Capitolo VII
UN PASSO DEL DESTINO
Suonavano le otto
quando Edith e Marina giunsero alla scalinata dei cipressi. C'eran le stelle,
ma i vecchi alberi colossali le nascondevano, tanto che il Rico, da buon
cavaliere, si fermò a gridare con quanto fiato aveva:
«Lume!»
Dopo di che scese a salti, come un
gatto, per le tenebre.
Un lume comparve nella loggia e una
voce gridò:
«Son qui?»
Poi il lume scomparve.
«Oh, signora Fanny!» rispose il
ragazzo. «Porti giù il lume! Faccia in fretta!»
Il lume ricomparve subito nel
cortile.
Edith e Marina, che scendevano
adagio, poterono udire un battibecco tra il Rico e Fanny e, a quando a quando,
la voce della contessa Fosca. Fanny aveva una candela e il Rico voleva un lanternino.
La contessa ripeteva: «Non avete trovato Momolo? Non avete trovato Momolo?»
«Signora no, ne abbiam mica trovato
di Momoli. Lei, signora Fanny, vada colla candela, che io andrò a pigliare il
lanternino.»
Fanny e la contessa si avviarono alla
scalinata.
«Marina!» chiamò Sua Eccellenza.
«Contessa!» rispose Marina ancora
invisibile.
«Non hai trovato mio fio,
tesoro? Non hai trovato Momolo? Oh Dio, che scala di Ponzio Pilato! Mi
sorprendo di Momolo, perché te l'ho mandato incontro cinque minuti fa. Mio
fio sarà mezz'ora che ti è andato incontro. Aspetta, tu col lume, cosa sei
tu, viscere, che c'è un maledetto scalino mezzo rotto. Ecco. Dove sei, Marina!
Vieni, cara! Alzate quella candela, benedetta! Oh Dio, Marina, non ti vedo
ancora!»
Il Rico le passò avanti con il
lanternino, facendo gli scalini a tre a tre. Lo si vide fermarsi tosto e
ridiscendere. Dietro al lanternino luccicavano nell'ombra certi grandi bottoni
d'acciaio che la contessa conosceva. Ella si fece avanti e abbracciò Marina.
L'abbracciò con impeto a più riprese
e le sussurrò all'orecchio:
«Dio ti benedica, delizia, eri il
sogno del mio cuore.»
E non finiva di baciarla.
Marina taceva. Edith chiese a Fanny
se suo padre era in casa. Fanny non lo sapeva.
«No, tesoro» disse la contessa
spiccandosi da Marina. «No, è uscito da un pezzetto con uno di quei tre re
magi; non con quell'asino di stamattina che voleva farmi veder l'Orrido; con
quell'altro lungo, quel della piazza.»
La contessa Fosca non ricordava mai o
quasi mai il nome delle persone che conosceva da poco tempo. Parlava sempre di
quello dal naso lungo, di quello dalla bocca storta, di quello dagli occhiali.
Marina, appena sciolta dagli amplessi
della contessa, le gittò un frettoloso «a rivederci» e discese con Fanny.
Sua Eccellenza prese il braccio di
Edith e scese con lei adagio adagio, discorrendo e interrompendosi ogni momento
per la paura di cadere.
«Che angelo, quella Marina! Piano.
Che sentimento, che talento! Piano, benedetta, piano. E bella! Un momento,
viscere; non son mica un saltamartino come Voi. Dunque, cosa vi pare? Non
sapete? Non vi ha detto niente quella briccona? Neppure una parolina? Tutta
delicatezza. Oh Dio, io rotolo giù, figlia cara. A piano. Dimmi, tesoro, era
ella di buon umore adesso, venendo giù da quelle maledette montagne?»
Edith capiva sempre poco il
linguaggio della contessa. Ora lo capiva meno che mai.
«Beata, non è vero?» riprese la
contessa. «Beata, poveretta. Eh, la ho vista. È l'ultimo scalino questo?
Commossa, la me anima. In nome di Dio che siamo abbasso.»
Attraversarono il cortile, precedute
dal lanternino del Rico. I raggi lunghi e sottili si trascinavano barcollando
per la ghiaia candida, saltavano, si allargavano sulle grandi foglie vellutate
degli arum, scintillarono un momento sulle perle e i brillanti del getto
d'acqua, il quale raccontava e raccontava la sua vecchia storia monotona e
malinconica.
Presso alla porta del Palazzo la
contessa si fermò, trasse Edith a sé e le disse sottovoce:
«Oh, insomma, Ve lo dico io. Io ho
già in testa che siate una furbaccia e che sappiate tutto. Marina sposa mio
fio.»
In quella una voce flebile chiamò
dall'alto:
«Eccellenza!»
«Chi è! Cosa è nato?» disse la
contessa guardandosi alle spalle.
«Son Momolo, Eccellenza.»
«Dove diavolo vi siete ficcato!»
«Son qua, Eccellenza.»
«È su lì» disse il Rico ridendo come
un matto del suo riso argentino, malizioso. Corse sotto la muraglia che
sostiene il vigneto e alzò la lanterna quanto poté.
«Eccolo su!» diss'egli.
Si videro le gambe nere di Momolo.
«Come hai fatto, bestia, per andar
lì?»
«Niente, Eccellenza, ho perso la
strada... Mi pareva anche a me adesso che non dovesse andar bene. Se ha la
bontà, Eccellenza, di mandarmi, dopo, il putto col lume, mi trovo subito, non
la dubiti, Eccellenza.»
Il putto dal lume rideva a
crepapelle.
«Il conte Nepo lo hai visto?»
«No, Eccellenza.»
«Bene, adesso verrà qua questo
birichino a farti lume e dopo andrete insieme incontro al conte Nepo, e gli
direte che la marchesina è arrivata.»
«Servirla, Eccellenza.»
Il Rico risalì la scalinata col
lanternino e la contessa entrò in casa senza badare se Edith ve l'avesse
preceduta o no.
Edith era immobile al posto e
nell'atto in cui l'avevano colta le parole della contessa Fosca. N'era rimasta
sbalordita. Ripensando gli strani discorsi, lo strano contegno della sua
compagna di passeggio, comprendeva questo solo: che i Salvador facevano
compassione e che Marina faceva paura. Finalmente alla voce di Nepo che
tempestava per la scalinata con Momolo e il Rico, si scosse, entrò in casa
pensando un altro pensiero, il pensiero del Ferrieri. Il Ferrieri non era poi
stato tanto temerario quanto Marina avrebbe potuto credere. Lo aveva tocco la
bellezza quieta e intelligente di Edith, il suo contegno così diverso da quello
delle ragazze troppo timide o troppo ardite ch'egli conosceva. Sognava aver
trovato una donna simile all'alta idea che portava in mente al di sopra degli
opifici, delle macchine, delle ferrovie, de' suoi scolari, de' suoi maestri, della
sua fredda scienza. Stimava che quell'incontro, a quarantadue anni, fosse
l'ultima offerta della fortuna, e tutta la sua giovinezza inaridita rinverdiva.
Aveva presso a che deliberato di parlare a Steinegge prima che a Edith. Nel
buio dell'Orrido, stando presso a lei, smarrì il suo sangue freddo, le prese le
mani con forza, le parlò e non poté, pel gran fragore, essere inteso. Comprese,
prima dalla violenta ripulsa, poi dal volto di lei, quanto l'avesse offesa;
comprese troppo tardi come in quel luogo una violenta dichiarazione d'amore
potesse venir male interpretata. Infatti Edith l'aveva interpretata male e ora
andava pensando perché mai suo padre fosse uscito, cosa insolita, col Ferrieri.
Intanto sopraggiunse Nepo infuriato
per non aver saputo combinar Marina, e gridando «non è possibile, non è
possibile» oltrepassò Edith, senza salutarla, nel vestibolo, mentre il Rico,
fermo sulla porta con il suo lanternino, se la rideva di cuore e Momolo
brontolava: «Ohe, bardassa, rispettiamo Sua Eccellenza, digo.»
Nepo si abbatté sulle scale in Fanny
che scendeva in fretta a cercare di Edith per il pranzo. «Dov'è la signora
marchesa?» diss'egli senza fermarsi. «Dov'è?» rispose Fanny saltando giù per
una diecina di scalini. «Nella sua camera» gridò dal fondo della scala, mentre
lui n'era già al primo pianerottolo, dove sua madre lo attendeva impaziente.
«Dov'è?» diss'egli sottovoce. «Cosa
ti ha detto? Sa che hai parlato al conte Cesare?»
A tante domande la contessa rispose
con altrettante:
«E tu cos'hai fatto che non venivi
più? Dove ti sei perso? Hai trovato Momolo? Va là, diglielo tu che ho parlato
al vecchio. Fa presto. L'hanno chiamata a pranzo. In salotto la non c'è ancora.
Sarà in camera sua. Aspettala in loggia. Va là!»
Quale ignoto spirito d'inquietudine
si era infiltrato per le pietre del palazzo? Tutti vi erano nervosi come Nepo e
la contessa Fosca. Il signor Paolo rumoreggiava in cucina, indispettito di
dover servire un secondo pranzo. Catte aveva toccato una ramanzina dalla
contessa per certo bottone, e girava di qua, di là, cercando non so che cosa,
borbottando fra i denti di non aver mai visto la padrona così cagna come
quella sera. Un domestico correva su e giù dalla cucina al salotto con piatti,
bottiglie e bicchieri, sbattendo gli usci co' piedi, alla disperata. Ferrieri e
Steinegge rientravano dalla passeggiata agitatissimi l'uno e l'altro. Il conte
Cesare, il Finotti e il Vezza discutevano in sala il primo annuncio della
Convenzione di settembre. Il Vezza le saettava freddi sarcasmi da spettatore
indifferente, spruzzati d'aceto clericale; il Finotti, futuro membro della
Permanente, la combatteva con furore; e il conte Cesare la giudicava, con le
sue idee da patrizio romano antico, un colpevole mezzo termine, un dire al
nemico «non ho paura solo delle tue armi, ma anche della tua ombra» e si
riscaldava contro il re, il Ministero, il Parlamento, le classi dirigenti che
governando a quel modo, fornivano un pretesto al ribollire del democraticume
balordo e borioso. Il conte Cesare parlava più acre del solito, temeva che il
Finotti ed il Vezza lo pigliassero per un alleato e non risparmiava nelle sue
invettive gli amici politici dell'uno né dell'altro.
Marina, malgrado l'avessero avvertita
di scendere a tavola, sedeva ancora, nella sua camera da letto, al tavolino
ovale che le serviva qualche volta da scrittoio e a cui ora appoggiava i
gomiti, reggendosi le tempie con le palme. La candela che ardeva davanti a lei
le metteva de' bagliori aurei nei capelli e rivelava fila azzurrognole di vene
all'angolo della sua fronte bianca, mezzo coperto dal mignolo roseo; gittava
sugli arredi lucidi dispersi nella stanza oscura dei fiochi riflessi, come
occhi di spiriti che guardassero la donna pensosa. Sul velluto azzurro d'uno
scannello aperto fra i suoi gomiti c'era un foglietto cenerognolo con un grande
viluppo di rabeschi d'oro, un'orgia di quattro lettere attorcigliate insieme;
sotto a queste, un drappello di zampine di mosca, in battaglia: più giù, al
posto del capitano, un nome solo: Giulia. Le zampine di mosca dicevano
così:
«Sai che trasporto anch'io la mia
capitale da via Bigli a Borgonuovo? Così ha voluto l'imperatore. Son corsa ieri
a dire addio alla mia buona vecchia via erbosa. Che orrore i trasporti di
capitale! Ho lasciato Sua Maestà nella polvere con gl'imballatori e i
tappezzieri e son tornata qui per mandarti subito un petit pâté chaud. È
un gruppettino di casi di romanzo, molto bene impasticciati, e ha in mezzo il
signor Corrado Silla, autore di Un sogno, domiciliato in Milano, via S.
Vittore.
Ti racconterò il gruppettino di casi
che me l'han fatto scoprire, ma un'altra volta; quando potrò dirti qualche cosa
di più.
Adieu, ma belle au bois dormant.
Domani viaggio per affari: vado a ballare a Bellagio. Poveri myosotis!
Chi se ne ricorda? Stavolta sarò in bianco. Avrò dei coralli e avrò anche delle
magnifiche alghe del Baltico che mi manda G... da Berlino con un sonetto.
Quello non l'avrò.
Giulia».
Si batté alla porta e la voce di
Fanny disse:
«La non viene? La non si sente bene?»
«Vengo» rispose Marina. Balzò in
piedi e con un impeto d'orgogliosa gioia stese all'indietro le braccia aperte,
alzò il viso trionfante, guardò in alto, davanti a sé. Si slanciò fuori,
scivolò giù dalle scale e in loggia trovò Nepo, inquieto.
«Finalmente, angelo mio!» diss'egli.
«La mamma ha parlato allo zio. È contentissimo. E Voi?»
Le cinse con un braccio la vita,
aspettando.
«Felice!» diss'ella e gli sgusciò di
mano con una delle sue risate argentine che suonò via per la loggia e al di là
dell'altra porta nella sala di conversazione, dove tutti, tranne il conte
Cesare, si alzarono in piedi ed ella passò correndo leggera come una fata, con
un cenno del capo e un sorriso.
«Atalanta, Atalanta» disse il
commendator Vezza, guardandole dietro. Nepo entrò a precipizio, tutto rosso,
con gli occhi che gli schizzavano dalla testa, incespicò sulla soglia e venne
ad abbracciarsi al Vezza per non cadere.
«Scusi, caro commendatore» diss'egli
con un impertinente tono corbellatore «speravo abbracciare qualche cosa di
meglio.»
<Maledetta bestia!> pensò il
commendatore. «Si figuri!» diss'egli, asciutto, asciutto.
«Non è vero, zio?» rispose l'altro
pigiando sulla parola zio. «Lei se lo può bene immaginare, zio, chi
speravo, a buon diritto, abbracciare. Onorevoli signori, loro sono liberi di
trarre dalle mie parole, da tutte le mie parole, le induzioni... più legittime,
le induzioni... più ragionevoli!»
Egli strascicava e ripeteva i
sostantivi, meditando l'epiteto, vibrando poi con un ampio gesto oratorio.
«... Le induzioni... più naturali! Io
credo di non poter meglio... sviscerare! dirò, questo vocabolo.»
E passò, tronfio, nel salotto.
Il conte non si poté tenere:
«Bürattin» diss'egli fra i
denti, in piemontese.
«Eueueuh!» sbuffò il Vezza,
sfogandosi. «Lo hai sviscerato.»
«Ma!...» disse il Finotti accennando
il salotto alle sue spalle col pollice della mano destra e facendo una smorfia
eloquente.
Il conte tacque.
«Dobbiamo...?» riprese l'altro
stendendogli la mano.
«Uuuh» esclamò il conte.
Era una smentita o un rifiuto
sdegnoso di felicitazioni?
Nessuno lo domandò. Non si udirono
che le voci del salotto.
Nel salotto la contessa Fosca e Nepo
assistevano al pranzo di Marina e di Edith, la quale comprendeva essere di
troppo e non vedeva l'ora che il pranzo fosse finito per raggiungere suo padre.
Questi passava e ripassava in sala, davanti alla porta aperta del salotto,
gittando a Edith delle occhiate strane.
«Dio, che delizia, questo paese,
cugina!» disse Nepo, ispirato. «Quell'Orrido, che luogo indimenticabile!»
Egli guardava Marina con i suoi grandi
occhi miopi, a fior di testa, appoggiando i gomiti sulla tavola.
«Il cuore mi palpita quando vi penso.
Questa notte non scenderà sonno sulle mie pupille. Ah! È inutile, mamma, tu non
puoi comprendere con la tua anima il segreto incanto di quella grotta. Ah!»
Si alzò in piedi e dimenò le braccia
come un forsennato estatico; dopo di che abbracciò sua madre che si mise a
gridare:
«Matto, matto, lasciami stare coi
tuoi spiritessi.»
«Senti questa, senti questa, mamma»
diss'egli, rizzandosi, mentre la contessa ripeteva a Marina «è in boresso,
è in boresso.» Marina chiamò il Finotti, che guardava curiosamente dalla
sala.
«Lascialo stare, colui» disse la contessa.
«Finotti!» ripeté Marina.
Quegli entrò, tutto ringalluzzito.
«Sentite questa, sentite questa»
gridava l'infatuato Nepo.
«Qua, Finotti.»
Marina lo fece sedere fra Edith e sé.
«Sentite questa. Ero tanto esaltato
dalle bellezze dell'Orrido che, quando siamo giunti con mia cugina sotto il
gran pietrone nero dell'ultima grotta, io, comunque profano alle discipline di
quella nobile arte ch'è la ginnastica, saltai!...»
«Oh!» interruppe Marina.
«Non è vero, come saltai?» riprese
l'altro guardandola e aspettando con le braccia in aria.
«Quite a new way of leaping»
gli rispose Marina.
«Per carità, Marina, non starmi a
parlar francese, viscere, che a Venezia, con questo maledetto francese non si
può vivere. Cosa hai detto?»
«Le tue solite sciocchezze, mamma!
Marina ha parlato inglese e non francese.»
«Scusi» uscì a dire il Finotti per
riconciliarsi la signora contessa Fosca ch'era diventata rossa rossa, e si
versava un conforto di Barolo. «Scusi conte; che inglese! che francese! Quando
si ha la fortuna di nascere col miele profumato in bocca di quel caro dialetto
fatto per le Grazie a scuola di Venere, perché guastarsi il palato col francese
e coll'inglese? La contessa ha ragione.»
«Andate là che vi credevo peggiore.
Sì davvero vi credevo peggiore. Così mi piace; difendere anche me, povera Giopa.
Sarà quel che volete la nostra lingua, ma almeno non è piena di ossi e di spine
come le altre. Non dicono che i nostri vecchi, benedetta l'anima sua, parlavano
veneziano anche al Papa? Io non sono nata nobile, ma sono veneziana vecchia,
sa. Mio bisnonno è morto pescando cape da deo, e mio nonno ha servito
sotto Sua Eccellenza Anzolo Emo. Parlerò turco, ma francese no e inglese manco.
Il povero Alvise la pensava come me. Sbattezzatemi se ha mai detto due parole
altro che in veneziano. Ma adesso non tocca più far così. Adesso tocca
vergognarsi di esser veneziani. Andate dalla... e dalla... e dalla... sentirete
che musica. No no no. Con il forestiere, non dico, pazienza; ma tra noi altre?
Sci, sci, sci, sciù, sciù, sciù? Povere squinzie!»
Qui la contessa Fosca volle prender
fiato col Barolo; ma, appena accostato il calice alle labbra, lo posò sputando
e schiamazzando, tra le risate di Nepo che aveva trovato modo, durante la sua
filippica, di versarle nel vino mezza saliera.
«La ho chiamata come uomo di spirito
fra questa gente di spirito» disse piano Marina al Finotti.
«Ah, marchesina» rispose questi
sospirando «a che serve lo spirito? Vorrei essere un imbecille di venticinque
anni.»
Intanto la contessa e Nepo facevano
un tal baccano che il conte Cesare, il Vezza e Steinegge entrarono anch'essi
nel salotto. Il Ferrieri si affacciò un momento all'uscio, ma non entrò; colse
anzi il destro di allontanarsi inosservato e non comparve più per tutta la
sera.
Marina, visto entrar lo zio, si alzò
da tavola e si avviò alla sala a braccio di Nepo.
«Carino coi Vostri salti» gli
diss'ella ridendo. Mentr'egli rispondeva solennemente, ore rotundo, la
coppia passò davanti al conte Cesare e Marina fissò lo zio con due occhi
scintillanti di gaiezza. La contessa Fosca, ancora indispettita del brutto tiro
giuocatole da suo figlio, passò senza guardarlo, facendosi vento.
Il conte trasse l'orologio. Erano le
nove e mezzo, un'ora affatto straordinaria per lui.
«Questi signori avranno bisogno di
riposo» diss'egli volgendosi agli Steinegge e ai commendatori. Poi,
senz'attendere la risposta, ordinò di approntare le candele, ed entrò in sala,
dove ripeté l'antifona.
«Io penso» diss'egli ai Salvador «che
dopo tante fatiche e tante emozioni avrete bisogno di riposo.»
«Ma carissimo zio...» cominciò Nepo
avanzandosi verso di lui con le braccia aperte, a passi brevi e frettolosi.
L'altro non lo lasciò proseguire.
«Oh, sicuramente, che diavolo!»
diss'egli. «Adesso si approntano le candele.»
Nepo fece un voltafaccia e tornò
verso Marina, ritirando il capo tra le spalle e alzando le sopracciglia.
La contessa Fosca s'interpose.
«Ma via, Cesare» diss'ella piano al
conte «che originale che siete! Stasera che i miei putti avrebbero tanto gusto
di parlarvi, di dirvi...»
«Sì, sì, sì, sì» s'affrettò a
rispondere il conte «intendo molto bene quello, intendo molto bene quello. Ecco
le vostre candele.»
Non c'era da replicare.
«E voi» disse il conte quando si
trovò solo con Marina «non andate, voi?»
«Non ha niente da dirmi? Non è
contento che io abbia seguito i Suoi consigli?»
«I miei consigli? Come, i miei
consigli?»
«Ma certo.»
Si parlavano a dieci passi,
guardandosi a sbieco.
«Spiegatevi» disse il conte; e posata
in furia la candela che aveva presa, le si voltò a fronte.
Presso Marina, sopra un tavolino di
marmo addossato alla parete, v'era un vaso di cristallo, con frondi d'olea e
fiori sciolti. Ella piegò il viso dicendo: «Non se ne ricorda?» e odorò i dolci
profumi moribondi.
«Io?» rispose il conte recandosi la
mano al petto. «Io vi ho consigliata?»
Marina rialzò il capo dai fiori.
«Lei, Lei» diss'ella. «Poche ore
prima che i Salvador arrivassero qui. Fu in biblioteca. Lei mi disse che noi
due non eravamo fatti per vivere insieme, che Suo cugino aveva una posizione
splendida e pensava a prender moglie, che vi pensassi.»
«Bene, bene, può essere che io abbia
detto quello» replicò il conte imbarazzato, frugandosi con la mano i capelli.
«Ma io allora non conoscevo appunto mio cugino e voi non avete creduto
consultarmi prima di accogliere la sua domanda.»
«Adesso lo conosco. Lo trovo un
perfetto gentiluomo pieno d'intelligenza, molto distinto, molto brioso,
simpaticissimo; come lo trova Lei, insomma.
«Come lo trovo io?»
«Ma sì! Non ha dichiarato stasera
alla contessa che Lei è contentissimo del matrimonio?»
«Sicuramente. Poi che voi non avete
stimato di dover prendere la mia opinione e avete deciso da sola, io ne sono
contentissimo. Ma mi preme affermare...»
Il conte si fermò per l'entrata di
Catte.
«Oh, per amor di Dio» esclamò costei
tutta sorpresa e quasi ritraendosi. «Mi scusino tanto. Credevo che non ci fosse
più nessuno. Ero venuta a prendere il ventaglio di Sua Eccellenza.»
«Qui non c'è ventagli» disse il
conte, brusco, vibrandole un'occhiata che la sgomentò.
«Eh, nossignore, nossignore» mormorò
la povera innocente Catte, e ritirò per la porta la sua magra persona, il suo
lungo naso.
«Mi preme affermare» ripigliò il
conte dopo un istante di silenzio «che io non vi ho consigliata.»
Marina sorrise.
«Ma io La ringrazio» diss'ella «del
Suo consiglio, io sono felicissima.»
Il conte avrebbe voluto adirarsi e
stavolta non poteva. Vero che Marina aveva deciso senza consigliarsi prima con
lui; ma restavano sempre sulla coscienza sua le parole dette in biblioteca e
ora ricordate da lei. Non era uomo da cavillare con la propria coscienza per
acchetarla. Soltanto adesso quelle parole gli tornavano a mente; ne esagerava
la gravità e si doleva di averle proferite.
«E siete contenta?»
«Rispondere di no, adesso, sarebbe un
po' tardi, ma io sono felicissima, l'ho già detto.»
«Udite, Marina.»
Da gran tempo il conte non aveva
parlato a sua nipote con la grave dolcezza che pose in queste due parole. La
figlia della sua cara sorella morta avea preso una risoluzione che
l'allontanava per sempre da lui. Non credeva che sarebbe stata felice, e ora
temeva essere in colpa egli stesso di queste nozze male promettenti. Temeva
essersi lasciato trarre a imprudenti parole dal risentimento delle gravi offese
recategli da sua nipote, dal desiderio di non vederla più, di non udirne la
voce irritante. Tale desiderio, fitto e saldo nell'animo suo fino a quel punto,
ora, in sul compiersi, veniva meno.
Perché Marina non si moveva, fece
egli stesso alcuni passi verso di lei e le disse:
«Per il Vostro decoro in questa
circostanza penso io.»
«Per il mio decoro?»
«Sicuramente. Voi entrate in una
famiglia molto ricca. Dovete entrarvi a fronte alta.» La mano destra del conte
gli era uscita di tasca per metà, nell'aspettazione istintiva di un'altra mano
che venisse in cerca di lei. Ma l'aspettativa riuscì vana e quella mano
ridiscese lentamente. Zio e nipote rimasero un momento immobili a fronte. Poi
egli prese una candela e andò a caricar l'orologio a pendolo sul piano del
caminetto.
Intanto Marina prese l'altra candela
e uscì silenziosamente, senza che il conte, intento a girar la chiave,
mostrasse avvedersene. Ella non chiuse neppure l'uscio dietro a sé; tuttavia,
appena fu uscita, il conte s'interruppe, voltò la testa e stette un poco a
guardar la porta semiaperta. Indi terminò di caricar l'orologio e uscì egli
pure, a capo chino, meditabondo, per andarsene a letto.
La vecchia casa dormiva inquieta. Più
d'una gelosia chiusa appariva rigata di lume; da più d'un uscio sfuggivano
bisbigli, s'incontravano nei corridoi vuoti, sulle scale deserte; come quando
ciascuno di noi si dispone nel silenzio e nella solitudine al riposo notturno,
che i nostri segreti escono dalle loro celle recondite, si spandono
bisbigliando per tutta l'anima.
Steinegge era nella stanza di sua
figlia. Le aveva dato una grande notizia; la domanda formale della mano di lei,
fattagli poche ore prima dall'ingegnere Ferrieri. Il povero Steinegge aveva la
febbre addosso. Sentiva confusamente che, avuto riguardo al valore e alla
condizione sociale del Ferrieri, la era una grande fortuna; sentiva che
l'ingegnere doveva essere un onest'uomo: di questo lo persuadeva il colloquio, avuto
con lui. Il Ferrieri gli aveva lealmente aperto il suo cuore, gli aveva narrato
l'episodio dell'Orrido, esprimendo la speranza che Edith avrebbe accettate le
sue scuse, parlando di lei col toccante rispetto di un fanciullo di sedici
anni. Poi gli aveva lungamente ragionato di sé, della sua famiglia, nulla
celandogli né del bene né del male; gli aveva tratteggiata la vita seria e
tranquilla, ma signorile, che offriva a Edith. Steinegge sentiva che avrebbe
perduto per lo meno gran parte di sua figlia; n'era accorato e si sdegnava in
pari tempo seco stesso di questo egoismo invincibile. S'era fatto quindi uno
scrupolo di magnificare a Edith l'uomo e le sue parole. Ma egli era troppo
commosso per potersi spiegare a dovere. Le aveva impasticciato il discorso del
Ferrieri, mettendone a fascio il capo e la coda, lardellandolo di esclamazioni:
«Un uomo nobile! Un uomo grande!» confondendosi, ripigliandosi ad ogni momento.
Quand'ebbe finito, Edith venne a
posargli le mani sulle spalle.
«Che mi consigli, papà?» diss'ella.
Il povero Steinegge non fu in grado
di rispondere a parole, ma fece un gesto energico, un'affermazione disperata
con il capo e con le braccia. Finalmente, a furia di volontà, poté articolare
queste due parole:
«Grande fortuna.»
Edith gli posò il capo sopra una
spalla e parlò; le cose che aveva in cuore non osava metterle fuori mostrando
il viso.
«Sa? C'è qualcuno che mi dice:
<Non ha più il suo paese, non ha più vecchi amici, non ha più la sua
giovinezza; ma io sono tranquilla perché tu sei al posto mio, presso di lui, e
gli darai tutto il cuore, tutta la tua vita>.»
«Oh, no, no, no, no!» interruppe
Steinegge.
«Mi dice così, papà. E poi aggiunge:
<Non ti dividerai ora da tuo padre, se...>.»
Qui Edith, abbassò la voce:
«<... se speri che siamo tutti
uniti un giorno, meglio, oh, molto meglio che negli anni tristi in cui il papà
ha tanto faticato, tanto sofferto per me, per te stessa>.»
Steinegge chiuse le braccia intorno a
sua figlia, ripetendo:
«No, no, no!»
;Ma... e poi, papà» disse Edith
rialzando il viso sereno, «c'è anche un'altra piccola cosa. Questo signore non
mi piace.»
«Oh, impossibile! Pensa, bambina mia,
che forse si potrebbe restare insieme lo stesso.»
«No, no! Sai bene, dovrei essere
prima sua moglie e poi tua figlia. Figurati! E i nostri progetti? La nostra
casettina, le nostre passeggiate? E poi, davvero, io posso perdonare se vuoi,
al signor Ferrieri; ma egli non mi piace. Gli dirai così: la mia signora figlia
non può accettare che le sue scuse. Non è vero che gli dirai così, papà?»
«No, non è possibile, non farai
questo. Io sono vecchio; e se...»
Edith gli pose una mano sulla bocca.
«Papà» diss'ella «perché addolorarmi?
È inutile.»
Steinegge non sapeva se mostrarsi
allegro o dolente. Gesticolava, faceva mille smorfie, buttava esclamazioni
teutoniche, come tappi di Champagne che partissero uno dopo l'altro. Prima di
lasciar la camera tornò a supplicare Edith di pensarci, di riflettere,
d'indugiare. Uscito finalmente, bussò pochi minuti dopo all'uscio per dirle
ch'ell'era ancora in tempo di mutare la sua risposta, e che avrebbe potuto
consultare il conte Cesare. Ma Edith gli troncò le parole in bocca.
«Almeno» diss'egli obbedendo alle sue
abitudini cerimoniose «almeno lo ringrazierò a nome tuo il signor Ferrieri, gli
dirò: <mia figlia Le è riconoscente...>.»
«Non mi pare necessario, papà. Digli
che accetto le sue scuse.»
«Ah, bene.»
E Steinegge rientrò nella sua camera
proprio nel momento in cui la contessa Fosca, assaporando voluttuosamente con
la sua vecchia pelle la morbida frescura delle lenzuola di casa Salvador,
congedava Catte così:
«No la me piase gnente, no la me
piase gnente, no la me piase gnente. Stùa.»
Tacevano i bisbigli nei corridoi, le
persiane rigate di luce si oscuravano di botto, una dopo l'altra; ma la vecchia
casa non dormiva ancora quieta. Nell'ala di ponente le finestre della camera
d'angolo verso il lago erano aperte e tuttavia lucenti come occhi giallastri
d'un gufo mostruoso. Marina vegliava.
Era uscita dalla presenza del conte
con il cruccio d'un pensiero molesto, con l'ombra sul cuore delle ultime parole
pronunciate da lui. Il cruccio si sprofondava, l'ombra si allargava sempre più,
a misura che quelle parole velate pigliavano nella sua mente il loro significato
certo, suonavano e risuonavano nella sua memoria, chiare, irrevocabili; come
quando una stilla d'inchiostro cade quasi inavvertita sulla carta umida, che si
allarga presto per ogni verso e si profonda. Mentr'ella attraversava lentamente
la loggia col lume in mano, il pavimento che la reggeva, il tetto sopra il suo
capo, le colonne, gli archi eran pieni di una voce sola, ed era la voce stessa
di quel molesto pensiero fermo in fondo alla sua coscienza: beneficio.
Beneficio dell'uomo che odiava e doveva odiare. No, non avrebbe riconosciuto
questo debito mai. Non sarebbe mai giunta, questa bugiarda voce, a toccare i
suoi odii, i suoi amori. Mai. Passò nel corridoio, e le parole dello zio le
rimorsero il cuore tormentosamente; davanti, sull'altra scala, le appariva la
smilza figura di lui, la gran testa severa illuminata di dolcezza.
Solo quando entrò nella propria
camera, fra le pareti pregne de' suoi pensieri più occulti, della essenza di
lei stessa, custodi di tante cose sue e delle segrete voci de' suoi libri
prediletti, delle sue lettere, solo allora si sentì forte, e la sorda
irritazione del suo cuore trovò un concetto, una via.
Un pugno d'oro nel viso; ecco le
parole del conte; ecco il beneficio. Gratitudine per questo? Le pareva di
levarsi da terra in un impeto d'alterezza, di scuotere da sé il denaro immondo,
di scuoterlo addosso a Nepo Salvador. Li disprezzava egualmente l'uno e
l'altro; li odiava; più dell'uomo, il denaro. Non ne aveva mai sentito come ora
il tocco ributtante; era vissuta lungo tempo nel suo splendore senza vederlo,
senza voler pensare che la luce intorno a sé fosse luce di una rapida corrente
d'oro, versata da mille mani sucide e volgari, portata via da mille altre; e
non luce della sua nobiltà, della sua bellezza, del suo genio elegante. V'era
bene stata un'eclissi momentanea dopo la morte di suo padre ma più sul volto
delle persone che su quello delle cose intorno a lei. Sapeva che nel mondo il
denaro è un dio; è voluttuoso sprezzare un dio. Era voluttuoso per lei irritare
con le sue freddezze di gran dama la borghesia opulenta, bene aristocratizzata
nelle donne, male negli uomini. Pretendeva che a questa gente si vedesse negli
occhi e sulla fronte il bagliore dell'oro, che la loro voce avesse un suono
metallico, che lo strascico d'ogni signora borghese ripetesse una fila di
cifre.
Schizzar su lei un getto d'oro non
era beneficarla: altra gente si benefica così. Era piuttosto ferirla perché il
denaro del conte Cesare doveva essere avvelenato d'inimicizia. Peggio ancora;
intendeva egli forse saldare a quel modo la partita di tante prepotenze, di
tante offese oblique e dirette? Certo lo intendeva. Come mai non l'aveva ella
pensato prima?
Suonò il campanello, per Fanny. Fanny
faceva dei risolini in quella sera, apriva ogni tanto la bocca come se volesse
parlare e non osasse, attendesse un invito.
«Spero» diss'ella finalmente
sciogliendo una treccia della sua padrona «che se Lei avesse ad andar via di
qua, non mi abbandonerebbe mica, non è vero?»
«Fa presto» rispose Marina.
«Faccio presto, faccio presto. Come
la mi piace mai quella signora contessa! Come la mi è cara!»
E pigliò a sciogliere un'altra
treccia.
«È vero che a Venezia non ci sono
carrozze? Sarà però sempre meglio di qua, dico io. Non è vero?»
Marina non rispondeva.
«Com'era contenta la signora contessa
stasera! Mi ha fatto quasi un bacio. Povera donna! Mi vuol proprio bene. Mi ha
detto che sono un tesoro. Povera signora! A me non sta bene di ripeterlo, ma mi
ha proprio detto così. Lo dice anche la signora Catte, povera signora Catte, che
di cameriere come me ce ne son poche dalle sue parti. È brava anche lei però.
Bisogna vedere come cuce bene. Cuce quasi tanto bene come me. La mi ha detto
adesso...»
«Fa presto.»
«Faccio presto, faccio presto. La mi
ha detto adesso che il signor conte ha voluto mangiarla, perché...»
«Hai finito?»
«Sì, signora.»
«Bene, vattene.».
«Non vuole che La spogli?»
«No, non voglio niente. Vattene.»
Fanny esitò un poco.
«È in collera con me?»
«Sì» disse Marina per sbrigarsene
«sì, sono in collera. Vattene.»
E si alzò scuotendo il fiume dei
capelli biondo bruni che le cascava alle spalle sull'accappatoio.
«Perché è in collera?» disse Fanny.
«Per niente, per niente, vattene.»
«Che La senta» ripigliò Fanny rossa
rossa «se fosse per certi bugiardoni qui di casa che Le avessero contate delle
storie, non stia a crederci, perché dei signori giovani e belli ne ho
conosciuti tanti e nessuno mi ha mai toccato un dito...»
«Basta, basta, basta!» la interruppe
Marina «non so che cosa tu voglia dire, non voglio saperlo. Non sono in
collera. Ho sonno. Va, va.»
Fanny se ne andò.
«Oh, carino» mormorò Marina, poi che
rimase sola, «Benissimo, questo.»
Ella rilesse il biglietto della
signora De Bella.
Non ritrovò le impressioni di prima.
Tutt'altro. Giulia aveva scoperto la traccia di Corrado Silla, aveva scritto
subito, la lettera era giunta poco dopo che lei, Marina, aveva promesso a Nepo
di sposarlo. E che perciò? Era un caso straordinario da vederci quello che ci
aveva visto lei sulle prime, un passo del destino? Ella sapeva ora che Silla
era a Milano, conosceva la sua abitazione. Gran cosa! Lo avrebbe saputo
egualmente pochi giorni dopo, da Edith. Ma c'era solo un'ombra di lontano
indizio che Silla dovesse tornare presto o tardi al Palazzo? Non v'era. Dunque?
A che poteva riuscire questo aspettare inerte un dubbio destino?
Su tale domanda il suo pensiero si
fermò e poi si annientò ad un tratto, lasciandole la impressione di un gran
vuoto e tutti i sensi tesi nell'aspettazione istintiva di qualche segno, di
qualche voce delle cose in risposta. Udì il colpo sordo di un uscio chiuso da
lontano; poi più nulla. Neppure un atomo si moveva nel silenzio grave della
notte. Le scure pareti, le suppellettili sparse nella penombra della stanza,
chiuse nella loro immobilità pesante, non parlavano più a Marina. I fiochi
bagliori accesi come occhi di spiriti nelle arcane profondità del lago lucido,
la guardavano senza espressione alcuna. Subitamente le si ridestò il pensiero e
insieme le cadde il cuore.
Ella si vide salire in un carrozzone
da viaggio con Nepo Salvador, sentì una frustata che sperdeva tutte le sue
illusioni stupide, sentì la scossa della partenza, le ingorde braccia di Nepo;
a questo punto si rialzò nello sdegno, confortata; non era possibile, nelle
braccia di Nepo non sarebbe caduta mai, sposa o no. Ma questa idea ne trasse
un'altra con sé.
Ella aveva chiuso la lettera nello
scannello ed era venuta a deporre l'accappatoio sulla sua bassa poltroncina di
toeletta, di fronte allo specchio. Vi cadde a sedere, si guardò per istinto
nello specchio illuminato da due candele che gli ardevano a lato sui loro
bracci dorati. Si contemplò in quella tersa trasparenza sotto l'alto lume delle
candele che le batteva sui capelli, sulle spalle, sul seno, e pareva rivelare
una voluttuosa ondina sospesa in acque pure e profonde. Sotto i capelli lucenti
il viso velato di ombra trasparente pendeva avanti, sorretto al mento da una
squisita mano chiusa, più bianca del braccio rotondo che si disegnava appena
sul candore dorato del seno, sulla spuma sottile di trine che cingeva le carni
ignude. Le spalle non somigliavano punto a quelle opulente della gentildonna
del Palma. Non vi appariva però alcun segno di magrezza, e avevano nella loro
grazia delicata, nel contorno alcun poco cadente, una espressione di alterezza
e d'intelligenza, quali splendevano nei grandi occhi azzurri chiari, nel viso
leggermente chinato al seno. E mai, mai, labbro d'amante vi si era posato!
Allora Marina, palpitando, lo immaginò. Immaginò che qualcuno, il cui viso
ell'aveva veduto l'ultima volta al chiarore dei lampi, venisse da lontano, per
la notte oscura e calda, ebbro di speranza e delle voci amorose della terra;
che avanzasse sempre, sempre, senza posa; che varcasse, più muto d'un'ombra, le
porte obbedienti del Palazzo, ascendesse brancolando le scale, spingesse l'uscio...
Ella si levò in piedi soffocata da
un'oppressione senza nome, emise un lungo respiro, cercando sollievo; ma l'aria
tepida, profumata, era fuoco. Ah lo amava, lo amava, lo invocava, lo stringeva
nelle sue braccia! Spense in furia i lumi dello specchio, ricadde di fianco
sulla poltrona e, abbracciatane la spalliera, vi fisse il viso, la morse.
Giacque lì un lungo quarto d'ora,
tutta immobile fuor che le spalle sollevate da un palpitar forte e frequente. Si
rialzò, alfine, cupa; e pensò.
Perché non aver trattenuto Silla dopo
udito il nome terribile? Perché, s'ella aveva perduto in sulle prime e moto e
senso e volontà, non s'era slanciata poi quella notte stessa dietro a lui, a
caso ma con l'istinto della passione, dietro a lui ch'ella aveva amato, come
dubitarne? al primo vederlo, malgrado se stessa, con dispetto e rabbia, dietro
a lui che l'aveva stretta nelle braccia chiamandola Cecilia? Non si compiva
così la predizione del manoscritto ch'ella sarebbe amata con questo nome?
Perché non fuggire, non cercare di lui subito? Perché questa commedia con Nepo
Salvador?
C'era bene il perché, e Marina non
poteva dimenticarlo a lungo.
Quelle ultime parole del manoscritto!
«Lasciar fare a Dio. Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà
buona su tutti. Qui, aspettarla qui.» E i fatti non accennavano già
confusamente da lontano com'ella potrebbe raggiungere insieme la vendetta e
l'amore?
Le tornò la fede. Si alzò, prese la
candela, venne sulla soglia dell'altra stanza e porse il capo a guardare lo
stipo del secreto, alzando il lume con la sinistra. Era là, appena visibile
nell'ombra della parete, nero a tarsie bianche, come un sarcofago dove fossero
incisi caratteri arcani. Marina lo contemplò, dorata i capelli e le spalle
ignude dal vivo chiaror tremulo che si spandeva intorno a lei per breve spazio
di pareti e di pavimento. Ai suoi piedi oscillava l'ombra rotonda del candeliere.
Fu assalita, pietrificata da una delle sue reminiscenze misteriose. Le pareva
esser venuta su quella soglia un'altra volta, anni ed anni addietro di notte,
discinta, con i capelli sciolti, aver visto ai suoi piedi l'ombra oscillante
del candeliere, il lume intorno a sé per breve spazio di pareti e di pavimento,
e, là davanti, lo stipo nero, i caratteri arcani.
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