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Pietro Bembo
Prose della volgar lingua

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  • Libro III
    • Capitolo L
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Capitolo L

      Ragionare oltre a questo de' verbi, che sotto regola non istanno, non fa lungo mestiero; con ciò sia cosa che essi son pochi, e di poco escono; sì come esce Vo, che Ire e Andare ha per voce senza termine parimente, e del quale le voci tutte del tempo, che corre mentre l'uom parla, a questo modo si dicono, Va Vada. Le altre tutte, da questa, che io dissi Andare, formandosi, così ne vanno, Andava Andai Anderò e più toscanamente Andrò e Andrei. Gire e Gìa e Gìo e Girei e Gito e simili sono voci del verso, quantunque Dante sparse l'abbia per le sue prose. Esce ancor Sono, che Son e So' alle volte s'è detto e nel verso e nelle prose, e Se' in vece di Sei nella seconda sua voce, del quale è la voce senza termine questa Essere, che con niuna delle altre non s'aviene, se non s'avien con questa Essendo, che si dice eziandio Sendo alcuna volta nel verso. Il qual verbo ha nel passato Fui e Sono stato e Suto, che vale quanto Stato; e nella terza voce del numero del più Furono, che Fur s'è detto troncamente, e Furo, che non così troncamente disse il Petrarca. Quantunque Stato è oltre acciò la voce del passato, che di verbo e di nome partecipa, e torcesi per li generi e per li numeri. Fue, che disse il medesimo Petrarca, in vece di Fu, voce pure del verso, ma non sì che ella non sia eziandio alle volte delle prose, è con quella licenza detto, con la quale molti degli altri poeti a molte altre voci giunsero la medesima E, per cagione della rima, Tue Piue Sue Giue Dae Stae Udie Uscie, e alla terza voce ancora di questo stesso verbo, Ee, che disse Dante, e Mee e ad infinite somiglianti. Dalla quale troppa licenza nondimeno si rattenne il medesimo Petrarca, il quale, oltre a questa voce Fue, altro che Die, in vece di , non disse di questa maniera; e fu egli in ciò più guardingo ne' suoi versi, che Giovan Villani non è stato nelle sue prose, con ciò sia cosa che in esse Hae e Vae e Seguie e Cosie si leggono. Quantunque Die s'è detto anticamente alcuna volta eziandio nelle prose, perciò che dicevano Nel die giudicio, in vece di dire Nel dì del giudicio. Di questo verbo pose il Boccaccio la terza voce del numero del meno È con quello del più ne' nomi, Già è molt'anni dicendo. Le terze voci di lui, che si danno al tempo che è a venire, in due modi si dicono, Sarà e Fia e Saranno e Fiano; e poi nel tempo che corre, condizionalmente ragionandosi, Sia e Siano e Fora, voce del verbo, di cui l'altr'ieri si disse, che vale quanto Sarebbe, e Saria quello stesso, che si disse spesse volte Sarie nelle prose; delle quali sono parimente voci Fie e Fieno, Sie e Sieno, in vece delle già dette. Ha il detto verbo quello, che di niuno altro dir si può, e ciò è, che la prima voce sua del numero del meno e la terza di quello del più sono quelle stesse. Esce Ho anch'egli, in quanto da Avere non pare che si possa ragionevolmente formare così questa voce. Più dirittamente ne viene Abbo, che disse Dante, e degli altri antichi; ma ella è voce molto dura, e perciò ora in tutto rifiutata e da' rimatori e da' prosatori parimente. Non è così rifiutata Aggio, che ne viene men dirittamente, sì come voce non così rozza e salvatica, e per questo detta dal Petrarca nelle sue canzoni, tolta nondimeno da' più antichi, che la usarono senza risguardo; dalla quale si formò Aggia e Aggiate, che il medesimo poeta nelle medesime canzoni disse più d'una volta. Dalla Ho, prima voce del presente tempo molto usata, formò messer Cino la prima altresì del passato Ei, quando e' disse:
Or foss'io morto, quando la mirai,
che non ei poi, se non dolore e pianto,
e certo son ch'io non avrò giamai.




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