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Pietro Bembo
Prose della volgar lingua

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  • Libro III
    • Capitolo XV
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Capitolo XV

      Dissi delle due primiere voci, che in vece di nomi si pongono, nel numero del meno; ora dico che elle, in quello del più, quando sono intere niuna varietà fanno, ma così si dicono, Noi Voi, per tutti i casi. Ma qualora esse la lettera del mezzo lasciano adietro, la prima ad un modo si scrive sempre così, Ne, o ne' versi che ella entri o nelle prose; la seconda medesimamente ad un modo così, Vi, in tutti gli altri luoghi; solo che o nella rima, quando ella sotto l'accento si sta del verbo, che si ponga senza termine, I nel qual luogo, secondo che alla rima mette bene, e Vi e Ve parimente dire si può, Farvi, Darve; o pure quando ella si pon con questa particella Ne, perciò che in quel caso ella medesimamente in E finisce continuo: Mi ve ne dolsi: Mi ve ne sia doluta. La qual particella tanto ha di forza, che ancora con le altre già dette voci posta, in E le fa finire similmente: Me ne rendo sicuro, Te ne do licenzia, Vi se ne conviene. A volere ora intendere, quando le intere di queste voci usar si debbano e quando le non intere, oltra quello che detto s'è, altro sapere non vi bisogna; se non che a qualunque guisa Io e Tu, e a qualunque guisa Me e Te, aventi sopra sé gli accenti, si pongono, poniate Voi e Noi medesimamente; a quelle maniere poscia del dire, alle quali Mi e Ti si danno, o pure Me e Te, che da altri accenti si reggano, come io dissi, diate le non intere. È oltre acciò, che si vede la Ci, in vece della Ne, comunemente usarsi da' prosatori: Noi ci siamo aveduti che ella ogni dì tiene la cotal maniera, e altrove: Egli non sarà alcuno che, veggendoci, non ci faccia luogo e lascici andare. Da' poeti ella non così comunemente si vede usata, anzi di rado e sopra tutti dal Petrarca, il qual nondimeno la pose ne' suoi versi alcuna volta. Questa Ci tuttavia muta la sua vocale nella E, a quella guisa medesima che del Vi, vegnente dal Voi, si disse: Tu non ce ne potresti far più, e somiglianti.




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