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Pietro Bembo Prose della volgar lingua IntraText CT - Lettura del testo |
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Io - tornò qui a dire mio
fratello - tanto credo esser vero, quanto voi dite d'intorno a questa voce; ma
egli mi risorge da un'altra parte di lei un altro dubbio, il quale è questo che
egli si truova ne' poeti alle volte dupplicata di lei la prima lettera, quando
ella è consonante, Aprilla Dipartille, in vece di dire La aprì e Le
dipartì. Questo perché si fa? O quando s'ha egli a fare più in un luogo che
in altro? - Fassi - disse il Magnifico - ogni volta che ella, dopo 'l verbo in
vocale finiente posta, dall'accento di lui si regge, e il verbo ha l'accento
sopra l'ultima sillaba. Perciò che, sì come ci ragionò ieri messer Federigo,
l'accento, posto sopra l'ultima sillaba della voce, molto di forza si vede che
ha, in tanto che egli ne' versi di dieci sillabe, nella fine del verso posto, opera
che la sillaba, sopra cui esso giace, vi sta in vece di due sillabe e basta per
quella che al verso manca naturalmente. Perché, sì come egli da questa parte
dimostra la sua forza, bastando per una sillaba che non v'è, così da
quest'altra, quando alcuna di queste voci vi s'aggiugne, la dimostra egli
medesimamente, raddoppiando sempre la consonante di lei, come diceste, perché
la sillaba ne divenga più piena: Dàlle Sortille e somiglianti. Né
solamente in queste voci ciò aviene, che si raddoppia in quel caso sempre la
lettera consonante loro nel verso; anzi in quelle altre ancora che si son
dette, Mi Ti Si, e Ne, in vece di Noi detta, ora nel verso
e quando nella prosa questo stesso si vede avenire. Perciò che né più né meno,
nel verso, Fammi Mostrommi Stassi Vedrassi, vi si dice sempre, et Etti
Faratti Dinne e Dienne nelle prose. Né solo la consonante di queste
tali voci si raddoppia, ma ancora la vocal loro primiera quando ella in forza
di consonante vi si pone; come si pon nel Voi, che si dice Vi: Favvi
Sovvi Puovvi Dievvi, e somiglianti; tuttavia solamente nelle prose, ché
nelle rime ciò non ha luogo. Raddoppiavisi medesimamente la consonante di
queste due particelle del parlare, Vi Ci, o pure la vocale che in vece
di consonante vi sta: et evvi, oltre acciò, l'aere più fresco, e Porrovvi
suso alcun letticello, e Hacci Vacci e simili -. Appena avea così
detto il Magnifico, che messer Federigo così disse: - Egli è il vero che quelle
consonanti, che voi detto avete, si raddoppiano, Giuliano, a quelle voci donate,
che si son dette. Ma io mi sono aveduto che in alquante altre voci elle non si
raddoppiano; il che si pare non solo in Dante, il quale e Quetami e Levami
disse, ma ancora nel nostro medesimo Boccaccio, che disse: Farane un
soffione alla tua servente, e altrove, Tu hai avuto da me ciò che
disiderato hai, e hami straziata quanto t'è piaciuto; e ciò si vede in
molti altri luoghi delle sue prose. E pure qui la medesima ragione v'è
dell'accento che è in quelle. - E così detto, si tacque. Di che il Magnifico
rincominciò in questa maniera: Egli v'è bene, in quelle voci che voi detto
avete e in altre somiglianti, l'accento che io dissi, ma egli non v'è in quel
modo. Con ciò sia cosa che egli in queste voci non vi sta, sì come in ultima
loro sillaba, anzi sì come in penultima; perciò che Quetàimi e Levàimi
e Faràine e Hàimi, sono le compiute voci. Là dove in quelle,
delle quali vi recai gli essempi, elle vi stanno, sì come in compiute. E perciò
che compiendole, come io ora fo, e fuori mandandolene, le consonanti raggiunte
loro non si raddoppiano, ché non si potrebbe dire Quetaìmmi Ricorderaìtti
e l'altre, ché bisognerebbe levarne l'accento del suo luogo, vuole l'usanza
della lingua che elleno vi rimangano sole e semplici, non altramente che se le
voci si dicesser compiute. Il che si fa medesimamente della voce, di cui si
ragionava; perciò che, quando la voce, a cui ella si dà, è compiuta, la
consonante di lei si raddopia, come si dice. Vedesi in questi versi:
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