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IV CAPITOLO - POVERTÀ EVANGELICA "Chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo" (Lc. 14,33). "Che cosa vuol dire sposare la povertà? Vuol dire forse sposare teoricamente la povertà? Vuol dire far voto di povertà? Più! Vuol dire praticare la povertà? Più! Vuol dire rimanere attaccato alla povertà? Più! Più! Più! Sposare la povertà vuol dire far della vita olocausto per i poveri, per gli umili, per i lebbrosi... (...) Cosa vuol dire sposare la povertà? Ah, se i poveri figli della Divina Provvidenza sposassero la povertà! Se sapessero sposare la povertà, secondo lo spirito della Piccola Opera, nessuno più di noi, né francescani né cappuccini, nessuno più di noi sposerebbe la povertà! Sposare la povertà vuol dire incarnare in noi la vita dei più poveri, dei più abbandonati, dei più reietti, dei più afflitti. Questo è sposare la povertà! Non basta dire: viviamo poveramente. Non basta dire: abbiamo fatto promessa di essere poveri! Non basta! Sposare la povertà è amare la povertà, ritratto di Cristo nei nostri fratelli, e amarla tanto (...) e viverla tanto, come lo sposo ama la sposa. (...) E se i Figli della Divina Provvidenza, con l'aiuto del Signore - poiché da noi non possiamo nulla, non facciamo nulla - saranno quali il soffio della Divina Provvidenza ci ha suscitati, allora nessuno, fra tutti i religiosi, dovrà vivere e sposare la povertà nel senso più vero, nel senso più grande, nel senso più santo, di noi, chiamati a consacrare la vita per la gente più povera per tanti afflitti e reietti nostri fratelli, per quelli che il mondo ritiene come cocci rotti, rifiuti della società e da fuggire come gente non degna d'essere neppure guardata...". (Da una predica del 6 ottobre 1939. Cf. "La parola di Don Orione", vol. XI, p. 142 ss.) |
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