XVII.
DEL FISCO
Fu già un tempo nel quale
quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il
patrimonio del principe. Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un
oggetto di lusso. Chi era destinato a difenderla aveva interesse di vederla
offesa. L'oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l'esattore di
queste pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico,
che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa
ed al reo altri torti che quelli in cui era caduto, per la necessità
dell'esempio. Il giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un
indifferente ricercatore del vero, un agente dell'erario fiscale anzi che il
protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il
confessarsi delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era
lo scopo delle procedure criminali d'allora, così la confessione del delitto, e
confessione combinata in maniera che favorisse e non facesse torto alle ragioni
fiscali, divenne ed è tuttora (gli effetti continuando sempre moltissimo dopo
le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali.
Senz'essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore della
stabilita, senz'essa non soffrirà la tortura sopra altri delitti della medesima
specie che possa aver commessi. Con questa il giudice s'impadronisce del corpo
di un reo e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo
acquistato tutto il profitto che può. Provata l'esistenza del delitto, la
confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova meno sospetta
cogli spasimi e colla disperazione del dolore a forza si esige nel medesimo
tempo che una confessione stragiudiziale tranquilla, indifferente, senza i
prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non basta alla condanna. Si
escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscono
le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza che si
risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che
potrebbe perdere quest'ente ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice
diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda allo squallore, ai
tormenti, all'avvenire il più terribile; non cerca la verità del fatto, ma
cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi
riesce, e di far torto a quella infallibilità che l'uomo s'arroga in tutte le
cose. Gl'indizi alla cattura sono in potere del giudice; perché uno si provi
innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo
offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel
decimo ottavo secolo le procedure criminali. Il vero processo, l'informativo,
cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le
leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi
tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual
complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla più
felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura
dell'uomo la possibile verificazione di un tale sistema.
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