XVI.
DELLA TORTURA
Una crudeltà
consacrata dall'uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo
mentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per
le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non
so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d'infamia, o finalmente per
altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato.
Un uomo non può chiamarsi reo
prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica
protezione, se non quando sia deciso ch'egli abbia violati i patti coi quali le
fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia
la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se
sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o
incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed
inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto,
e' non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i
di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di più, ch'egli è un voler
confondere tutt'i rapporti l'esigere che un uomo sia nello stesso tempo
accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi
che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile.
Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i
deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di
verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch'essi per
più d'un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo
lodata virtù.
Qual è il fine politico delle
pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle
segrete e private carnificine, che la tirannia dell'uso esercita su i rei e
sugl'innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma
è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle
tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v'è rimedio, non può esser punito
dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga
dell'impunità. S'egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per
timore, o per virtù, rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il
rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto di più, quanto è
maggiore la probabilità che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate
che disprezzate.
Un altro ridicolo motivo della
tortura è la purgazione dell'infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi
deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest'abuso
non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore,
che è una sensazione, purghi l'infamia, che è un mero rapporto morale. È egli
forse un crociuolo? E l'infamia è forse un corpo misto impuro? Non è difficile
il rimontare all'origine di questa ridicola legge, perché gli assurdi stessi
che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche relazione ad altre
idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest'uso preso dalle
idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli
uomini, su le nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le
macchie contratte dall'umana debolezza e che non hanno meritata l'ira eterna
del grand'Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora
l'infamia è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie
spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della tortura non toglieranno la
macchia civile che è l'infamia? Io credo che la confessione del reo, che in
alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non
dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei
peccati è parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei
lumi più sicuri della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono
nei tempi d'ignoranza, così ad essi ricorre la docile umanità in tutte le
occasioni e ne fa le più assurde e lontane applicazioni. Ma l'infamia è un
sentimento non soggetto né alle leggi né alla ragione, ma alla opinione comune.
La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con
questo metodo si toglierà l'infamia dando l'infamia.
Il terzo motivo è la tortura
che si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi
che il timore della pena, l'incertezza del giudizio, l'apparato e la maestà del
giudice, l'ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl'innocenti, non
debbano probabilmente far cadere in contradizione e l'innocente che teme e il
reo che cerca di coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini
quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione dell'animo
tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall'imminente pericolo.
Questo infame crociuolo della
verità è un monumento ancora esistente dell'antica e selvaggia legislazione,
quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell'acqua
bollente e l'incerta sorte dell'armi, quasi che gli anelli dell'eterna catena,
che è nel seno della prima Cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati
e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che passa
fralla tortura e le prove del fuoco e dell'acqua bollente, è che l'esito della
prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto
puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non
reale. È così poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi,
quanto lo era allora l'impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell'acqua
bollente. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza
della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni
uomo è limitata. Dunque l'impressione del dolore può crescere a segno che,
occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la
strada più corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la
risposta del reo è così necessaria come le impressioni del fuoco o dell'acqua.
Allora l'innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far
cessare il tormento. Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo,
che si pretende impiegato per ritrovarla. È superfluo di raddoppiare il lume
citando gl'innumerabili esempi d'innocenti che rei si confessarono per gli
spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è età che non citi i suoi, ma
né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia
spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra
verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l'uso, il tiranno
delle menti, lo rispinge e lo spaventa. L'esito dunque della tortura è un
affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione
della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un
matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza
dei muscoli e la sensibilità delle fibre d'un innocente, trovare il grado di
dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto.
L'esame di un reo è fatto per
conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all'aria, al
gesto, alla fisonomia d'un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo
in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto
della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la
verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli
oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.
Queste verità sono state
conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna
tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste
dall'Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del
commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtù e di
coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata
abolita nella Svezia, abolita da uno de' più saggi monarchi dell'Europa, che
avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de' suoi sudditi, gli
ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza
e libertà che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti
combinazioni di cose. La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli
eserciti composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che
sembrerebbono perciò doversene più d'ogni altro ceto servire. Strana cosa, per
chi non considera quanto sia grande la tirannia dell'uso, che le pacifiche
leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il più
umano metodo di giudicare.
Questa verità è finalmente
sentita, benché confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale
la confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo
cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato.
Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame petizione di
principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad
arbitrio del giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o ugualmente
rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido
condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi
rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti
assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione
strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di
nuovo se non confermerete ciò che avete confessato.
Una strana conseguenza che
necessariamente deriva dall'uso della tortura è che l'innocente è posto in
peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento,
il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è
condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il
reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con
fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in
una minore. Dunque l'innocente non può che perdere e il colpevole può
guadagnare.
La legge che comanda la tortura
è una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato
in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto
alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico
odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità
anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa.
Dassi la tortura per
discuoprire se il reo lo è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato,
il che equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è
possibile che lo sii di cent'altri delitti; questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene
col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi
esser reo, perché voglio che tu sii reo.
Finalmente la tortura è data ad
un accusato per discuoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che
ella non è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come potrà ella servire
a svelare i complici, che è una delle verità da scuoprirsi? Quasi che l'uomo
che accusa se stesso non accusi più facilmente gli altri. È egli giusto
tormentar gli uomini per l'altrui delitto? Non si scuopriranno i complici
dall'esame dei testimoni, dall'esame del reo, dalle prove e dal corpo del
delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per
accertare il delitto nell'accusato? I complici per lo più fuggono
immediatamente dopo la prigionia del compagno, l'incertezza della loro sorte
gli condanna da sé sola all'esilio e libera la nazione dal pericolo di nuove
offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene l'unico suo fine, cioè
di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto.
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