XXIX.
DELLA CATTURA
Un errore
non meno comune che contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria
sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi
d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli
pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di
reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza
d'ogn'altra, precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere
distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i
casi nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gl'indizi di
un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e
ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella
d'un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l'offeso,
il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino;
ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de'
quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni
particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura che
le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri,
che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno
agl'inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno
contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare. Un uomo accusato di un
delitto, carcerato ed assoluto non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia.
Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal
popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso
ai tempi nostri l'esito di un innocente? Perché sembra che nel presente sistema
criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della
prepotenza a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna
gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che una
custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata
dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbon
essere. Così la prima sarebbe, per mezzo del comune appoggio delle leggi,
combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella con immediata
podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto di un corpo militare
toglierebbero l'infamia, la quale è più attaccata al modo che alla cosa, come
tutt'i popolari sentimenti; ed è provato dall'essere le prigionie militari
nella comune opinione non così infamanti come le forensi. Durano ancora nel
popolo, ne' costumi e nelle leggi, sempre di più di un secolo inferiori in
bontà ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le
feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri.
Alcuni hanno sostenuto che in
qualunque luogo commettasi un delitto, cioè un'azione contraria alle leggi,
possa essere punito; quasi che il carattere di suddito fosse indelebile, cioè
sinonimo, anzi peggiore di quello di schiavo; quasi che uno potesse esser
suddito di un dominio ed abitare in un altro, e che le di lui azioni potessero
senza contradizione esser subordinate a due sovrani e a due codici sovente
contradittori. Alcuni credono parimente che un'azione crudele fatta, per
esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l'astratta ragione
che chi offende l'umanità merita di avere tutta l'umanità inimica e
l'esecrazione universale; quasiché i giudici vindici fossero della sensibilità
degli uomini e non piuttosto dei patti che gli legano tra di loro. Il luogo
della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente e non altrove gli
uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire l'offesa pubblica.
Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti di una società di cui non era
membro, può essere temuto, e però dalla forza superiore della società esiliato
ed escluso, ma non punito colle formalità delle leggi vindici dei patti, non
della malizia intrinseca delle azioni.
Sogliono i rei di delitti più
leggieri esser puniti o nell'oscurità di una prigione, o mandati a dar esempio,
con una lontana e però quasi inutile schiavitù, a nazioni che non hanno offeso.
Se gli uomini non s'inducono in un momento a commettere i più gravi delitti, la
pubblica pena di un gran misfatto sarà considerata dalla maggior parte come
straniera ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica pena di delitti più
leggeri, ed a' quali l'animo è più vicino, farà un'impressione che,
distogliendolo da questi, l'allontani viepiù da quegli. Le pene non devono
solamente esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel
modo d'infliggerle. Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto quando la
parte offesa lo perdoni, atto conforme alla beneficenza ed all'umanità, ma
contrario al ben pubblico, quasi che un cittadino privato potesse egualmente
togliere colla sua remissione la necessità dell'esempio, come può condonare il
risarcimento dell'offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di
tutti i cittadini o del sovrano. Egli non può che rinunziare alla sua porzione
di diritto, ma non annullare quella degli altri.
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