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Pietro Bembo
Prose della volgar lingua

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  • Libro III
    • Capitolo XXVIII
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Capitolo XXVIII

      Nella seconda voce del numero del meno, è solamente da sapere che ella sempre nella I termina, se non quando i poeti la fanno alcuna volta, ne' verbi della prima maniera, terminare eziandio nella E; sì come fe' il Petrarca, che disse:
Ahi crudo Amor, ma tu allor più m'informe
a seguir d'una fera, che mi strugge,
la voce, i passi e l'orme.
Et è oltre acciò da avertire che, in quelli della seconda maniera, non mostra che questa voce si formi e generi dalla prima, ma da sé; con ciò sia cosa che in Doglio Tengo e simili, non Dogli Tenghi, ma Duoli Tieni si dice. Nella qual voce, oltre acciò che il fine non ha con lei somiglianza, aviene ancor questo, che vi s'aggiugne di nuovo una vocale, per empierlane di più quel tanto: Doglio Duoli, Voglio Vuoli, Soglio Suoli, Tengo Tieni, Seggo Siedi, Posso Puoi, e altri; come che Vuoli più è del verso che delle prose, le quali hanno Vuoi e più anticamente Vuogli, sì come anco Suogli; le quali due voci, più che le altre, fanno ritratto pure dalla primiera. Di che altra regola dare non vi si può, se non questa: che altre vocali che la I e la U non hanno in ciò luogo; e quest'altra: che nelle voci, nelle quali la A giace nella penultima sillaba, non entran di nuovo queste vocali né veruna altra; ché Vaglio e simili non crescono da questa parte. Passa questo uso nella terza voce del numero del meno medesimamente continuo, ma più oltre non si stende; se non si stende in questo verbo Siede, nel quale Siedono eziandio si legge, come che Seggono più toscanamente sia detta. Passa altresì nella quarta maniera, ma solamente, che io mi creda, in questi verbi: Vengo, che Vieni e Viene fa, e Ferisco, che fa Fiere e Fiede, e Chero, che fa Chiere, quantunque egli, non pur come verbo della quarta maniera, anzi ancora come della seconda, Cherire e Cherere ha per voci senza termine, sì come l'altr'ieri si disse. Pongo, che della terza maniera è, tra l'una e tra l'altra si sta di queste regole, perciò che egli né Ponghi ha né Puoni per seconda sua voce, anzi ha Poni, voce nel vero temperata e gentile. Traggo d'altra parte due voci ha, Traggi e Trai detta più toscanamente, e ciò serba egli in buona parte delle voci di tutto 'l verbo; come che egli nondimeno nelle voci, nelle quali entra la lettera R nella seconda loro sillaba, raddoppiandonela, l'una e l'altra adietro lascia di queste forme. Muoio due voci ha di questa forma: la seconda di questo numero Muoi, e la terza di quello del più Muoiono; dalle quali tre voci ne vengono tre altre: Muoia e Muoii e Muoiano; le rimanenti di tutto 'l verbo da Moro, che toscana voce non è, hanno forma. Di questa seconda voce, di cui si parla, levò il Boccaccio la vocale ultima, quando e' disse: Haiti tu sentito stamane cosa niuna? tu non mi par desso; e poco dapoi, Tu par mezzo morto. La qual voce non da Pajo, che toscana è, ma da Paro, che è straniera, si forma. E il Petrarca non solamente la detta vocal ne levò, Vien' in vece di Vieni e Tien' in vece di Tieni e Sostien' in vece di Sostieni, ma ancora talor quasi intera e talor tutta intera l'ultima sillaba, Tôi in vece di Togli e Cre' in vece di Credi e Suo' in vece di Suoli, ponendo. Quantunque Tôi eziandio dal medesimo Boccaccio si disse nelle novelle: Dunque tôi tu ricordanza dal sere? Levarono altresì della terza i miei Toscani la vocale ultima spesse volte, quando ella dopo la L o dopo la N si pone, e la voce, che la seguita, si regge dall'accento medesimo del verbo. Non dico già ne' verbi della prima maniera, ne' quali la A, che è la vocale loro ultima, non se ne leva giamai; ma dico in quelli della seconda o ancora della quarta, Duolmi Suolti Vuolsi Vuolvi e Tiemmi e Viemmi e somiglianti. Come che alcuna volta eziandio, quando la voce, che segue, non si regge dall'accento del verbo, ciò si vede che usarono i poeti, Fier in vece di Fiere e Chier in vece di Chiere dicendo; e i prosatori altresì, che Par e Pon e Vien in vece di Pare e Pone e Viene dissero. Levarono in Puote i toscani prosatori, che la intera voce è, tutta la sezzaia sillaba e Può ne fecero, più al verso lasciandolane che serbandola a sé, il qual verso nondimeno usò parimente e l'una e l'altra. Aggiunsonvene allo 'ncontro un'altra i poeti bene spesso in questo verbo Ha, e fecerne Have, per aventura da' Napoletani pigliandola, che l'hanno in bocca continuo. Falla e Falle, che si legge parimente in questa voce, non sono d'un verbo medesimo, anzi di due; l'uno de' quali della prima maniera si vede che è, Fallare, e tanto vale quanto Mancare e Non bastare; l'altro è della quarta, Fallire, e pigliasi per Fare errore e inganno e pecca, da cui ne viene il Fallo. Così forma da sé ciascuno la sua terza voce, da quella dell'altro separata e nella terminazione e nel sentimento. Quantunque sì pure s'è egli per alcuni posto Fallire in sentimento di Mancare, ma Fallare in sentimento di Peccare e d'Errare non mai. Pungo Ungo e di questa forma degli altri, due fini hanno e nella seconda e nella terza voce di questo numero, secondo che essi o prepongono o pospongono la N alla G, che vi sono: Pungi e Pugni, Ungi e Ugni, Punge e Pugne, Unge e Ugne similmente; delle quali quelle, che l'hanno posposta, sono più toscane. E a questa condizione è Stringo e degli altri, che con le due consonanti, che io dissi, le dette voci chiudono. Esce di regola la terza voce del verbo Sofferire, la quale è Soffera.




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