Capitolo III
ASCETICA
Le campane di R...
suonavano, un'ora dopo, a distesa, e l'allegro suono cadeva sui tetti del
paesello, si spandeva giù per i prati, cercava per le colline, per le montagne,
ogni casupola dispersa. Una riga di fazzoletti oscuri si vide salir lentamente
la via tortuosa della chiesa, scivolar nella gran porta nera come formiche nel
formicaio; poi vennero frotte rapide di gai fazzoletti rossi e gialli, qualche
tardo ombrellino pretensioso, altre frotte di cappelli a cencio che si
aggrupparono nel sagrato.
Steinegge passò anche lui fra quei
gruppi con Edith, l'accompagnò in chiesa e ne uscì un momento dopo. Prese il
sentiero che s'inerpica su pel monte imminente alla chiesa e salì fino a certi
sassi imboscati d'allori; là uscì dal sentiero e si gittò a sedere.
Ecco la contessa Fosca, tutta
trafelata, benché sia venuta in barca fino a R...; dietro a lei Giovanna e
Catte; poi, a rispettosa distanza, Momolo guarda trasognato come se fosse nel
mondo della luna. Sua Eccellenza è scandolezzata del cugino che non viene a
Messa e della cuginetta che ha scelto quel momento per farsi accompagnare a
spasso da Nepo. Sua Eccellenza si propone di pregare fervorosamente per sé e
per suo figlio che non è in colpa se perde Messa per certi riguardi che il
Signore capirà. Essa vede Edith e va a sederle vicino con grande scompiglio
delle contadine che per far largo alla grossa signora s'inginocchiano a terra
fuori del banco. Ed ecco suona il campanello, escono i chierici in cotta
bianca, esce il prete affondato nel piviale, l'organista pianta mani e piedi
sull'organo, gli uomini entrano in chiesa. Dopo cinque minuti, per la porta
laterale, compare Marina seguita da Nepo. Passando tra le file degli uomini fa
cenno al suo cavaliere di pigliarvi posto ed entra in una cappella. Nepo,
elegantissimo, capita fra due colossi puzzolenti, si fa piccino piccino e volta
il viso immelensito a guardar giù per la chiesa, cercando Marina. Trova Catte
inginocchiata presso alla Giovanna, trova Momolo ritto presso alla porta; trova
un pezzo di cielo puro e di verde lucente con certe frondi mosse dal vento, che
gli ridono in faccia, trova gli occhi attoniti di sua madre, ma non la crudele
che s'è pigliato il gusto di fargli rinnegar la Messa a parole per poi condurvelo
e piantarlo lì fra quel tanfo di plebe.
Ella non pensava punto a lui. Il
prete aveva intonato Credo in unum Deum, e il popolo, fra i suoni
dell'organo, seguiva: Patrem omnipotentem. Un lampo illuminò nel cuore
di Marina la via percorsa; la scoperta del manoscritto, le promesse arcane a
Cecilia, l'amore intravveduto negli occhi di Silla, la stretta delle sue
braccia veementi, il nome sussurrato da lui quella notte, la probabilità
ch'egli fosse il suo corrispondente anonimo portato a lei da un destino, e la
passione, sì, la benedetta passione sorda, muta, lenta, prepotente, che dopo
tanto desiderio, dopo tanti barlumi dileguati, dopo tanto fastidio di sciocchi
corteggiatori, veniva. Ella ebbe uno slancio di fede e di gratitudine verso un
Dio ignoto, certo diverso da quello che si adorava lì presso a lei: non così
freddo, non così lontano: benefico e terribile come il sole, ispiratore di
tutti gli ardori onde splende la vita. E si sentiva come presa in mano da
questo Iddio, portata dal suo favore onnipotente. Teneva il viso tra le palme,
si ascoltava il cuore batter forte, gustava le sensazioni acute, quasi
dolorose, che le si destavano per tutto il corpo, pensando all'infallibile
compiersi delle promesse divine, all'amore fatale che l'avrebbe esaltata tutta,
anima e sensi, oltre alla torbida natura umana. Di questo non le entrava
neppure un dubbio. Ripensava tutte le difficoltà da doversi superare per toccar
la meta, le smarrite tracce di Silla, lo sdegno di lui, fors'anche l'oblio; la sepoltura
del Palazzo dove il caso non poteva aiutare; la nimicizia dello zio, quel
ridicolo Nepo. Provava un piacere acre e forte rappresentandosi questi
ostacoli; tutti vani contro Dio, Patrem omnipotentem.
A Lui, a Lui si abbandonava. Curva
sul banco la flessuosa persona, pareva una Tentazione penitente. La contessa
Fosca le dava delle occhiate oblique, lavorando a più potere di ventaglio e
battendo via con le labbra frettolose un chiacchierìo muto di preghiere
interminabili. Si compiaceva di vederle quell'attitudine pia. Immaginava
gl'inchini che il vecchio nonzolo di S. Maria Formosa avrebbe fatto a
sua nuora. Nepo era alla tortura; si portava e riportava al naso il fazzoletto
profumato, guardava sottecchi i suoi vicini colossali e, quando si buttavano
ginocchioni con tutti gli altri fedeli, egli non osava stare ritto, calava
adagio adagio, pieno di angoscia pei suoi calzoni color tortora. Che differenze
dall'ultima Messa di S. Filippo, da quel giardino di tote e di madame
eleganti, da quell'ambiente di cristianesimo depurato! Si consolava pensando
alla cugina. «Natura aristocratica» diceva tra sé. «Debbo essere il suo ideale,
il suo Messia. Non vuole che me ne accorga troppo, è naturale.»
Suonò il campanello dell'elevazione.
Nepo, in ginocchio, col capo devotamente chino, pensava: «Milleduecento ettari
in Lomellina, ottocento nel Novarese, palazzo a Torino, palazzo a Firenze.»
nvece Edith non abbassò il viso. Era
pallidissima, guardava davanti a sé con occhio grave e tranquillo. Solo un
tremito delle mani tradiva il fervore dell'accorata preghiera che passava su
tutte le teste chine, moveva diritto a Dio, gli diceva in faccia: «Signore,
Signore, tu che sai quanto l'hanno offeso, non sarai pietoso con lui?». Il suo
viso pensoso non esprimeva la rassegnazione ascetica, ma una volontà ferma e
intelligente, velata di tristezza.
E lui intanto, il nostro onesto amico
Steinegge, ascoltava Messa in excelsis, seduto fra gli allori,
abbracciandosi le ginocchia. Egli era proprio uscito di chiesa perché il
pavimento gli scottava. Da quanti anni non aveva posto piede nelle prigioni,
come diceva lui, di Domeneddio! Non aveva osato lasciar sua figlia sull'entrata
della chiesa; ma, appena oltrepassata la soglia, quando Edith si avviò a
pigliar posto nei banchi riservati alle donne, egli si pentì di aver male
presunto delle sue forze. Non erano tanto i suoi odii fieri quanto un
sentimento d'onore che lo spingeva indietro. Il buon vecchio lupo uscì dal
gregge.
Accovacciato lassù come un lupo
malinconico, non curava affatto la deliziosa scena di monti, di acque, di prati
che rideva davanti a lui; né udiva i blandimenti delle frondi che gli
sussurravano intorno. Guardava giù il tetto della chiesa e ascoltava il suono
confuso di canti e d'organo che ne saliva tratto tratto. Aveva un pensiero solo
e lo lavorava per tutti i versi:
«Agli occhi suoi sono un reprobo.»
Pensiero amaro. Aver tanto
combattuto, tanto sofferto, custodito l'onore contro la fame atroce, contro
tutte le violente voglie del corpo estenuato, tutte le viltà della stanchezza;
averlo così custodito quasi più per lei che per sé, amarla come l'amava, ed
esserne giudicato un reprobo! Dovrebbe egli dunque umiliarsi davanti ai preti
che l'avevano fatto maledire dai parenti suoi e da sua moglie ed erano in colpa
degli stenti, della morte di lei? «Finirò così» pensò «mi avvilirò, purché
Edith mi voglia bene.» Gli venne un'idea. «Se dicessi una parola a questo Dio,
posto che ci sia?!» Si alzò in piedi e si mise a parlare in tedesco, a voce
alta: «Signor Dio, ascoltatemi un poco. Non siamo amici? Sia. Io ho detto molto
male dei preti, di Voi, né a Voi non ho mai parlato. Se tuttavia Voi volete
trattarmi da nemico, io Vi prego di fare i conti. Dicono che siete giusto, e lo
credo, signor Dio. Guardate nel vostro libro la partita Andrea Steinegge fu
Federico di Nassau; guardate se non ho pagato abbastanza. Voi siete molto
grande; io molto piccolo; Voi sempre giovane, io sono vecchio e stanco. Cosa
volete prendermi ancora? L'amore di mia figlia Edith! Non ho altro, signor Dio.
Guardate se potete lasciarmelo. Se non potete, spazzatemi via, per Dio, e
finiamola».
Al suono della propria voce Steinegge
si commoveva e s'inteneriva sempre più. Mise un ginocchio a terra.
«Vi conosco poco, signor Dio, ma la
mia Edith Vi vuol bene e io posso adorarvi, se volete. Vedete, m'inginocchio;
ma intendiamoci noi e lasciamo da banda i preti. Forse posso darvi qualche
altra cosa. Io ho la mia salute ch'è di bronzo. Pigliate questa. Fatemi morire
a poco a poco, ma non mettetevi fra Edith e me. Io non posso inginocchiarmi
davanti ai preti e mentire. Sono leale, sono soldato.»
«Signor Dio» qui Steinegge posò a
terra anche l'altro ginocchio e abbassò la voce. «Io ho paura d'aver molto
peccato nella mia giovinezza. Ho amato il giuoco e le donne peggiori. Tre
volte, sulle dodici che mi son battuto in duello, ho provocato io, ho ferito
l'altro e avevo torto. Credo che questi siano stati tre peccati; li ho sempre
avuti nel cuore. Signor Dio della mia Edith, Vi domando perdono.»
Non disse altro e tornò a sedere,
commosso, ma contento di sé. Gli pareva d'aver fatto un gran passo. Parlando a
Dio, la sua scarsa fede si era tanto accresciuta ch'egli ora ne aspettava
qualche risposta. Provava almeno la soddisfazione dell'uomo povero che ha
necessità di parlare a un potente di cui teme lo sdegno, e, per non essere
ribattuto dai servi, lo affronta sulla via, gli dice le sue ragioni con la
brusca brevità che il tempo richiede, n'è ascoltato in silenzio e pensa quel
silenzio copra un principio di combattuta pietà. Accese un sigaro per vincere
la commozione che gli stringeva la gola. Il capitano Steinegge non doveva
piangere. Fumò con furia, con rabbia. Appena chetato l'animo, guardando a terra
con il sigaro tra l'indice e il medio della destra, gli parve che i fili d'erba
tra sasso e sasso uscissero a dir qualche cosa di solenne o di incomprensibile
e che rispondesse loro il mormorar dei cespugli. Ed egli, benché tedesco, non
aveva mai compreso il linguaggio della natura, non era mai stato sentimentale!
Il sigaro gli si spense in mano. Che voleva dir questo? Si scosse, si alzò in
piedi e discese verso la chiesa.
La gente ne usciva; prima gli uomini
che si fermavano sul sagrato in capannelli, poi le donne. Steinegge ristette
sul sentiero a guardare la corrente variopinta che sboccava dalla porta
maggiore; aspettava il cappellino nero di Edith. La corrente si venne
rallentando e diradando. Quando cessò il pericolo di urtarsi a gomiti villani,
comparvero la contessa Fosca e Marina, seguite da Nepo; poi tre o quattro vecchierelle:
poi più nessuno. Anche i capannelli si sciolsero, il sagrato si votò.
Steinegge, inquieto, venne a dare un'occhiata in chiesa. Non v'erano più che
due persone, il curato inginocchiato sul primo banco presso l'altar maggiore e,
otto o dieci banchi più indietro, Edith.
Steinegge si ritirò adagio adagio e
sedette sul muricciuolo del sagrato. Gli batteva il cuore. Qual viso gli
farebbe Edith! Ella uscì subito, frettolosa e sorridente; gli disse che s'era
accorta di lui senza vederlo, perché aveva già imparato a conoscere il passo
suo, e gli domandò scusa d'averlo fatto attendere. Nella fretta d'uscire aveva
dimenticato l'ombrellino. «Signor papà» diss'ella scherzando «Le
rincrescerebbe?». Il signor papà corse in chiesa e, prima di giungere al banco
dov'era stata Edith, incontrò il curato che gli veniva incontro porgendogli
l'ombrellino e gli fece due o tre inchini.
«È Suo?» disse il curato.
«È di mia figlia.»
«Se volesse vedere il coro, la
sagrestia... Abbiamo un Luino, un Caravaggio... dico, se crede...»
«Oh grazie, grazie» disse Steinegge
che all'udire Luino e Caravaggio era rimasto a bocca aperta.
«Allora, se vuol dirlo alla Sua
signora figlia...»
Steinegge s'inchinò, uscì a fare
l'ambasciata e ritornò subito con Edith.
Il curato si fece loro incontro con
certa cordialità impacciata, strofinandosi le mani e suggendo l'aria con le labbra
strette come chi ha messo un dito nell'acqua troppo calda. Mostrava presso a
sessant'anni. Aveva fronte alta, sguardo vivace e ingenuo, il viso, la voce, il
passo della sincerità. Da tutta la sua persona spirava non so quale energia
temperata di timidezza. Mostrò a Steinegge e a Edith i due quadri, che
portavano alla meglio i loro nomi pomposi. Il Caravaggio del coro era un Martirio
di S. Lorenzo, barocco nel disegno e nei lumi, ma pieno di vita. Steinegge
non capiva niente di pittura e ne fece grandi elogi. Edith tacque. Il Luino
della sagrestia era una bionda testa della Vergine, luinesca senza dubbio,
soave. Edith ne fu commossa. Disse al curato con la sua voce quieta, ch'era
straniera e che sentiva allora per la prima volta la dolcezza dell'Italia. Come
mai quella povera chiesa di campagna poteva possedere un tesoro tale? Il curato
divenne rosso e rispose che veramente il quadro era stato suo, un ricordo di
famiglia; che gli era parso ispirato da Dio e degno perciò di un luogo santo; e
che nella sua chiesa tanto povera e umile Maria ci stava opportunamente. Poi
chiese permesso alla signorina, con accento d'ingenuo desiderio, di farle
vedere la biancheria più fine e i paramenti più ricchi. Tutto era distribuito
col massimo ordine nel grande cassettone della sagrestia, dai purificatori
candidi e odorati di lavanda sino al piviale delle maggiori solennità appena
giunto da Novara. Il curato spiegava e ripiegava ogni cosa con garbo femminile.
«Vedo bene, signore» diss'egli a
Steinegge «vedo bene, che Ella vorrebbe dirmi: Ad quid perditio haec? Un
vecchio prete non deve avere i gusti di una giovane signora. Che vuole? Questa
povera gente ha piacere così. Intendono di onorar Dio, e Dio vede il cuore.»
Non disse quanto avesse aiutato il voto dei parocchiani con le proprie economie
pertinaci e dure; perché egli, nato da famiglia signorile, aveva abbandonata ai
molti fratelli la sua parte dell'eredità paterna. I fratelli, che lo
conoscevano bene e lo amavano, gli avevan regalato, poco tempo prima della
visita degli Steinegge, un bell'organo di Serassi. Al primo Dominus vobiscum
della prima Messa solenne celebrata con l'organo nuovo, don Innocenzo era
rimasto per due minuti fermo con le braccia aperte a bearsi dell'onda sonora e
del luccicar delle canne, là sopra la porta maggiore. Ora volle mostrare agli
Steinegge anche l'organo. Edith era così affabile, suo padre tanto compito, che
don Innocenzo vinse presto del tutto la propria timidezza, e uscito di chiesa
con essi, dimenticò il caffè che l'aspettava, per far loro mille domande
curiose sulla Germania, sui luoghi, sui costumi, sulle arti, persino su Goethe,
Schiller e Lessing, soli autori tedeschi di cui conoscesse il nome e avesse
letto qualche opera. Pareva a lui che un tedesco dovesse conoscer tutta la
Germania da capo a fondo e ogni fatto, ogni parola de' suoi compatrioti
illustri d'ogni tempo. Un altro nome tedesco ricordava, Beethoven. S'informò
anche di quello. Raccontò che a sedici anni aveva sentito eseguire da una
signora una suonata di Beethoven che gli era parsa piena di voci sovrumane.
Povero don Innocenzo! Arrossiva ancora.
Gli occhietti chiari di Steinegge
scintillavano di contentezza. Rispondeva a tutte le domande del curato con una
foga, una parlantina vibrante d'orgoglio nazionale. Edith sorrideva talvolta in
silenzio e talvolta faceva, in omaggio al vero, qualche osservazione pacata che
garbava poco al curato. A lui piacevano i giudizi assoluti e le pitture
esagerate di Steinegge che lo portavano violentemente in un mondo affatto
nuovo, affascinante. «Lasci stare via, signorina» disse una volta quasi
impazientito. «Mi lasci credere alle belle cose che dice il suo signor padre.
Io sono un prete che non ha visto niente, non ha udito niente e non sa niente; mi
pare però che debba aver ragione lui.» Steinegge al sentirsi dir questo e
chiamare signor padre, fu per abbracciarlo malgrado la tonaca nera.
Intanto la piccola comitiva era
giunta al cancelletto di legno che mette nell'orto della canonica. Don
Innocenzo pregò i suoi compagni di entrar a prendere il caffè. Steinegge
accettò subito; a lui e al prete pareva già d'esser vecchi conoscenti. Piccina,
tutta bianca, a mezz'altezza fra il paesello e la chiesa, ma alquanto in
disparte, la canonica di R... volta le spalle al monte e guarda, acquattata nel
suo orticello fiorito, i prati che si spandono fino al fiume. L'orto, quadrato,
è chiuso da un muricciolo basso. Dalie e rosai vi fan la guardia, lungo i
cordoni di bosso, agli erbaggi e ai legumi. Dietro alla casa ascende il
declivio erboso, ombreggiato da meli, peschi e ulivi. Le stanzette sono pulite
e chiare. Quelle della fronte hanno un paradiso di vista. Il curato la fece
ammirare a' suoi ospiti con grande compiacenza, mostrò loro il suo salotto, il
suo studio dove teneva parecchi cocci di tegami preistorici trovati in certi
scavi presso il lago e ch'egli stimava un tesoro. La sua segreta amarezza era
di non aver trovato alcun ciottolo sì tagliente da potersi onestamente chiamare
arme preistorica. Steinegge pigliava grande interesse alla sue spiegazioni che
avrebbero fatto sorridere un dotto, perché il povero prete entusiasta si
accendeva di ogni novità che penetrasse, per mezzo di qualche libro o di
qualche giornale, nella sua solitudine, e su bricioli di dottrina spezzata e
guasta tirava su i soliti edifici assurdi del pensiero solitario.
Edith preferiva guardare i prati
macchiati dalle ombre di grossi nuvoloni, i tetti neri del paesello, quasi
appiattiti fra gelsi e noci; a sinistra e più abbasso della canonica, il lembo
di lago che di colà si vede, come lamina d'acciaio brunito, mordere il verde
chiaro delle praterie.
«Che Le pare, signorina, di questa
Italia?» disse il curato.
«Non lo so» rispose Edith «ne avevo
in mente un'altra, più diversa dal mio paese. Ho veduto in Germania molti
paesaggi italiani di pittori nostri, ma i soggetti eran presi sempre a Roma o a
Venezia o a Napoli. I viaggi di Goethe o di Heine non me li hanno lasciati
leggere. Mi vergogno a dirlo; la più profonda impressione me l'ha lasciata un
pessimo acquerello, la prima cosa che mi colpì in una casa dove sono stata
dodici anni. Rappresentava il Vesuvio e v'era scritto sotto Scene d'Italia.
Era come una piccola macchia rossa sopra una grande macchia azzurra. Solo
guardando ben da vicino si potevano discernere le linee della montagna, il mare
e una barca piena di figure stranamente vestite. Per lunghissimo tempo non ho
potuto figurarmi l'Italia né gli italiani diversi da quella pittura.»
«È naturale» disse don Innocenzo, che
entrava avidamente in tutti gli argomenti curiosi di conversazione. «Guardi; a
ragazzi d'ingegno molto acuto io non farei mai vedere negli anni più teneri
immagine alcuna di Dio né di Santi, perché quelle immagini possono restar loro
profondamente, ostinatamente impresse nella fantasia, a segno, in qualche caso,
da rendere assai difficile, più tardi, lo sviluppo di una elevata fede
religiosa. Quel vecchione barbuto appiccicato all'idea di Dio, aiuta molto,
senza che se ne accorgano, il loro razionalismo nascente. V'ha chi diffida del
culto dei Santi per non poterli affatto concepire come spiriti puri, operanti
nell'universo; e questo in grazia delle impressioni riportate in fanciullezza
dalle immagini che li rappresentano spesso brutti e mal vestiti, seduti sulle
nuvole a guardar per aria. Non crede, signore?»
Steinegge costretto a ragionar di
Santi e non osando scusarsene, stava per dire qualche grossa corbelleria; ma
Edith si affrettò a parlare.
«Pure» diss'ella «se tutte le
immagini fossero di Dürer o del Suo Luino! Colla impressione dei sensi
resterebbe una impressione religiosa.»
«Non lo credo, signorina» rispose don
Innocenzo sorridendo e arrossendo. Edith indovinò subito il suo pensiero. Ella
riconobbe che in Germania il sentimento artistico era retaggio di pochi, ma
soggiunse che lo credeva comune in Italia, benché da quando aveva passato le
Alpi fossero apparsi più volte indizi del contrario. Don Innocenzo le confessò
ch'egli stesso non ne aveva punto. Il suo Luino gli dava sicuramente gran
piacere, ma questo gli accadeva pure davanti ad altri dipinti mediocrissimi.
«Non sarà così» osservò Edith «ma se
fosse così, Le mancherebbe il buon giudizio artistico e non il sentimento.
Sarebbe un fuoco senza luce.»
Don Innocenzo non conosceva la grazia
delicata dell'ingegno femminile colto. A prima giunta Edith non gli era
piaciuta moltissimo; gli pareva un po' fredda nella sua affabilità. Conversando
con lei mutò presto, come sogliono gli uomini della sua tempra, il primo
giudizio. Adesso era ammirato di quella sua parola sempre corretta e semplice
ma viva di un sentimento riposto, di un'intelligenza molto fine, molto ardita.
«S'Ella venisse al Palazzo, signor
curato» disse Steinegge «vedrebbe molti quadri, oh moltissimi belli quadri che
ha il signor conte.»
«Ci vado un paio di volte l'anno e mi
pare d'averla veduta anche Lei, colà! ci andrei più spesso, ma so che il signor
conte non ama molto i preti...»
Steinegge diventò rosso; gli
dispiacque d'aver provocate queste parole. «Eh» disse don Innocenzo facendosi
alla sua volta di bragia «eh, cosa importa? Non li amo neppure io i preti, sa!»
«Ah» esclamò Steinegge stendendogli
le braccia come se il curato gli avesse dato una notizia più lieta che
credibile.
«Non si scandolezzi, signorina»
continuò questi. «Parlo degl'italiani. In Italia i preti» (don Innocenzo, con
gli occhi accesi, co' denti stretti, faceva suonar l'erre come trombe di
guerra) «non tutti, ma molti sa, e i giovani specialmente, sono una trista genìa,
ignoranti, fanatici, ministri di odio...»
«Si capisce che ne fu seminato» disse
Edith, severa, mentre Steinegge metteva la sua gioia in gesti.
«Lo hanno seminato e lo seminano»
rispose don Innocenzo «e ci cresce intorno a tutti, dico intorno a tutti che
portiamo quest'abito; e si perdono anime ogni giorno. Basta, basta, basta!»
Guai quando il curato toccava questo
tasto; la collera gli saliva alla testa, le parole gli uscivano aspre e violente
oltre ogni misura. Ad arritarlo così bastava poco: un numero di qualche
giornale clericale che il vicario foraneo, gesuita di tre cotte, gli mandasse
facendo lo gnorri, con dei segni ammirativi a fianco degli articoli più acri;
una lettera fremebonda di qualche collega bandito dalla curia a parole e
perseguitato a fatti per opinioni politiche. Allora cominciava a soffiare, a
bollire, a ringhiare sinché rompeva tutti i freni con queste sfuriate gagliarde
e finiva come aveva cominciato, buttando fuori frasi rotte, invettive
stroncate, stritolate dai denti. Si rasserenava poi subito e rideva con gli
amici presenti della propria collera.
«Non è mica sempre così cattivo. La
vede, signorina» disse piano a Edith, in dialetto, la vecchia serva di don
Innocenzo, portando via il vassoio del caffè.
Edith non capì.
«Dice che sono cattivo, ed è
purtroppo vero. Non posso frenarmi. Spero che mi compatiranno. Si fermano
qualche tempo al Palazzo?»
«Non sappiamo» rispose Edith.
«Non sappiamo» ripeté a caso
Steinegge.
«Scusino; è perché spererei di poter
trovarmi con Loro qualche altra volta.»
Steinegge, conquistato, si confuse in
complimenti. «Mio amico, io spero» diss'egli stendendo la mano.
«Certo, certissimo» rispose il prete,
stringendogliela forte. «Ma prima di partire vengano a vedere i miei fiori.»
Questi famosi fiori erano due
pelottoni di gerani e di vaniglie schierati lungo il muro della casa; oltre
alle dalie, rosai e ai begliuomini disseminati per l'orto.
«Belli, non è vero?» disse don
Innocenzo.
«Bellissimi» rispose Steinegge.
«Prenda una vaniglia per la Sua
signorina.»
«Oooh!»
«Prenda, via, andiamo, ch'io non le
so fare, no, queste cose.»
«Edith, il signor parroco...» Così
dicendo Steinegge, con la vaniglia in mano, si avvicinò a sua figlia, che stava
un po' discosto presso il muricciuolo.
Edith ringraziò sorridendo, prese la
vaniglia, l'odorò, ne guardò il gambo spezzato, e sussurrò:
«Questo è mite di cuore.»
Don Innocenzo capì. «Ha ragione»
diss'egli umilmente.
«Oh no» esclamò Edith, dolente d'aver
dette quelle parole e d'essere stata subito intesa. «Mi dica, dove sta Milano?»
«Milano... Milano...» rispose don
Innocenzo schermendosi gli occhi dal sole con la mano destra. «Milano è laggiù
a mezzogiorno, un po' verso ponente, dritto oltre quel gruppo di colline.»
«Signori» gridò la fantesca da una
finestra «se vogliono andare al Palazzo, sarà meglio che facciano presto,
perché vuol piovere.»
Piovere! Splendeva il sole, nessuno
s'era accorto di minacce. Pure la vecchia Marta aveva ragione. Dalle montagne
del lago venivan su certi nuvoloni più densi e più neri dei soliti che il vento
meridiano vi porta in giro.
«Marta!» chiamò il curato. «Un
ombrello per i signori.»
Steinegge protestò. Marta fece al
padrone un cenno che l'ingenuo uomo non intese.
«Cosa c'è? Un ombrello, dico!»
Marta fece un altro segno più
visibile, ma invano.
«Eh? Che avete?»
Marta, indispettita, lasciò la
finestra brontolando contro gli uomini di talento che non capiscono niente. Poi
comparve in orto con un coso verde in mano e lo porse sgarbatamente al curato,
dicendogli:
«A Lei! Che tolga! Bella roba da
offrire! Cosa hanno a dire di noi al Palazzo?»
«Cos'han da dire? Che non ne ho
altri. Gran cosa! Ecco, quod habeo tibi do.»
Infatti don Innocenzo aveva più cuor
che ombrello. Quello sconquassato arnese di tela verde non ne meritava più il
nome. Marta non si tenne di dire piano a Edith: «Ne aveva uno di bello. L'ha
dato via. Dà via tutto!».
Gli Steinegge scesero per un viottolo
che gira nei prati intorno al paese, tocca il lago e risale un poco sino a
raggiungere la stradicciuola del Palazzo. Intanto Marta sfogava il suo
corruccio col padrone, che rispondeva mansueto: «Ho fatto male? Bene, sì, via,
tacete, avete ragione». Egli era contento della nuova amicizia e pensava che
per via degli Steinegge gli si aprirebbero forse più spontaneamente le porte
del Palazzo secondo il suo vivo desiderio; perché quella casa smarrita fuor del
gregge gli stava più a cuore delle altre novantanove raccolte sotto la chiesa.
Il cielo rideva ancora alle spalle
degli Steinegge e li minacciava in viso. Ad una volta del sentiero Edith si
fermò a guardare indietro.
«Vedi, papà» diss'ella sorridendo
«andiamo dall'idillio nella tragedia.»
«Oh, no, no, non c'è tragedia:
Drauss ist alles so prächtig
Und es ist mir so wohl!
«Ancora ti ricordi le nostre
canzoni, papà?»
Egli si mise a cantare:
Aennchen von Tharau hat wieder ihr Herz
Auf mich gerichtet in Freud' und in Schmerz,
Aennchen von Tharau, mein Reichtum, mein Gut,
Du meine Seele, mein Fleisch und mein Blut.
Cantava con gli occhi pieni di riso e
di lagrime, camminando due passi avanti a Edith per non lasciarsi vedere in
viso da lei. Pareva un ragazzo ubbriacato dall'aria odorosa dei prati e dalla
libertà. Edith non pensò più alla tragedia, malgrado la faccia scura dei monti
e qualche grosso gocciolone che cadeva sul fogliame dei pioppi presso al lago e
segnava di grandi cerchi le acque tranquille. Ella fu presa dall'allegria
commossa di suo padre. La piova rara e tepida, suscitando intorno ad essi una
fragranza di vegetazione, li eccitava. Chi avrebbe riconosciuto la Edith del
giorno prima? Ella coglieva fiori, li gettava a suo padre, correva, cantava,
come una bambina. Si fermò ad un tratto guardando il lago e cominciò una
canzone triste:
Am Aarensee, am Aarensee.
«No, no» gridò suo padre, e corse a
lei. Ella fuggì ridendo e ripigliò più lontano:
Da rauschet der vielgrüne Wald.
Si compiaceva che suo padre non le permettesse
quella canzone triste e si divertiva a stuzzicarlo. Inseguita da lui continuò
fuggendo: «Da geht die Jungfrau». Rallentò la corsa e la voce sulle
parole «Und klagt», si lasciò raggiungere prima di dire «ihr Weh»
e baciò la mano che le chiudeva la bocca.
«Mai, mai, papà» diss'ella poi «sin
che mi tieni con te. Non sai che siamo un po' matti tutti e due? Piove!»
Steinegge non se n'era accorto.
Aperse a grande stento lo sgangherato ombrello verde che brontolò sotto la
piova, fra il sussurro dei prati e il bisbiglio degli alberi, sullo stesso
tono, presso a poco, della vecchia Marta. Pure poteva esser contento di quello
che udiva sul conto del suo padrone. Steinegge singolarmente non rifiniva di
lodarne l'aspetto e le parole oneste, a segno che Edith gli domandò se l'onestà
fosse tanto rara in Italia. Egli protestò con un fiume d'eloquenza per togliere
ogni sospetto che potesse pensar male degli italiani, ai quali professava
gratitudine sincera perché, in fin dei conti, erano i soli stranieri da cui
avesse ricevuto benefici.
Da tutte le sue calde parole usciva
questo, che egli non credeva rara l'onestà fra gl'italiani, ma fra i preti.
Questa conclusione non la disse, o gli parve, nella sua ingenuità, Edith non
l'avesse a capire. S'affrettò di soggiungere che sperava poter vedere presto il
signor curato.
«Ma, papà» disse Edith fermandosi su'
due piedi e fissando i suoi begli occhi gravi in quelli di suo padre «possiamo
noi restar qui?»
Steinegge cadde dalle nuvole. Non
aveva ancora pensato a questo. La felicità d'aver seco sua figlia oscurava
nella sua mente ogni pensiero dell'avvenire. Edith, col suo delicato e acuto
senso delle cose, dovette ricondurlo dalle nuvole in terra, fargli comprendere
com'ella non potesse lungamente approfittare della ospitalità del conte, presa
prima che offerta. Disse che le doleva essergli causa di questo e forse di
altri sacrifici ancora; e rise dolcemente nel vedere a questo punto suo padre
gittar l'ombrello ed afferrarle, stringerle le mani senza poter articolar
parola. «Hai ragione, caro papà» diss'ella «temo di essere una giovane
ipocrita.» Allora gli raccontò che quel signore della Legazione prussiana le
aveva consigliato di por dimora a Milano, dove c'era una numerosa colonia
tedesca, molto ricca e legata alla cittadinanza. Affiderebbero a una buona
banca il tesoro dei Nibelunghi, come chiamava la sua eredità; ella
darebbe lezioni di tedesco e il signor papà vivrebbe come un caro vecchio Kammerrath,
collocato a pipare dopo lunghe fatiche. Piglierebbe un quartierino lontano dai
rumori, alto se occorre, ma tutto aria e luce. Si farebbe cucina tedesca e il
signor Kammerrath avrebbe ogni giorno a pranzo la sua birra di Vienna o di
Monaco. Steinegge diventò rosso rosso e diede in un grande scoppio di riso
agitando l'ombrello e gridando: «no, ah no, questo no». Edith non sapeva che
suo padre era un antico dispregiatore di tutte le birre più famose della gran
patria tedesca. Intese quindi male quella esclamazione e insistette, dicendo
che si darebbero ben altri sfoggi d'opulenza. Nelle domeniche della buona
stagione si uscirebbe di città, si farebbero delle corse bizzarre attraverso i
campi per finire in qualche solitario paesello silenzioso. Chi sa? Se gli
affari prosperassero molto, il signor capitano potrebbe tre o quattro volte
l'anno uscire a cavallo con la signorina sua figlia.
«Tu cavalchi?» disse Steinegge
stupefatto.
Edith sorrise. «Sai, caro papà»
diss'ella «da bambina che passione avevo per i cavalli! Quando i miei cugini
imparavano a cavalcare, il povero nonno ha voluto che insegnassero anche a me.
Ho imparato subito. Sai cosa mi diceva, quando mi vedeva a cavallo, il mio
maestro di musica?»
«Tu sai la musica?» esclamò Steinegge
ancora più stupefatto.
«Ma, papà, non ho mica più otto anni,
sai! Mi diceva che si vedeva bene di chi ero figlia. E del mio italiano non mi
parli? Sai che l'ho imparato in questi ultimi sei mesi?»
Appunto di questo suo padre non s'era
ancora ben persuaso; ch'ella non avesse più otto anni. E del vario sapere che
veniva sorprendendo in lei si sorprendeva come d'un miracolo, si inteneriva,
con quel senso di timida ammirazione che aveva provato insieme alla gioia del
rivederla! Povero Steinegge! Al cancello del Palazzo si trasse da banda per
lasciar passare Edith e si tolse involontariamente il cappello.
«Papà!» disse Edith ridendo.
«Che?» Steinegge non capiva.
«Ma, il cappello?»
«Ah!... Oh... Sì!» Il pover'uomo se
lo ripose in testa, proprio mentre il conte Cesare salutava Edith e le veniva
incontro nel cortile col sorriso più benevolo che abbia illuminato una faccia
severa.
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