscire dall'intontimento o dagli orrori in cui era sprofondato il suo
pensiero.
— Dal momento che la Steinheil...
— Oh, sì, da quel momento, io
non ebbi più dubbi. Ero sicuro che il mio nome sarebbe diventato il sottovoce
parigino. Essa lo aveva pronunciato e il mistero non era più possibile. Ho
detto subito: Parigi mi sospetta. Parigi mi accusa. Maledetto il giorno in cui
l'ho trovata sui miei passi. Ho passato giornate spaventose. Non sapevo come
togliermi dal sottovoce... Intervenire? difendermi? Sarebbero nate cento mila
supposizioni. C'è il proverbio che chi si difende si accusa. E poi per difendermi
avrei dovuto accusare... E io sono troppo gentiluomo per accusare una
signora... e una signora terrasée, abbattuta, come lei. Per quanto ella
oggi sia disprezzabile, è stata per me... oh!
Nella esclamazione era il suo
cuore sanguinante, il suo strazio, il suo rimpianto... Forse la rivedeva nelle
giornate della sua follia con i suoi denti candidi, con i suoi occhi che si
rovesciavano languidi nel mare lattiginoso, con la sua pelle bianca e morbida,
con le trecce bionde, sparse per la schiena, come per indorarne le carni senza
pieghe, senza ridondanze. Poi, come se i ricordi lo avessero intenerito, si
abbandonò tutto nell'ampia poltrona bassa con gli avambracci sui bracciali di
pelle rossiccia, con i singhiozzi che gli gonfiavano la gola e gli arrossavano
il viso, dicendo di tanto in tanto.
— Ah! je suis bien, bier, malheureu! Ah! sono molto, molto
infelice!
Noi rispettavamo il suo dolore, commossi noi stessi della
sua commozione.
— E i miei figli! i miei poveri
figli, penseranno anche loro, che cosa penseranno del loro padre?... Ho avuto
il tormento del suicidio, volevo uccidermi... Ma poi ho veduto tutto il male
che si sarebbe detto alla mia morte. Quante calunnie, quanti drammi si
sarebbero immaginati! Ho avuto dei brividi. Il mio passaggio all'altra vita
sarebbe stato considerato della vigliaccheria e della colpevolezza... Ecco
perchè sono vivo e il mio nome è ancora sballottato dalla opinione pubblica. Il
giorno che mi sono lasciato invitare alla prima soirée, dove l'ho
incontrata dovevo rompermi le gambe. Ho lettere per provare che io, anche prima
della truce tragedia, volevo mettere fine all'avventura di pochi mesi, ma il
mio carattere pieghevole si è sempre lasciato indurre agli indugi...
— Rivelate!
— Rivelare! Si fa presto a
dirlo. Un gentiluomo non mette mica in pubblico le confidenze di una donna,
anche se ha modo di affiggerla nelle sue mistificazioni... Rientravo nel mio
castello deciso a romperla... ma poi... Voi sapete che Alfredo di Musset non ha
saputo romperla neanche dopo che aveva veduto la Sand nelle braccia del dottor
Pagello... Uscito dal delirio, aveva paura di avere sognato, di avere veduto
durante il febbrone... Siamo gli eterni fanciulloni... Non si crede mai... Non
si crede neanche ai nostri occhi. La donna ci può far ingoiare frottole grosse
come le balene... Non è che lontano da lei che siamo ripresi dai dubbi, dai
sospetti, dalla vergogna di lasciarci turlupinare in un modo indegno. La si
rivede e si ricade, e si soffocano i pensieri neri sotto i baci che ci lasciano
credere un'altra volta di essere i soli idolatrati... Siamo gli eterni
fanciulloni della vita!
— La ragione è che noi uomini
siamo migliori delle donne. Tutte le volte che le trovo nelle tresche, negli
adulterii, nei processi registro l’ingrata, la fintona, la vipera, la belva che
passa sulle vittime leccandosi le labbra sporche del loro sangue per
ricominciare la commedia. Non voglio discendere, saliamo. La Rattazzi, che ha molti
punti di contatto con la
Steinheil, a diciassette anni, puritana com'era,
schiaffeggiava la madre, sposava più tardi un uomo, come la Steinheil, solo per aver
modo di entrare nel mondo dei piaceri, e come la Steinheil si lasciava
subito corteggiare da un blasonato ricco che moriva lasciandola erede di una
cospicua fortuna. Intelligente come la Steinheil e come lei cantante e suonatrice di
piano e pittrice non comune è uscita da un adulterio per entrare in un'altro,
sposando un marito dopo l'altro, senza aprire mai gli occhi a uno di loro.
Divenuta la signora di Urbano Rattazzi, dopo essere stata di Vittorio Emanuele,
non ha avuto più ritegni. È diventata l’amante di Giuseppe Luciani, nel periodo
in cui l'arrivista faceva ammazzare Raffaele Sonzogno ed è apparsa a un ballo,
in un salotto napoletano, vestita direi quasi delle sue perle. La sua
superiorità è stata nell'audacia, e la differenza che passa tra lei e la Steinheil è che la Rattazzi non ha avuto
misteri intorno ai suoi amorazzi. Tanto è vero ch'ella ha soccorso Luciani
galeotto, pubblicamente, con un mensile, che è durato fino alla sua morte. Il
ricordo dei suoi abbracci è stata l'unica fedeltà della di lei vita. Voi avete
citato Napoleone I. Ricordatevi degli adulterii di Giuseppina. Ricordiamoci degli
adulterii dell'imperatrice Eugenia, della moglie di Balzac! Si può essere
grandi e intellettuali come lui senza essere risparmiati dall'adulterio! Ah!
ah! Per i suoi adulterii lo ha lasciato morire solo, fra le mani di un
domestico e di una domestica, i soli che abbiano pianto al capezzale del più illustre
romanziere della Francia imperiale. La donna! La donna è uguale in tutte le
classi, in tutte le nazioni. La moglie di Heine, raccolta tra il servidorame,
ha ringraziato il poeta con adulterii e crudeltà inaudite. Non mi fate parlare.
La Sand stessa,
come donna, non è stata che una vulva. Se discendessi di qualche gradino vi
farei spaventare. E voi, o signore, con la conoscenza di Margherita Steinheil,
non avete più nulla da imparare.
— Io sono stato vittima di
Margherita Gauthier: ho creduto e vissuto delle sue lagrime.
— E voi avete creduto e vissuto
delle lagrime di Alessandro Dumas, figlio. Non è che l'uomo che possa far
penetrare l'emozione del pianto nel lettore. La donna non è geniale che nel peccato.
Abbiamo udito uomini raccomandare le loro mogli dal patibolo, mai una donna che
si sia ricordata del proprio marito.
— Tranne Lucilla, dissi io
sgomentato dalla furia demolitrice di Adolfo Bizet.
— Perchè non ha avuto tempo di
vivere e di odiare il marito, rispose seccamente il detective. Tre anni più
tardi Lucilla, se ne sarebbe infischiata della gloria di Desmoulins.
— Si direbbe che la donna è
nella nostra vita come un mostro.
— Al contrario. Mia moglie è
brutta ed è forse la ragione della sua fedeltà. Sono le altre che ho dovuto
lavorare professionalmente che mi hanno dato il disgusto.
— Avete ragione, disse Borderel,
uscendo come da un sogno, stropicciandosi gli occhi, avete ragione. Avessi
avuto il bene di ascoltarvi prima, forse... Dico forse... Noi siamo troppo
fragili. La Steinheil
sarà l'ultimo mio crepacuore e l'ultima mia sventura? Chi può dirlo? Domani ne
trovate un'altra e non vi ricordate più della prima.
Lui, come è sui giornali
che hanno paura di nominarlo o che non vogliono addolorarlo, si mise a parlare
della bella Meg, la charmeuse d'hommes, e a raccontarci come l'ha
conosciuta. Come al solito andava spesso a Parigi a trovare i suoi ragazzi in
collegio. L'otto marzo dell'anno scorso si è incontrato col direttore di una
grande amministrazione dello Stato, il signor Buisson.
— Tu verrai questa sera alla soirée
in casa mia.
— Parto col treno delle 9.
— Non voglio scuse!
Breve. Vi sono andato. Fra la
folla delle signore c'era la
Steinheil in una splendida toilette di mussolina magenta, con
trine di un rosso fuoco che davano risalto all'altro colore. Col busto alla
Raffaella, mi ha dato la immagine di un amazzone che cavalcasse la bestia
giovane a schiena nuda. Collo nudo, braccia nude, capelli di una finezza
biondastra che perdevano profumi inebrianti. Alta, occhi illustrati dalla gioia
di vivere... Parlava con voce molle, lasciandomi vedere tutto il sensualismo
della sua bocca infuocata. Ne rimasi turbato... Mi sembrava di averla già
veduta, già abbracciata, già baciata. La sua bellezza e le sue grazie mi hanno
sedotto in un attimo. Ci siamo veduti... Ho pranzato all'impasse Ronsin... Un
mese dopo siamo andati insieme a Bellevue, alla villa del Vert-Logis... ed è là
che sono divenuto il suo amante.... o almeno che ho creduto di divenirlo... È
stata la mia follia.... Tutto mi piaceva. La sua ingenuità mi esaltava... Ho
udito i gorgheggi della Patti... Ho applaudito la Melba... Il canto
della Steinheil mi affascinava, mi cullava il cuore e il pensiero... Io pendevo
dalle di lei labbra. Che canto delizioso! La sua conversazione mi faceva tacere
come il suo canto. È intraducibile. La si sente, non la si riproduce. Ritornavo
nel mio castello e mi trovavo a disagio nella solitudine.
Non mi piaceva più nulla in
casa. Mangiavo male, dormivo male, bevevo male. La campagna, i contadini i miei
affari non mi interessavano più.... Ogni tre o quattro giorni ero obbligato ad
andare lassù, a Bellevue, alla villa del Vert-Logis, dove eravamo serviti da
Marietta Wolf, una brava donna affezionata, di una prudenza introvabile....
Madama Steinheil al Vert-Logis era chiamata da tutti la signora Prévost. Coloro
che passavano alla villa, macellai, droghieri, pollivendoli, domandavano della
signora Prévost. Un giorno, mi è venuta la curiosità di sapere perchè a Bellevue
era conosciuta sotto un altro nome. Ella fu di una amabilità indicibile. La
villa era stata presa in affitto per suo conto dalla sua amica, madama Prèvost.
La spiegazione mi è bastata. Solo da quel giorno ho detto alla Steinheil che io
non volevo obblighi con la signora Prèvost e che da quel momento la villa
sarebbe stata affar mio. E lei ha convenuto che l'affitto non poteva essere
d'altri.
— Così che voi lo pagavate alla
Marietta.
— Nossignore: lo pagavo a lei
stessa o meglio, le passavo del denaro. Il primo mese di residenza è stato un
idillio. Le interruzioni — lei per andare a Parigi, io per andare al mio
castello di Balaives — erano dolorose. E strada facendo ci scrivevamo
promettendoci di riunirci subito. Nella intimità ella mi chiamava Maurizio o il
mio Maurizio e io Margherita o semplicemente Meg. Tutte le volte che ci
rivedevamo ella mi raccontava brani della sua vita che la elevavano. Era una
vita vissuta e piena di abnegazione.... Povera Meg! Un giorno ella volle
distruggere in me anche la parvenza del dubbio che fosse mai stata degli altri.
Dietro lei non c'era uomo che potesse rimproverarle tanto così della sua
esistenza di sposa.
— Voglio che tu non abbia dubbi,
mi rispose Meg. So bene che ci sono male lingue che affermano che io ho avuto
moltitudini d'amanti. È falso. Potrei smentirli se i calunniatori non fossero
avvolti nell'ombra. Te lo giuro sul mio onore. Io non ho mai avuto amanti. Non
ne ho avuto che uno, non ho amato che un uomo, te.
Io aveva tuttavia un nome sulle
labbra, un nome che la cronaca scandalosa aveva pronunciato migliaia di volte.
E quel nome lo pronunciai: Felix Faure.
Meg divenne bianca come quel
tovagliuolo, — additando quello lasciato sul bacile d'argento di Bizet e il suo
occhio ebbe gli ori illuminati di collera.
— Felix Faure! rispose dopo
avere ripreso il colore. È un'infamia aggiunta a tante altre. Sì, lo so, si è
preteso che io sia stata la sua amante. È falso. Si è pure detto che io ero
all'Eliseo nell'ora della sua morte. È falso. In quell'ora io era coricata nel mio
letto, ammalata da parecchi giorni. Potrei, se tu lo volessi, dartene la prova
dei certificati del dottor Courtois Suffit. No, no, io non ho avuto che te, non
amo che te. Ci fu una scena di sospiri, di lucciconi, di baci. Con la mia mano
nella sua Meg aggiunse parole, che mi tornarono sempre alla memoria,
specialmente dopo il delitto.
— Quanto a mio marito, mi
diceva, lo esecro, lo detesto.... Ho due odii nella mia vita: lui e mia madre,
che mi ha forzata a sposarlo.
Alcuni giorni dopo è stata più
tragica mi ha detto:
— Ecco, senti: Mio marito
conduce una vita infame. Io ne domanderò il divorzio e tu mi sposerai. Partirò
per laggiù, con te, e vivrò nel tuo castello di Ardenne... Ah, là noi vivremo
felici, nella solitudine di selvaggia, fuori dalle angustie, senza paura della
calunnia. Solo il pensiero m'inebria.....
Ho avuto tutte le pene per
dissuaderla del progetto e farle capire che il padre di tre figli, e di una
figlia di tredici anni, non poteva sposarla che fra molti anni, vale a dire
quando la femmina sarebbe stata maritata e i maschi avrebbero avuto una
posizione indipendente. Ella persisteva, ma alla fine ha dovuto convincersi che
il suo era un sogno. Continuammo la nostra relazione come prima per molti
giorni. In seguito i miei interessi mi obbligarono a restituirmi al castello,
dove ho subìto una specie di reazione. Fuori della atmosfera ho molte coserelle
che a Parigi non avevo vedute. Ho avuto momenti di vergogna.... vergogna di me
stesso. Mi pareva impossibile di essere stato imbecille fino a quel punto.
— Diciamo tutti così.
— È vero. Tutta la canutaglia,
tutto il lusso, tutto lo sfolgorio delle soirées brillanti alla villa
dell'impasse Ronsin, studiato nel mio castello perdevano, si appannavano, si
scolorivano... e tuttavia alle soirées dell'impasse Ronsin, credetelo,
vi andava l'élite della società parigina. Le celebrità del Parlamento,
della magistratura, del foro, della Banca, delle arti, della letteratura.
C'erano molte signore rispettabili.... Pure mi sovvenivo di certe scene, troppo
intime, intravvedute nell'ombra dello studio del marito, allo scioglimento di
quelle feste, il cui lascia fare dapprima mi aveva meravigliato e poi
insospettito. E a quei ricordi la mia vecchia anima di gentiluomo campagnuolo
riprendeva sovente il suo impero. Avevo capito che il mondo in cui mi ero
ingolfato non era fatto per me e che non avevo nè il cuore nè l'intelligenza
temprati per acclimatarmi in quell'atmosfera senza rivolte.... E ne decisi la
rottura.
L'ultima volta che sono stato
alla villa degli Steinheil è stata la sera del 14 marzo del 1908. Vi si dava un
gran pranzo. Ai fianchi di madama sedevano un alto personaggio politico e un
alto personaggio militare. E così non ho potuto allora spiegare le ragioni per
cui non avrei potuto frequentare la di lei villa così frequente come prima.
Rimandai le spiegazioni a un momento più opportuno e presi il treno per le
Ardenne. Meg continuava a telefonarmi da Parigi. Ella pareva inquieta di non
vedermi e io facevo del mio meglio per rassicurarla. Nella mattina di sabato,
30 maggio 1908, mi
ha telefonato di nuovo. La comunicazione non lavorava bene. Mi è stato
impossibile di tenere una conversazione. Alla fine ho udito Meg, al tubo di
casa Steinheil, che mi diceva con voce gaia e scoppio di risa:
— Via, sono tranquilla lo
stesso.... Ho udita la tua voce.... E questo per mè è tutto.
Ella appese l'ordigno
auricolare.
Ripeto che tutto questo è
avvenuto alla mattina del sabato, 30 maggio.
All'indomani, primo giugno, è
venuto il fattore a portarmi una lettera del conte d'Arlon, vecchio amico di
casa Steinheil.
Parigi, 31, maggio.
Caro signore,
Sventura spaventosa nella serata
di ieri, Impasse Ronsin. La signora Japy e il signor Steinheil sono stati
trovati assassinati nelle loro stanze.
La nostra povera Meg,
risparmiata dagli assassini, ma lei pure ferita, è di un coraggio ammirevole.
Tutto vostro.
D'Arlon.
Giudicate del mio stupore.
Partii all'istante per Parigi, dove seppi dalla bocca della stessa Steinheil i
particolari del dramma. Nella stessa sera, a Parigi, andai a far visita a uno
dei miei amici a letto ammalato e gli raccontai del delitto.
Egli ha avuto un trasalimento.
— Disgraziata! gridò il mio
amico.
— Disgraziata! risposi,
disgraziata! mai io avrei potuto credere....
— Come, signore, fino da quel
momento, vi è balenato....
— Sì, o signori, dalle prime
parole di Meg è nato in me un terribile sospetto. Il seguito della sua
narrazione me lo ha confermato aggravandolo.... aggravandolo, signori. Da quel
momento ho intravveduto la verità... Ho veduto, ho fiutato... ho sentito il
dramma. Dio mio quale spavento!
Pazzo di terrore ritornai da
Margherita e con la voce che sentiva dei miei nervi gli ho detto:
— Margherita, la vostra versione
sugli assassini di vostra madre e di vostro marito è sospetta nell'opinione
pubblica. Certo io, non voglio farvi ingiuria di accusarvi. Ma voi, lo sapete,
altre persone non hanno esitato di farlo e di farlo pubblicamente. Ebbene voi
dovete giustificarvi. Voi dovete distruggere ogni sospetto. Da questo momento
io non posso più venire da voi. È indispensabile che voi rinunciate a vedermi
fino a quando la verità intera sarà conosciuta e gli assassini saranno
scoperti. Addio Meg. Possa la verità trionfare presto.
All'indomani rientrai nel mio
castello e da allora io non l'ho più riveduta. Non le ho mai scritto, non le ho
più fatto sapere notizie. Solo settimane sono le ho mandato un amico a farle
ripetere le parole che le ho detto l'ultima volta. Ecco tutto. Dai giornali ha
poi saputo quello che la
Steinheil ha fatto per scoprire gli assassini e purificarsi
ai miei occhi. La confessione della famosa notte mi ha ricacciato nel dolore.
Ella ha fatto il mio nome. E il mio nome sarà fra poco anche nei giornali che
volevano evitarmi una pena maggiore. Ohimè, compiangetemi, io sono proprio
sventurato.... sventurato!...
Ci siamo alzati, siamo usciti
sulla ghiaia di un superbo sentiero che andava al castello alto con due torri,
con finestre ogivali nei blocchi di granito anneriti dal tempo, al palazzo dove
abita il castellano, accettando l'invito di fumare un trabucos del suo
portasigari di tasca. Bizet ha rotto il silenzio riprendendo la Steinheil per
conversazione.
— Ho dovuto, diceva lui,
modificare più di una volta il mio giudizio, ma la prima impressione è rimasta
in me inalterabile.
— Cioè?
— Che la Steinheil non ha avuto
complici.
— Bisognerebbe supporre in lei
tale forza e tale delinquenza... Pensate che la madre non pesava meno di un
quintale e che il marito era calcato anche lui... Non si trattava mica di due
pulcini.
— Lo credo, Ma io ricordo anche
che la Marietta
ha raccontato che in certi giorni trascinava mobili pesantissimi da una stanza
all'altra, spingendoli con le spalle come un facchino, rovesciandoli o
tenendoli in bilico, come se fossero stati di cartone. Come vi spiegate che
volta e rivolta, fruga e rifruga, consulta e riconsulta, interroga un
testimonio dopo l'altra non si è mai trovato un piede, una mano, una testa,
qualcosa che potesse essere indiziato o sospettato?
— E come credete che abbia
potuto strangolarli?
— In un modo semplice. Notate
che di questo parere è pure il giudice André. Per spiegarmi la tranquillità con
cui le vittime si sono lasciate strangolare non c'è da pensare che a un
narcotico, a un potente narcotico che assopisca e addormenti senza lasciare
traccia di sè. Narcotizzati ha cinto loro i colli con la funicella e col nodo
fatto, stringendo, ha impedito loro di risvegliarsi. Ecco perchè cercheremo
inutilmente un complice. I loro corpi sono stati trovati dal dottor Courtois
Suffit senza la minima escoriazione, tranne quelle che esistevano prima del
delitto. E lui che è stato trovato al margine del gabinetto da bagno, in
camicia, con la schiena sulle ginocchia piegate, senza ammaccature, che cosa
vuol dire? Che l'assassino o l'assassina ha potuto fare le cose senza paura,
senza fretta e adagiarlo con grazia o come voleva per far credere alla presenza
dei cambrioleurs. Noi non possiamo sapere chi dei due abbia subita la
strangolazione prima dell'altro, ma sappiamo che anche la Japy è stata accomodata in
letto da persone che non avevano furia, che si sentivano in casa propria.
Siccome siamo sempre nelle supposizioni, come in tutti i drammi senza
confessione e senza testimoni, così io ho pure la convinzione che la prima a
morire sia stata la
Japy. Perchè? Perchè le si è trova nella gola la dentiera
artificiale. L'assassina col narcotico non le ha dato tempo di avere la forza
di togliersela come faceva tutte le sere. E ditemi un po' signor Borderel, in
che condizione l'avete trovata quando siete accorso a Parigi?
— Mi pare di averlo già detto:
In uno stato da far compassione. Sono andato al suo letto col conte d'Arlon.
Non si parlava, perchè il medico aveva imposto alla paziente il silenzio. Non
abbiamo bisbigliato che due o tre parole commosse per la pietà che provavamo. Il
suo stato era davvero allarmante. Così allarmante che a me non è neanche venuto
il dubbio ch'ella potesse aver parte nella tragedia.
— Non le avete più scritto?
— Mai, lo giuro!
— So però che le avete inviato
del denaro.
Borderel rimase un po' sorpreso.
— Chi ve le ha detto?
— Permettete che il detective si
nasconda dietro il segreto professionale.
Borderel fece un inchino.
— Per essere completamente
sincero vi devo confessare che a un dato momento io ho mandato un mio amico da
lei con una busta di biglietti di banca.
— Il signor Lefort, suppongo.
Siccome ho saputo da tutti che voi pagavate le spese, eccetera, eccetera, del
Vert-Logis, avrete conosciuto anche quella buona lana di madama Prèvost,
avvolta anch'essa, come il delitto del passaggio Ronsin, in un mistero
impenetrabile.
— Ella ha detto al giudice
istruttore che era rimasta intima della Steinheil fino al marzo 1907. Dopo la
donna che deve sapere molti segreti della bella Meg, ha soggiunto:
— Ho rotto ogni relazione con
lei per le sue menzogne ripetute. Ci sono voluti anni per vederla al di là
della maschera. Finalmente la conosco e basta.
— Sì, ma il giudice, diss'io, le
ha messo una pulce nell'orecchio, quando le ha domandato se non era stata più
mai al passaggio Ronsin.
— Mai.
— Cosa? le ha replicato il
giudice.
— Prima del delitto, volevo
dire.
— Voi vi siete andata nelle
prime ore del mattino del 31 maggio 1908.
— A ogni modo, mi rispose Bizet,
è anche lei una figura losca. È la lenona dell'ambiente del delitto. Ella
prestava il nome che permetteva alla Steinheil di lavorare truccata. Chi vi
andava, andava in casa di Madama Prèvost. Protetta dal nome di colei che faceva
il lenonismo la Steinheil
ha trafficato per parecchi anni con quelli che trovava per le strade, alle
stazioni, nei salotti, ai bagni, alle corse, sui campi delle riviste militari,
dovunque, dappertutto. Come spiegarci la di lei presenza continua in casa e
alle soirées del ricchissimo e potentissimo signor Buisson, il quale
aveva permesso al figlio di fidanzarsi con la Marta degli Steinheil, se non pensando alla
persona che rappresentava in un luogo la moglie virtuosa e in un altro la
mondana arrivata al chic della prostituzione, all'impunità della donna
che si vende senza essere sospettata dalla squadra dei buoni costumi, alla
tramutazione di se stessa in una signora pazza d'amore, in una vergine che
perde tutto in un risveglio passionale, in una odalisca che non mercanteggia il
suo corpo e lascia alla buona Marietta di aggiustare i conti col cliente? Lo
stesso Borderel è caduto dove sono caduti molti prima di lui, solo perchè ha
avuto l'illusione di avere scovata la perla delle donne... resa infelice dal
salito marito crudele...
— Spero che non avrete compianti
per il pederasta...
— Orrore! la moralità del
pittore non è in discussione, ma quando l'accusatrice si chiama Steinheil,
bisogna avere dei dubbi. Quella donna è capace di tutto, finì col dire
lentamente Bizet. Capace di appendere il marito al gancio dell'ignominia
pubblica per giustificare la sua depravazione, capace di strangolare la madre
per togliersi dai piedi una persona noiosa o importuna o per impadronirsi di
una eredità che si faceva aspettare... Ah le Stenheil! le Steinheil sono la
rovina della terza Repubblica... perchè smagano, perchè sgretolano, perchè
calpestano, perchè rovinano, perchè passano dagli ambienti come folate di
perversioni, come abissi, di vizii e di ipocrisie, perchè impediscano che si
ritorni alla vita solerta, alla vita di vincere colle proprie forze, alla vita
della solidarietà umana. Con loro non c'è che il delirio, la febbre dei sensi,
la gozzoviglia sbrigliata da ogni legame speciale... Gli uomini che vivono per
una donna, per amare una donna, per sedurre una donna, per portare in giro una
donna... Ecco la società che producono le Steinheil. Al boia! al boia!
— Bizet! diss'io
interrompendolo...
— Bizet non c'entra. Il
detective è un altr'uomo... Egli fa il suo mestiere con la imperturbabilità che
tutti mi riconoscono. Ma c'è un momento in cui io esco dalla pelle del
professionista per manifestare la mia approvazione o la mia disapprovazione.
Diavolo! L'agente della polizia privata non ha cessato di avere i proprii gusti
e i propri disgusti. Come professionista, come uomo d'affari conservo i capelli
della signora Steinheil, come Adolfo Bizet li butterei nel water closet.
È comparso il lacchè ad
avvertirci che eravamo attesi nella sala della colazione.
Borderel si alzò stringendo la
mano a Bizet e dicendogli che noi uomini siamo tutti identici nel giudicare le
persone che non ci interessano che da un punto di vista sociale...
— Ma quando ci troviamo nella
zona dei fascini, delle seduzioni, dei rapimenti, delle ubbriacature abbiamo un
altro modo di considerare la donna... Divenniamo degli Armandi, dei Muffat, dei
Musset, dei Brieux, dei Borderel, se vi piace, che piangono, che sognano, che
spasimano, che darebbero il loro sangue per la fedeltà della donna idolatrata.
— Anche questo è vero, rispose
con voce lugubre Bizet.
— La vita degli uomini e delle
donne non ha strade fisse per essere morali o immorali, buoni o cattivi. Si va
via per la strada retta per un mese, per un anno, per dieci anni e poi si
devia, e poi non c'è più condotta, e poi non c'è più passato che ci sostenga e
poi non ci sono più ritegni, più centri inibitori. Si va via come cavalle
giovani che hanno perduta la sensibilità del morso. Ci si getta nei turbini
delle passioni senza badare o pensare ai pericoli o alle catastrofi. Vediamo
bene tutti che il mondo è pieno di donne più belle, più plastiche, più
intellettuali, più graziose, più simpatiche di quelle che possediamo e tuttavia
ci stronchiamo l'esistenza fisica o morale, commettiamo delitti, andiamo in
galera per quella tale che tutti dichiariamo indegna del nostro amore.
— La vostra indignazione, Bizet,
non è scientifica, diss'io mettendomi in bocca degli asparagi spruzzati di
limone saporitissimi. Se volete essere del vostro tempo bisogna prendere la
gente come è, non come dovrebbe essere. Se non può essere migliore, come
vorrebbero i predicatori, vuol dire che sono i predicatori che hanno torto. Non
le pare signor Borderel? Asparagi eccellenti! dissi, frammettendo la mia
delizia culinaria nella discussione.
— E allora, cari miei, non c'è
più linea di demarcazione. Quand'è che io sono giusto, buono, esemplare? E
quand'è che sono scellerato, iniquio, perverso?
— Sono cose che non esistono.
Sono tutti aggettivi sostantivati dai moralisti e da coloro che si foggiano un
mondo che è nei loro desiderii, dagli ammalati che sognano la perfezione degli
individui, che sanno classificare i vizii e le virtù, senza capire che il più
delle volte le une sono più terribili degli altri. Credetelo, Bizet. La storia
dell'uomo non è ancora stata scritta. Anche i Balzac e i Zola che io ho
venerato e venero hanno messo troppo di loro nei loro lavori per riuscire gli
storici della vita del loro tempo. Il romanziere integrale non è ancora nato.
— Se ci siete voi! mi disse
Bizet con l'ironia nella voce.
— Chi sa! ripresi senza
irritazione. Chi sa! sono ancora giovine e carico di vita vissuta. Precipitandovi
sui costumi del vostro tempo voi siete un violento che date ragione a coloro
che vogliono rovesciare la
Repubblica per ridare alla Francia la monarchia. Accettate la
volontà della maggioranza, vale a dire quella di tutti, quella che non ha
ancora diffidenti che fra gli ammalati e gli utopisti e non vi sentirete a
disagio. Certo avete ragione di lamentarvi che le leggi sulla vita non siano in
armonia con la vita che si vive.
— Ecco la mia collera! ecco la
collera di mia moglie! Siate come volete, ma non fateci circolare
nell'atmosfera della ipocrisia!
— Abbiate pazienza! — Questi
contrasti, questi urti, e questi disaccordi e queste discrepanze fra leggi
fracide e gente nuova, scompariranno non appena sarà nostra la coscienza
dell'elettore.
Il signor Borderel si asciugava
le labbra con il tovagliuolo candido e floscio con un sorriso che gli dava
un'altra fisonomia.
— Coscienza dell'elettore! Caro
Baragiola, voi siete nelle nubi. Riprovo il vostro linguaggio. Mi sembrate un
mistico.
— Può darsi, quando si parla
figurativamente. La mia coscienza è un simbolo. Cito fatti. Adesso siamo in
rivolta contro l'ordine sociale a chiacchiere. Siamo infedeli e lasciamo che
imperi su noi il matrimonio.
— E sapete perchè? Ve lo ha
detto mia moglie, perchè in esso c'è bontà, c'è poesia, c'è solidarietà, c'e
intimità, c'è continuazione di vita, c'è assimilazione di affetti, c'è
accomulazione di resistenza, c'è fusione di idee. Mia moglie non vuole il
matrimonio con la porta aperta neanche per gli errori di persona e io voglio il
divorzio per i graziati che scontano con la catena delitti che non hanno
commessi. Ma l’unione matrimoniale fatta d'amore, di tenerezze, di armonie
mentali, di fedeltà coniugali è la più bella creazione degli uomini.
Borderel acconsentiva inchinando
più di una volta la testa.
— Forse Bizet ha ragione,
diss'egli toccando il suo calice con i nostri colmi di champagne, forse voi
avete ragione.
— Lo credo. Nel matrimonio siamo
migliori... se non ci sono le Steinheil.
— Mi dispiace tradire uno dei
vostri segreti, Bizet. Ma voi mi avete detto che il vostro armadio di ferro è
pieno di documenti matrimoniali che permetterebbero di fare la storia della famiglia
della Terza Repubblica. Famiglie di cani e gatti, di mariti e di mogli...
— Le famiglie dei miei
casellarii sono famiglie di criminali, Possono dare il la criminoso, il la
delle famiglie turbate dai temperamenti contrarii, il la dei mariti e
delle mogli che possono convivere insieme a furia di adulterii e di tradimenti,
ma non vi possono dare il la delle famiglie sane di elezione, con l'uomo
e la donna che partecipino agli avvenimenti della loro esistenza, con le stesse
trepidazioni, con le stesse gioie, con gli stessi dolori. E quante famiglie che
non fanno chiasso, che passano inosservate, che nessuno studia sono la maggioranza,
la grande maggioranza, la quasi totalità della nazione.
— Questa è la verità vera,
aggiunse Borderel guardando l'orologio, e premendo il bottoncino sotto il
margine del tavolo.
— Il caffè coi liquori e fate
attaccare disse al cameriere, almeno se i signori, aggiunse con le braccia
allargate a un leggero inchino, non desiderano di farmi l'onore di rimanere a
pranzo.
— Grazie del pensiero, rispose
Bizet con la voce che strisciava e con un tenuo sorriso che racchiudeva un
ringraziamento. Magari! Baragiola deve essere in Parigi stasera per ripartire
domattina per Bethune. Egli deve assistere a una operazione...
— Che farà cadere quattro teste!
concludeva per dire il signor Borderel. Tanta civiltà accumulata in un secolo
per trovarci con la ghigliottina come ai tempi di Sanson!
— La colpa è dei signori
delinquenti, rispose Bizet, preparandosi un grosso sigaro. La civiltà li ha
lasciati intatti. Peggio, li ha peggiorati, li ha resi più perversi, più
iniqui.
— E voi credete che Deibler sia
più potente... Ingenuo! aggiunse Borderel, alzandosi in piedi e accendendo
signorilmente una sigaretta. Ne parleremo un altra volta...
— E rimarremo ciascuno della
nostra opinione. Signor Borderel; le nostre più sentite grazie per l'onore che
ci avete fatto.
I cavalli erano cambiati. La
berlina armonizzava con l'ambiente. Il panno era fresco, morbido, verde, più
verde del fogliame che ci circondava. Adagiati vi si stava come in una poltrona
soffice. Il fantino era tutto in bianco, con gale colorate alla spalla sinistra
che l'aria della corsa agitava come per colorirlo. I cavalli sulla discesa
vertiginosa non davano alcuna scossa.
— Caro Bizet, l'automobile corre
e dà le forti emozioni di essere scaraventati a qualche metro di distanza lungo
la corsa, ma la poesia dei cavalli e la sicurezza di questa berlina non le
danno altri veicoli.
— La poesia dei nostri tempi è
che il tempo è denaro.
Non abbiamo avuto il tempo di
annoiarci. I fremiti del treno internazionale delle tre pom. erano nell'aria.
Si udiva l'ansamento della macchina.
— Chi parte per Parigi!
Non ci fu che la sosta di
schiudere e di rinchiudere gli sportelli. Bagagli, posta, viaggiatori siamo
entrati tutti nello stesso attimo in cui la banderuola è stata agitata per la
partenza sfrenata. Un po' più di velocità, e saremmo rimasti tutti asfissiati.
— È però sempre un gentiluomo di
campagna, mi disse Bizet. Egli manca di brio, ha poca facilità di
comunicazione, è pauroso di dire qualche corbelleria... Con tutta la sua
rendita non cambierei con lui. La vita mi diventerebbe di piombo. Fumate,
fumiamo. Il signor Borderel, agricoltore è una buona pasta d'uomo, ma
pesante... La sua moralità non è superiore a quella di Bel-Ami. Nessuno ama
macchiargli il passato di gentiluomo, di uomo corretto, corretto fino al punto
da non accettare l'ospitalità della amata che a condizione di pagarne
l'affitto... Ma un galantuomo o un uomo onesto non siede alla tavola di un
marito del quale gode la moglie... anche se è lui che fornisce i mezzi del
pranzo. Diavolo, in quell'atto è un'insidia che nel mio dizionario dei
sinonismi non ha che brutte parole. Non si è galantuomini e gentiluomini solo
quando si paga, diacine!
— Egli ha messo in pratica la
teoria di Walpole, aggiunsi, dopo una pausa, prendendo Bizet per il braccio e
spingendolo amichevolmente verso il wagon-restaurant, dove si dimentica di viaggiare
e si beve un whisky che non si trova neanche al castello di Borderel. La
moralità dei cittadini e delle cittadine, amico mio, è tutta nel prezzo. C'è
chi si vende bene e chi si vende male, chi sa fare i proprii affari con
giudizio e chi senza giudizio. Ma le sproporzioni delle somme non distruggono
la verità sociale di Walpole: l'onestà di chi si vende e di chi compera è tutta
nel prezzo.
— Più ci allontanavamo dal
teatro della guerra e più Bizet si diceva lieto. Dappertutto aveva ricordi.
Laggiù, a Strasburgo, come mi diceva lui, aveva espiato i suoi peccati. Gli era
toccato di penetrarvi durante l'assedio per consegnare un ordine segreto al
generale Uhrig, il quale aveva rifiutato tutte le vie di una resa al generale
Werder che lo aveva assediato con 241 cannoni. Piuttosto che consegnarsi al
nemico egli voleva seppellirsi con gli 85.000 abitanti sotto le rovine del
bombardamento.
— È stato un eroe, il vecchio
Uhrig, ma un senza testa. Non si ha diritto di trascinare nel disastro una
città senza consultarla, quando si è matematicamente sicuri che la resa dovrà
avvenire più tardi, in condizioni più umilianti. La guerra è crudele, ma il
bombardamento che colpisce giovini e vecchi, donne e bimbi è straziante. Il
bombardamento degli assedianti è incominciato il 24 agosto, ma io non vi sono
penetrato che il giorno dopo, quando il cannone smantellava la cattedrale e la
gente cercava rifugi nei sotterranei, nelle cantine, nei luoghi più fondi o più
appartati. Voi non saprete mai le torture dell'uomo in mezzo alle stragi,
impotente a soccorrere la povera gente che piange e supplica e implora il
vostro aiuto. In tre giorni i prussiani ci hanno lanciato dai loro ridotti non
meno di 200 mila colpi d'artiglieria senza contare un numero su per giù
identico di proiettili. Il pomeriggio in cui il generale Uhrig si è deciso a
issare sulla città bastionata la bandiera bianca mi sono sentito sollevato da
un grande peso. Mi pareva di essere un po' responsabile di quello che avveniva.
Ma non avevo finito di tribolare. Dopo tante rovine ho dovuto assistere alla
speculazione che urta tutti i nostri sentimenti. Fatta l'entrata del nemico,
usciti i prigionieri per la via della Germania, si sono veduti gli avvoltoi umani
raccogliere le reliquie del bombardamento, vendere le scheggie delle granate,
le medaglie patriottiche coniate con l'avvenimento e non permettere l'ingresso
alla cattedrale che pagando un tallero.
— Parigi! a Parigi!
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