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Giordano Bruno
Candelaio

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  • ATTO SECONDO
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SCENA IV
Sanguino, signora Vittoria

    SANGUINO - Bàsovi quelle bellissime ginocchia e piedi, signora Porzia mia dolcissima, saporitissima più che zucchero, cannella e senzeverata. O ben mio, si non fussemo in piazza, non mi terrebono le catene di santo Leonardo ch'io non ti piantasse un bacio a quelle labbra che mi fan morire.
    SIGNORA VITTORIA - Che portate di novo, Sanguino?
    SANGUINO - Messer Bonifacio ve si raccomanda; et io vel racomando cossì come i buoni padri raccomandano i lor putti a' maestri: idest che se egli non è saggio, lo castigate ben bene; e se volete uno che sappia e possa tenerlo a cavallo, servitevi di me.
    SIGNORA VITTORIA - Ah! ah! ah! che volete dir per questo?
    SANGUINO - Non l'intendete? non sapete quel ch'io voglio dire? Siete tanto semplicetta voi?
    SIGNORA VITTORIA - Io non ho queste malizie che voi avete.
    SANGUINO - Se non avete di queste malizie, avete di quelle, e di quelle, e di quell'altre; e se non sète fina come posso esser io, sète come può essere un altro. Or lasciamo queste parole da vento: vengamo al fatto nostro. - Era un tempo che il leone e l'asino erano compagni; et andando insieme in peregrinaggio convennero che al passar de fiumi si tranassero a vicenna: com'è dire, che una volta l'asino portasse sopra il leone, et un'altra volta il leone portasse l'asino. Avendono dumque ad andar a Roma, e non essendo a lor serviggio né scafa né ponte, gionti al fiume Garigliano, I'asino si tolse il leone sopra: il quale natando verso l'altra riva, il leon, per tema di cascare, sempre più e più gli piantava l'unghie ne la pelle di sorte che a quel povero animale gli penetrorno in sin all'ossa. Et il miserello (come quel che fa professione di pazienza) passò al meglio che poté senza far motto. Se non che gionti a salvamento fuor de l'acqua, si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o quattro volte per l'arena calda: e passoron oltre. Otto giorni dopo, al ritornare che fecero, era il dovero che il leone portasse l'asino. Il quale essendogli sopra, per non cascar ne l'acqua, co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento (o come vogliam dire, il tu-m'intendi), per parlar onestamente, al vacuo sotto la coda, dove manca la pelle: di maniera ch'il leone sentì maggior angoscia che sentir possa donna che sia nelle pene del parto, gridando «Olà, olà, oi, oi, oi, oimè! olà traditore!». A cui rispose l'asino in volto severo e grave tuono: «Pazienza, fratel mio: vedi ch'io non ho altr'unghia che questa d'attaccarmi». E cossì fu necessario ch'il leone suffrisse et indurasse sin che fusse passato il fiume. A proposito, «Omnio rero vecissitudo este»: e nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta venendogli a proposito, non si serva de l'occasione. Alcuni giorni fa messer Bonifacio rimase contristato di certo tratto ch'io gli feci; oggi, all'ora ch'io credevo che si fusse desmenticato, me l'ha fatta peggio che non la fece l'asino al lione: ma io non voglio che la cosa rimagna cqua.
    SIGNORA VITTORIA - Che vi ha egli fatto? che volete voi fargli?
    SANGUINO - Ve dirò... Oh, veggio compagni che vengono: retiriamoci e parlaremo a bell'aggio.
    SIGNORA VITTORIA - Voi dite bene: andiamo in nostra casa, che voglio saper de cose da voi.
    SANGUINO - Andiamo, andiamo.




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