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Cesare Beccaria Dei delitti e delle pene IntraText CT - Lettura del testo |
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Un errore
non meno comune che contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria
sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi
d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli
pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di
reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza
d'ogn'altra, precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere
distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i
casi nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gl'indizi di
un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e
ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella
d'un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l'offeso,
il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino;
ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de'
quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni
particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura che
le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri,
che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno
agl'inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno
contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare. Un uomo accusato di un
delitto, carcerato ed assoluto non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia.
Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal
popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso
ai tempi nostri l'esito di un innocente? Perché sembra che nel presente sistema
criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della
prepotenza a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna
gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che una
custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata
dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbon
essere. Così la prima sarebbe, per mezzo del comune appoggio delle leggi,
combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella con immediata
podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto di un corpo militare
toglierebbero l'infamia, la quale è più attaccata al modo che alla cosa, come
tutt'i popolari sentimenti; ed è provato dall'essere le prigionie militari
nella comune opinione non così infamanti come le forensi. Durano ancora nel
popolo, ne' costumi e nelle leggi, sempre di più di un secolo inferiori in
bontà ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le
feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri.
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