Capitolo IV
L'OSPITE FORMIDABILE
Silla, ch'era sdraiato
sull'erba, balzò a sedere e contò le ore. Dieci e mezzo. Trasse l'orologio, lo
guardò al fioco lume delle stelle. Dieci e mezzo. Lo sapeva che dovevano essere
le dieci e mezzo: aveva guardato l'orologio due minuti prima per la centesima
volta. Abbrancò l'erba con le dita convulse, ne strappò due manciate. Marina
aveva detto: dopo le undici.
Lasciò cader le braccia inerti, piegò
il collo, si accasciò tutto come se un piede enorme gli calcasse le spalle.
Pensò in quel momento con certa stupidità fredda e lenta all'atto sleale che
stava per compiere sotto il tetto d'un amico ammalato gravemente; pensò ai
propositi del passato, alla vicenda di cadute e di vittorie, sovra tutto al
sinistro presentimento antico di un'ultima caduta senza rimedio, di un abisso
orribile predisposto chi sa in qual punto della sua vita, dove si sarebbe
perduto, anima e corpo, per sempre. Sentì senza sgomento d'esservi giunto,
d'avere un piede proteso nel vuoto.
Un'amara energia gli corse le vene,
ogni pensiero scomparve dalla sua mente, tranne il pensiero dell'ora che
incalzava.
Era lì da un'ora allo stesso posto
della sera precedente sull'erba del vigneto, accanto a un cipresso. Quelle
cinque ore eterne del dopopranzo, che pareva non avessero a passar mai, eccole
corse, svanite, come un secondo. Guardò l'orologio; mancavano venticinque
minuti alle undici.
Andrebbe subito? Aspetterebbe là? Si
crucciava di non sentire ardere il sangue di un desiderio più violento. Gli
pareva esser torturato nel cervello e nei nervi dall'aspettazione febbrile; non
altro. Forse l'incontro di Steinegge?... No, non voleva pensare a quel nome.
Si alzò ad abbracciare il gran tronco
del cipresso, e, chiusi gli occhi, immaginò di origliare, fermo sulla scaletta;
assaporò più volte, rinnovandone la immaginazione, il venir lento di un
sussurro; sentì un'aura profumata, due piccole mani che prendevan le sue
protese, e lo traevano su, nelle tenebre. Ella saliva a ritroso ed egli
seguivala, muti l'uno e l'altra; ma le mani intrecciate parlavano insieme un
linguaggio tanto inesprimibilmente forte e dolce che essi ristavano ansanti;
quasi folli; e...
Si spiccò dal cipresso con una spinta
impetuosa. Guardò ancora l'orologio: erano le undici meno un quarto. Passò dal
vigneto sulla scalinata e discese adagio adagio, in punta di piedi, trattenendo
il respiro, sostando ad ogni rumore che si mescesse al gorgoglìo delle fontane.
Giunto nel cortile si fermò un istante. Nessun lume, nessuna voce usciva dal
Palazzo nero. Prese a dritta, rasente il muro, sotto le sparse braccia pendule
delle passiflore e dei gelsomini, spinse la porticina della darsena, entrò nel
buio. Si vedeva solo, a sinistra, il principio della scaletta e sulla bocca
della darsena l'ondular vago dell'acqua che di tratto in tratto posava sulla
chiglia delle barche un bacio quieto. Allora balenò a Silla che forse quel
convegno avrebbe potuto riescir diverso dalle immaginazioni sue, che forse
Marina non l'amava, ch'era mossa da qualche strano capriccio. Avrebbe ella
voluto prendersi giuoco di lui, lasciarlo lì tutta la notte?
Sedette sulla scaletta, guardando,
per l'alto finestrino ovale che la rischiarava, uno spicchio di cielo, la punta
di un cipresso, una stellina pallida.
Mancavano sette minuti alle undici.
V'erano due minuti di differenza tra il suo orologio e quello della chiesa. A
quest'ultimo dovevano essere le undici meno nove. Pensò che quando il suo
facesse le undici, egli avrebbe ad aspettare due minuti ancora, due minuti
eterni, tormentosi. Ed ecco sopra il suo capo, nelle profondità del Palazzo, da
qualche orologio più affrettato degli altri, un batter di ore stridenti. Per donna
Marina erano le undici.
Si alzò, salì la scala sin dove non
giungeva più il chiarore del finestrino, puntò le mani alle due pareti e,
proteso in avanti, stette in ascolto.
Silenzio.
Il gemer lieve d'un uscio gli fermò
il respiro. Seguì un sussurro di passi cauti, una voce; non una voce, un soffio
rapido:
«Renato!»
Silla si gittava già in avanti e gli
ricadde il piede.
Un momento dopo udì chiamare ancora,
ma più forte, stavolta:
«Renato!»
La voce gli pareva e non gli pareva
di donna Marina. Diede un passo addietro.
Allora udì scender veloce un rumore
di vesti, ristar di botto.
«Silla, Silla!» disse donna Marina.
Era ben lei; non poteva vederla, ma
la sentiva in faccia, a pochi scalini di distanza.
«Non sono Renato» diss'egli senza
muoversi.
«Ah, non ricorda il nome! La vostra
mano!»
Balzò giù con impeto, cadde sul
braccio sinistro di Silla che la strinse, l'alzò quasi da terra.
«Era vero» diss'ella con voce
morente, tenendogli le labbra sul collo «era vero quello che mi avete detto ier
sera?»
Silla non rispose, la strinse più
forte, le baciò la spalla, si sentì premer forte la guancia da un'altra guancia
di velluto, da un piccolo orecchio caldo.
«Era vero?» ripeté Marina
teneramente.
Non si poteva sentirsi palpitar sul
petto quella bellezza altera, respirare il tepore odoroso che le usciva dal
seno, udirsene al collo la fioca voce e non perdere ogni lume di pensiero.
Silla poté dir appena:
«E tu?»
«Dio, da quanto!» rispose Marina.
Poi, come per subitaneo pensiero, si sciolse con impeto da Silla, gli appuntò
le mani alle spalle.
«Dunque non ti ricordi tutto!»
diss'ella.
Egli non capì, rispose a caso, ebbro,
tendendo le braccia:
«Tutto, tutto!»
«Anche di Genova?»
Le parole strane non entrarono nella
mente di Silla, che ripeté impaziente:
«Tutto, tutto!»
Marina gli afferrò le mani, gliele
congiunse con impeto.
«Ringrazia Dio» diss'ella.
Stavolta il nome terribile gli
strinse le viscere come un pugno freddo. Egli tacque stupefatto, a mani giunte.
Marina tacque pure per pochi momenti, aspettando ch'egli pregasse col pensiero;
quindi gli passò la mano destra sotto il braccio, e sussurrò: «Adesso andiamo!»
e si volse a risalir la scala.
Egli si lasciava tirar su, restando
uno scalino indietro, tacendo.
Trovarono un pianerottolo dove la
scaletta svoltava a destra.
«Vieni, dunque» disse Marina,
lasciando il braccio di lui e cingendogli col proprio la vita. Gli posò quindi
la bocca all'orecchio, vi gettò dentro un bisbiglio.
Egli dimenticò le parole
incomprensibili di prima, torno cieco, le rispose.
«Zitto, adesso» diss'ella mettendogli
la sinistra sulle labbra.
Spinse una porticina ed entrò in un
corridoio. Teneva Silla per mano e lo precedeva, camminando cauta rasente la
parete. Ad un tratto si fermò, credette udir passi e voci, stette in ascolto.
Le voci venivano dal piano inferiore,
dal corridoio vicino alla camera del conte.
Non vi badò più, andò avanti. Si udì
la sua mano tentar un uscio, girar una maniglia. Una lama di luce brillò nel
corridoio, un odor di rose avvolse Silla. Entrarono.
V'erano candele accese sulla ribalta
calata dello stipo, sul piano aperto, sopra una libreria bassa. Dalla porta
spalancata della camera da letto entrava pure un debole chiarore. Grandi mazzi
sciolti di glicine celesti, di rose bianche e gialle erano sparsi un po'
dappertutto.
Marina saltò nel chiarore delle
candele, trasse dentro Silla, chiuse l'uscio, ne girò la chiave, tutto in un
lampo, lucente gli occhi di riso muto, lucente d'oro il collo e i polsi ignudi,
bianca, a grandi ricami azzurri, la persona. Lasciò Silla, balzò in due slanci
al piano e prima che egli ne la strappasse, attaccò, con fuoco demoniaco, la
siciliana del Roberto.
«Li sfido!» diss'ella lasciandosi
trascinar via. «Li ho sfidati bene anche ieri sera: no? E non hanno inteso
niente.»
Silla aspettava che qualcuno, inteso
il piano, salisse.
Marina si strinse nelle spalle, si
sciolse da lui, cadde quasi supina in una poltrona.
«Qua!» diss'ella, accennandogli di
sedere a terra presso a lei. «Tutte le tue memorie.»
Silla non rispose.
«Il ballo, prima» soggiunse subito
Marina. «Non comprendi? Il ballo Doria!» ella batté il piede a terra
impaziente.
«Non comprendo» diss'egli.
Marina si rizzò di schianto a sedere.
«Non m'hai detto che ti ricordi?»
V'era in lui un demonio che s'irritava di queste ciance vane, non si curava di
comprenderle o no. Prese colle mani di ghiaccio quelle di lei, la piegò a forza
sulla spalliera della poltrona, si curvò a risponderle.
«Non so nulla, non ricordo nulla. Non
ho vissuto mai, mai tranne adesso. Sapevo solo che sarebbe venuto, questo
momento! Ho la frenesia di goderlo.»
Egli provava la sensazione
vertiginosa di scendere in un gran vuoto senza fondo, desiderava avidamente di
precipitare sempre più giù, senza rimedio.
«Non stringermi così» disse Marina
cercando svincolar le mani. «Non voglio!» esclamò, poiché l'altro non
l'ascoltava. Fu tanto superbo l'impero del suo sguardo e della sua voce che
Silla obbedì. Si alzò in piedi, si allontanò da lui lenta, a capo chino. Si
voltò improvvisamente, batté il piede a terra.
«Pensa! Ma pensa!» disse.
Un brivido corse pel sangue a Silla,
glielo raffreddò. Non so quale informe presentimento pauroso sorgeva in lui.
Marina gli chiese precipitosamente:
«Perché mi hai chiamato Cecilia
quella sera?»
«Perché avevo scoperto ch'eri la
Cecilia delle lettere.»
Ella rifletté un istante e disse con
calma:
«Certo, me l'ero ben immaginato. Ma
ieri a sera» soggiunse con l'impeto di prima «ma poco fa, perché dirmi che ti
ricordi?»
«Perché ho creduto che parlassi della
nostra corrispondenza e del momento in cui ti strinsi fra le braccia, qui
sotto, in darsena.»
Ella sedette allo stipo, ne cavò il
manoscritto, parve immergersi per qualche minuto nella lettura delle vecchie
carte giallognole, si alzò bruscamente.
«Ti dirò un segreto che riguarda
anche te» diss'ella, e spense prima le due candele dello stipo, quindi le altre
del piano, della libreria, tranquillamente, senza proferir parola, come se
quelle fiamme fossero vive e potessero udire. Solo dalla porta aperta della
camera da letto entrava un chiaror languido sul pavimento, sui mobili più
vicini.
Marina prese Silla pel braccio, lo
trasse nell'angolo più oscuro, presso la porta del corridoio, gli sussurrò:
«Tu non sai chi sono.»
Egli non comprendeva, non rispondeva;
quell'informe presentimento saliva in lui angoscioso.
«Ti ricordi quella sera in loggia, la
dama che tu accusavi, per cui mi sdegnai?»
Silla taceva sempre.
«Non ti ricordi? La contessa Varrega
d'Ormengo?»
«Sì» diss'egli ricordandosi a un
tratto, aspettando ansiosamente che Marina si spiegasse. Ma ella gli posò la
fronte ad una spalla e ruppe in singhiozzi dicendo due parole che Silla non
intese. Piegò il viso sui capelli di lei, la pregò di ripeterle.
«Sono io» diss'ella singhiozzando
ancora. E tosto un movimento involontario di Silla, una sommessa esclamazione
dolorosa la scossero. Dié un passo indietro, esclamò:
«Dunque mi credi?...»
«Oh no!» interruppe Silla.
La parola, non proferita, indovinata,
risuonò più forte.
Marina non piangeva più. Disse piano:
«Come siete tutti bassi, Dio!»
V'era stato un tempo in cui nessuno
avrebbe potuto dir basso Corrado Silla; ma questo tempo non era più ed egli lo
sentì acutamente.
«Tu, tu» continuò Marina «tu mi hai
scritto che questa era la tua fede, una vita precedente. Ma che fede era mai?
Era una fantasia, e non una fede. Ti dico <è vero> e tu hai paura, mi
credi pazza! Chi ti aveva detto, piccolo cuor vile, di fare il grande? Va!»
Una dopo l'altra le parole fiere
frustavano Silla in viso, lo avvinghiavano nella loro logica veemente, lo
irritavano, gli mettevano un'avidità crescente di sapere, di udire. Egli la
incalzò di domande violente, passando dalla preghiera allo sdegno. Ella lo
ribatteva indietro colla sua sillaba dura:
«Va! Va!»
Finalmente si arrese.
«Ascoltami!» disse «camminiamo.»
Si avviarono lentamente, girando
intorno al piano, passando ad ora ad ora nel chiarore che veniva dalla camera
da letto, perdendosi nell'ombra. Marina parlava rapidamente, tanto sottovoce
che Silla, per udirne le parole, dovea piegar l'orecchio alla bocca di lei.
V'era sul suo viso, le prime volte
che passò nella luce, una curiosità febbrile; quindi vi ripassò con gli occhi
vitrei sbarrati. Marina parlava tenendosi sempre un pugno stretto alla fronte.
Ad un tratto, nell'ombra, si fermarono. «Ma come?» diss'egli. Marina non
rispose. Un momento dopo si udì lo scatto di una molla. Poi egli fece un'altra
domanda sommessa. Marina andò nella camera da letto, ritornò con una candela
accesa, la posò sullo stipo. Anche ella era livida e gli occhi suoi avevano una
cupa espressione indefinibile. Silla afferrò il manoscritto avidamente. Marina
seguiva, attenta, la sinistra storia sulle labbra mute, sulle sopracciglia,
sulle mani tremanti di lui. Durante quel mortale silenzio, passi precipitati
suonarono a più riprese nel corridoio del piano inferiore, ma né l'uno né
l'altro li udirono. Di tempo in tempo Silla fremeva, pronunciava, leggendo,
alcune parole; ed ella allora, alitando affannosamente, appuntava l'indice sul
manoscritto.
«Ti ricordi questo?» le diss'egli una
volta, continuando a leggere.
«Tutto, tutto» rispose. «Leggi qui,
leggi forte.»
Silla lesse: <Dicevano che
rinascerei, che vivrei ancora qui tra queste mura, qui mi vendicherei, qui
amerei Renato e sarei amata da lui; dicevano un'altra cosa buia,
incomprensibile, indecifrabile; forse il nome ch'egli porterà allora>.
«E tu non ricordi!» diss'ella
dolorosamente.
Egli non la intese, soggiogato dal
fascino del manoscritto: tirò via a leggere in silenzio. Un altro passo lo fe'
inorridire, lo costrinse ad alzar la voce leggendo:
<Allora, allora vorrei rizzarmi
sul cataletto e parlare.>
«E ho parlato» diss'ella «l'altra
notte, come se fossi appena uscita dal cataletto; l'ho ferito a morte.»
Silla non le badò, continuò a
leggere. Giunto alle parole: <Quando nella seconda vita>, si vide
strappar di mano il manoscritto da Marina, che gli prese poi a due mani la testa,
gliela curvò, gliela strinse.
«E tu non credevi!» disse. «Ma poi ti
ho perdonato perché ti amo, perché Dio, vedi, Dio vuole così; e poi perché
anch'io, sulle prime, non ho creduto. Ecco, mi sono inginocchiata qui. Così.»
Cadde ginocchioni, appoggiò le
braccia e il capo sulla ribalta dello stipo.
«E ho pensato, ho pensato, ho cercato
nella mia memoria. Niente. Ma poi la fede m'è venuta come un fulmine, ho
creduto» soggiunse balzando in piedi, mettendo una mano sulla spalla di Silla
«e adesso, da pochi giorni, mi ricordo di tutto, di ogni minuzia.» Si fermò, lo
guardò un momento negli occhi, e, piegato il capo sul petto, disse teneramente:
«Non comprendi che sono stata, che
l'anima mia è stata nella tomba tanto e tanto, non so quanto, prima di
sciogliersi da quell'altra cosa orribile? Parlami d'amore, vedi quanto ho
sofferto. Spero che ti ricorderai anche tu. Ti ho le labbra sul cuore; vorrei
vedervi dentro, aiutarti a trovare. E t'ho amato subito, sai; appena ti vidi,
la prima volta.»
La ragione di Silla si oscurava
ancora per il turbamento della lettura, per la molle bellezza di Marina, per la
voce blanda, più voluttuosa del tocco.
Ella rialzò il capo. «Ma non volevo»
disse. «Bisogna pure che ti dica tutto. Credevo che il conte Cesare ti avesse
fatto venire per me; volevo odiarti, mi sarei morsa il cuore perché, quando ti
vedevo, quando ti udivo, palpitava. Ah, quella sera in barca, dopo le tue
parole superbe, insolenti, se tu avessi osato! Quando mi riconducesti alla
cappelletta...»
«Alla darsena» diss'egli
involontariamente.
Ella fece un gesto d'impazienza.
«Ma no! Alla cappelletta: non ti
ricordi? Quando mi riconducesti là e mi lasciasti, gittandomi il mio primo
nome, caddi come morta. Ripensai e compresi; mi dissi: è lui, sarà lui; presto
o tardi, contro tutto, contro tutti, sarà lui, qui. Vengono i Salvador, per me.
Lo sai che son parenti della famiglia d'Ormengo? Allora Dio, perché la volontà
di Dio sfolgora in tutta questa cosa, Dio mi fece vedere la vendetta che veniva
da sé. Guarda, la sera stessa in cui fu conchiuso il matrimonio... sai, dopo
avergli detto sì, ebbi un'ora di sfiducia terribile... seppi che Lorenzo eri
tu. Si stabilì il 29 aprile per il matrimonio. Io scrissi a Parigi... no, non a
Parigi, a Milano; come mi si confondono i nomi! Volevo sapere mille cose di te.
Tu non ci andavi mai, da Giulia. Intanto il 29 aprile si avvicinava. Quando
penso com'ero fredda e sicura in principio! Negli ultimi giorni non lo ero più.
Avevo la febbre tutte le notti; la febbre! Volevo sposarlo e poi calpestarlo,
per amor tuo, ma tu non venivi mai. Feci differire il matrimonio di un giorno.
La notte prima, che notte! alzai le mani a Dio dal mio letto. Allora Dio mi ha
toccato qui.»
Ella prese una mano di Silla, se la
pose sulla fronte.
«Mi ha toccato qui e ho visto quel
che dovevo fare. Sono andata giù, gli ho parlato. La sera dopo ti mandai il
telegramma. E tu, allora?»
Silla si sentiva assalire
furiosamente alla sua volta dalla follìa. Le pareti, lo stipo, gli occhi di
Marina, la solitaria candela gli rotavano in giro vertiginosamente. Non ebbe il
tempo di rispondere perché l'uscio che dalla camera da letto metteva nel
corridoio, sonò di più colpi, fu aperto con violenza. Una figura che per lungo
tempo non si era fatta vedere al Palazzo, vi aveva fatto ritorno nel cuore
della notte, un'ora prima, mentre Silla attendeva Marina sulla scaletta,
Giovanna vegliava presso il conte sopito, gli altri dormivano sognando nel
dolce sonno primaverile, chi il fragor di Milano, chi la quiete di Venezia, chi
eredità, chi pranzi, chi Nina dalle braccia di neve. Ogni cancello, ogni porta
s'erano aperti a quest'ospite, con l'atterrita obbedienza muta di servi
sorpresi dal ritorno impensato del signore. Era salito sino alla camera del
conte, e ciascuna pietra della casa aveva intanto sussurrato alla vicina il suo
funebre nome:
<MORTE.>
«Marchesina, marchesina!» esclamò
Fanny entrando. Vide Silla e tacque, fulminata. Silla si staccò da Marina, si
trasse un passo indietro. Marina, sorpresa un momento, si riebbe tosto, gli
riprese la mano sdegnando dissimulare, vibrò a Fanny un imperioso:
«Che hai?»
«Il signor conte!» rispose Fanny.
«Ebbene?»
«C'è venuto un altro accidente un'ora
fa e adesso è dietro a morire! Han detto di venir giù, di far presto.»
Marina spiccò un salto verso la
cameriera.
«Muore?» diss'ella.
Fanny aveva ben visto alla sua
padrona, da tre giorni, degli occhi strani; mai come in quel punto. Sgomentata,
non rispose. Stava sulla porta col lume in mano, scarmigliata, nudo il collo,
guardando Marina con occhi stralunati, torbidi ancora di sonno.
«Vieni!» disse Marina a Silla, e si
slanciò, tenendolo per mano, nel corridoio oscuro.
«C'è giù anche il prete» disse Fanny
ripigliando fiato.
Silla aveva voluto, al primo momento,
resistere, gittar da sé la mano nervosa che lo stringeva, ma una voce gli aveva
gridato dentro: <Vile! adesso l'abbandoni?>. Seguì Marina. Fanny veniva
lor dietro tenendo alto il lume, stupefatta, ricacciandosi in gola una fila di
esclamazioni.
Il lume stesso pareva agitarsi pieno
d'angoscia come se giungesse incontro ad esso, pel corridoio nero, il soffio
grave e solenne della morte.
Veniva su per la scala il chiarore
d'un altro lume. Qualcuno chiamò dal basso:
«Signora Fanny, signora Fanny!»
Era il cameriere che saliva affannato
col lume in mano. Domandò a Fanny, senza badare agli altri due, se avesse un
crocifisso.
«No, no, nella camera della signora
Giovanna, nella camera della signora Giovanna!» gli gridò dietro, dal fondo, la
voce di Catte. Fanny si mise a singhiozzare, e il cameriere, fatto un gesto di
fastidio, ridiscese, scambiò parole veementi con Catte. Una porta lontana
s'aperse, qualcuno zittì sdegnosamente. Subito dopo la voce tranquilla del
medico disse forte:
«Ghiaccio!»
Voci sommesse, frettolose,
ripetevano:
«Ghiaccio, ghiaccio!»
Marina non correva più, scendeva
adagio adagio, trepida suo malgrado. Le ombre del Palazzo erano piene di
terrore augusto; quelle voci spaventate, quei lumi di cui si vedevan qua e là
fugaci riverberi, lo accrescevano. Prima ch'ella mettesse piede sul corridoio
del piano inferiore, passarono il Vezza ed il Mirovich, senza cravatta né
solino; curvi, frettolosi. Il giardiniere che recava il ghiaccio li raggiunse,
li urtò col gomito, passò loro davanti. Improvvisamente si udì la voce sonora
di don Innocenzo:
«Renova in eo, piissime Pater,
quidquid terrena fragilitate...»
Poi più nulla. Certo un uscio era
stato aperto e richiuso.
Marina e Silla uscirono sul corridoio
seguiti da Fanny, videro il Vezza e il Mirovich aprir piano piano l'uscio del
conte, scivolar dentro; udirono ancora per un istante, la voce di don
Innocenzo:
«Commendo te omnipotenti Deo.»
Fanny die' in uno strido, posò il
lume a terra e fuggì.
Marina si fermò, si voltò a
guardarla.
«Stupida!» diss'ella. Poi sussurrò a
Silla:
«L'altra notte, andando da lui a
vendicarmi, son caduta qui, a quest'ora stessa. Non te l'ho detto che l'ho
ferito a morte?»
E fe' un passo avanti. Ma in quel
punto si sentì cinger la vita dalle mani poderose di Silla, riportar di peso
sulla scala. Tacque un momento, sbalordita; quindi, ingannandosi sulle
intenzioni di lui, gli disse sorridendo:
«Dopo!»
Egli non parlò.
«Lasciami dunque!»
«No» rispose Silla. Non era più la
ebbra voce di prima; era la voce d'uno che vede subitamente qualche cosa
orribile.
«Come?» diss'ella.
Si contorse tutta, si divincolò,
quale una serpe nell'artiglio dello sparviero. Si racchetò subito, cupa.
«Ohe, quel lume! Chi ha lasciato lì
quel lume?» disse Catte che veniva dal lato opposto alla camera del conte.
Un'altra voce commossa ripeteva: <Gesummaria, Gesummaria!>
Fanny aveva posato il lume sul primo
scalino. Catte e la contessa Fosca passarono, guardarono su per la scala, si
fermarono. Allora Silla, quasi involontariamente, lasciò libera Marina, che
saltò nel corridoio sugli occhi attoniti delle due donne e passò loro davanti,
senza salutarle. La contessa Fosca tutta imbacuccata in un gran scialle nero,
guardò Silla con un lampo, sul suo faccione volgare, di severa dignità; non disse
motto e passò oltre. Silla discese nel corridoio, la vide entrare con Catte
nella camera del conte. Non vide Marina, capì che doveva esservi già entrata,
si batté rabbiosamente i pugni sulla fronte. Balzò quindi in punta di piedi
all'uscio del moribondo e origliò.
«Suscipe, Domine» diceva don
Innocenzo «servum tuum in locum sperandae sibi salvationis a misericordia
tua.»
Una larga voce, breve e grave come un
soffio di organo appena tocco, rispose:
«Amen.»
Silla strinse, come chi affoga, la
maniglia dell'uscio. Questo fu aperto; si sussurrò: «Avanti!».
Egli entrò, non guardò, non vide;
cadde ginocchioni presso una sedia, accanto alla porta.
La luce d'una candela posata a terra
presso il letto batteva sulle bianche lenzuola cadenti, sui pomi d'ottone della
lettiera, sui frantumi di ghiaccio sparsi pel pavimento; gittava attraverso la
camera la grande ombra di don Innocenzo, ritto presso al moribondo di cui si
udiva il rantolo affannoso, precipitato. Da piè del letto, nella penombra,
stava il medico, ritto; accanto a lui Giovanna, inginocchiata, soffocava i
singhiozzi nelle coltri. Dispersi nelle ombre dell'ampia camera erano inginocchiati
la contessa Fosca e suo figlio, il Vezza, i domestici, il giardiniere. Questi e
il cameriere del conte piangevano. Il Mirovich, vecchio mondano, stava
appoggiato alla parete in un angolo. Se ne sarebbe andato volentieri; restava
per un riguardo alla contessa.
Un'altra persona era in piedi in
mezzo alla camera, a pochi passi dall'uscio: Marina. Le si vedevan bene la
punta lucida, vibrante d'uno stivaletto, la gonna bianca a ricami azzurri;
pareva tener le braccia incrociate sul petto; del viso nulla discernevano né la
contessa Fosca, né suo figlio, né il Vezza che le avean gli occhi addosso.
Don Innocenzo proferiva ad alta voce
le preghiere commendationis animae con Rituale alla mano, senza leggervi
mai. Non mostrò avvedersi di Marina né di Silla. Non dipartiva lo sguardo da
quella testa con la bocca aperta e gli occhi chiusi, coperta di ghiaccio,
inclinata sull'omero sinistro, cadaverica. Parlava con accento di profonda
pietà: quando disse <ignorantias eius, quaesumus, ne memineris, Domine>,
le parole suonarono più alte e commosse, parvero esprimere un'appassionata
fede, che Dio accoglierebbe nella sua pace quello spirito, il quale, dopo aver
operato il bene sulla terra senza pensare a Lui, Gli giungeva davanti come chi
navigando diritto e fermo verso una mèta conosciuta, trovò invece gran terre
nuove e gloria imperitura. In quella notte d'angoscia e di trepidi bisbigli, le
sonore parole sacre volte con tanta fede a un Essere affermato presente e
invisibile sopra l'uomo colpito da Lui, affermato padrone di chi Gli parlava e
di tutti i circostanti credenti o no, empivano la camera di sgomento. Si
sentivano due potenze sovrumane a fronte: una luminosa, eloquente, infocata di
pietà, tenace, instancabile; l'altra buia, muta. E questo appariva grande, che
la prima, disconosciuta dal giacente e in vita e in morte, offesane con parole
d'indifferenza, fors'anche di spregio, veniva nell'ultima sua ora, non
richiesta da lui, non potendone più attendere né bene né male, a coprirlo, a
difenderlo, a parlare alto per esso in un giudizio terribile. Quando il prete
sostava per qualche istante, s'udiva il moribondo ansar precipitosamente come
se un leone gli si fosse accosciato su. A un tratto quel rantolo parve mancare.
«È la fine» disse don Innocenzo
volgendosi agli astanti. Vide Marina in piedi, le accennò che s'inginocchiasse,
poi si curvò sul letto, pronunciò con voce chiara le ultime preghiere.
Marina fece due passi avanti; il lume
della candela ascese fino al suo viso pallido, alle nari frementi, alle
sopracciglia contratte.
«Conte Cesare!» diss'ella.
Tutti trasalirono, si rizzarono sulle
ginocchia, esterrefatti, a guardarla; tutti, tranne don Innocenzo. Questi non
fece che un gesto, con la sinistra, verso lei.
Ella non indietreggiò, non piegò.
Stese le braccia, appuntò gl'indici, come due pugnali, al morente, esclamò:
«Cecilia è qui...»
Un fremito d'esclamazioni sorde, uno
scricchiolar di seggiole, un fruscio di piedi corse per la stanza. Don
Innocenzo si voltò:
«Via!» diss'egli.
Nepo, il Vezza, il Mirovich fecero un
passo verso la donna ritta in mezzo alla camera come un fantasma.
«In nome del Signore la conducano
via!» singhiozzò Giovanna. «È lei che l'ha ucciso!»
Nello stesso istante Marina gittò
indietro le braccia coi pugni chiusi, piegò avanti il viso e il petto. Nessuno
dei tre osò avvicinarsele, fermar le parole stridenti:
«Con il suo amante!...»
Allora fu visto Silla slanciarsi a
lei, levarla tra le braccia.
«Per vederti morire!» gridò ella in
aria, dibattendosi. Fu un lampo; si udì un'usciata violenta. Silla e Marina
sparvero, la camera tornò silenziosa. Nepo, il Vezza e l'avvocato mossero in
punta di piedi verso la porta.
«Nepo!» disse la contessa Fosca
sottovoce, con forza. «Qui!»
Egli obbedì, le andò vicino. Gli
altri due uscirono.
«Il conte Cesare non ha potuto udir
parola» disse don Innocenzo pigliando la candela e posandola sul comodino. «Egli
dorme in pace.»
Il medico si avvicinò, posò una mano
sul cuore del conte, trasse l'orologio e disse forte:
«Un'ora e trentacinque minuti.»
Don Innocenzo cominciò subito le
preghiere per l'anima partita.
Una voce chiamò dalla porta il
medico, che uscì. Anche i domestici, per ordine di Nepo, uscirono tutti, tranne
Giovanna che, inginocchiata al letto del suo padrone, rispondeva con voce
debole, desolata, alle preghiere del curato. Nepo accese due candele che erano
sul cassettone. Le fiammelle, allargandosi come due occhi spaventati,
mostrarono poco a poco al suo viso cupido le chiavi del conte sul cassettone,
la contessa Fosca pochi passi discosto, il Mirovich che rientrava pallido, col
ribrezzo sul volto della cosa stesa sul letto, a sinistra. Costui si fermò
sulla porta e guardò Nepo, aggrottando le sopracciglia. La contessa lo vide,
ruppe in singhiozzi, andò a stendergli il braccio che il vecchio cavaliere
prese ossequiosamente, e uscì con esso.
Nepo tolse le chiavi e una candela;
si provò pian piano ad aprire uno stipo addossato alla parete di fronte al
letto tentando tutte le chavi senza riuscirvi.
«Oh Signore!» disse la Giovanna con
accorato sdegno. Don Innocenzo s'interruppe.
«O pregare o uscire» diss'egli.
Ma Nepo non gli badò. Curvo sullo
stipo, girando la chiave nella serratura, figgendovi quasi il lungo naso,
pareva una donnola fremebonda, inarcata a spiare, a odorar per qualche pertugio
la preda.
La collera salì al viso di don
Innocenzo.
«Vado io» disse.
Avrebbe afferrato colui, lo avrebbe
gittato alla porta se Giovanna, supplichevole, non lo avesse trattenuto.
«Lasci stare» diss'ella «seguiti,
seguiti, non me lo abbandoni.»
Intanto Nepo aveva trovato la chiave
buona, aperto lo stipo e trattane, dopo breve frugare, una carta piegata.
L'accostò alla candela cui reggeva con la sinistra, vi lesse una soprascritta,
abbruciandosi i capelli. Il Mirovich, rientrato allora senza ch'egli se ne
avvedesse, gli si avvicinò, gli disse con la sua severa voce proba:
«A me.»
«Bisogna leggere subito» disse Nepo,
confuso. «Voglio sapere dove sono, in casa di chi.»
Uscirono insieme.
Anche le preghiere in expiratione
erano finite. Don Innocenzo pregò ancora per qualche tempo, indi tolse congedo
da Giovanna, che non fu in grado di articolar parola.
La povera vecchia rimasta sola col
padrone, pose sulla testiera del letto le candele accese da Nepo, mise a posto
le seggiole sparse per la stanza, studiandosi di non far rumore come se il
conte dormisse. Sedette poscia presso al letto guardando il crocifisso posato
sul petto del cadavere. Ella aveva fedelmente, umilmente servito il conte per
quarant'anni, senza toccarne mai parole aspre né affettuose, ma sentendone la
intiera fiducia e una coperta benevolenza. Gli aveva sempre voluto, in vita, un
bene rispettoso, da essere inferiore. Mai mai non gli era stata così vicina
come adesso ch'egli non era più il padrone in casa sua, che gente estranea
metteva mano liberamente alle chiavi, mentre ella sola di tanti servi, di tanti
amici gli rimaneva accanto, devota come nei giorni passati della sua alterezza,
della sua forza. Mai mai non gli era stata così vicina come adesso che la croce
gli posava sul cuore; una piccola croce tolta quella notte dalla camera di lei.
Si alzò, venne a baciar per la prima volta, una dopo l'altra, le mani inerti
fra cui la croce posava, ne provò consolazione infinita e pianse.
Don Innocenzo, escito nel corridoio,
lo trovò scuro. Fatti pochi passi pian piano tastando il muro, perdette la
tramontana e si fermò, disposto a retrocedere in cerca di lume. Stette in
ascolto. Udì strida e lamenti che venivano dall'alto, a intervalli; anche
parole, ma non gli riuscì di afferrarne alcuna. Riconobbe però la voce di donna
Marina. Nessuno rispondeva. Colpi sordi di passi frettolosi attraversavano il
soffitto del corridoio, poi tacevano. Al di sotto, a fronte di don Innocenzo,
tutto era silenzio come alle sue spalle. Che accadeva lassù? Le strida i
lamenti continuavano. Ore d'angoscia in cui il cuore della casa tace, vuoto di
vita e un'agitazione mista di stupore e disordine invade le membra senza
governo! Don Innocenzo, calmo al cospetto della morte, calmo durante la
terribile apparizione di Marina, qui si turbava.
Un passo rapido risuonò sul soffitto,
traboccò per la scala nel corridoio.
«Lume!» disse don Innocenzo.
«Ah, Signore!» esclamò colui ch'era
disceso, correndo via a precipizio nel buio.
Il curato riconobbe il Rico, lo
chiamò, ma inutilmente.
Si vide aprire e sparire a fronte una
luce debole, andò avanti a caso e, spinto un uscio, si trovò in loggia.
«Ah, il signor curato!» disse il Rico
che stava per scappare dall'altra parte.
Potevano essere le due. Faceva
fresco. Il cielo si era tutto coperto daccapo di nuvole malinconicamente chiare
fra la luna invisibile, appena spuntata, e il tacito specchio del lago.
«Vien qua!» disse il curato. «Dove
vai?»
«Vado a pigliar la medicina.»
«Cosa c'è?»
«Che senta!»
Le grida ricominciarono, in quel
momento, più distinte. Don Innocenzo s'affacciò alla balaustrata, guardò in
alto a destra, vide illuminata la finestra d'angolo del piano superiore. La
voce veniva di lassù. Adesso parevano rimproveri, imprecazioni, poi lamenti,
poi silenzio.
«È la signora donna Marina» disse il
Rico sottovoce. «È come matta. C'è su il signor dottore e il signor Silla. La
gliene dice di tutti i colori al signor Silla.»
«Non c'è nessun altro?»
«C'è anche la mia mamma. C'è stata un
momento la signora Fanny, ma è scappata.»
«E tu cosa vai a prendere?»
«Lo so io? Il signor dottore ha detto
un certo nome come corallo. E mi ha detto di chiamare la Luisa del Battista per
venire a curarla.»
Don Innocenzo si tolse la lettera di
tasca e la diede al ragazzo.
«Portala» diss'egli «nella camera del
signor Silla e poi discendiamo insieme.»
Anche nell'altr'ala del Palazzo
cominciava allora un'agitazione sorda. Da più d'una fessura d'uscio trapelavan
lume e bisbigli. I fili dei campanelli trasalivano, sussultavano impazienti; se
ne udiva strillar lontano la voce chiara, imperiosa. Sulle scale don Innocenzo
e il Rico trovarono Momolo che scendeva con un lume.
«Forse si va!» diss'egli. Essi non
risposero.
Esciti che furono dal Palazzo, il
Rico partì di corsa per la sua missione, il curato si incamminò lentamente
guardando i grandi cipressi pensosi. Al cancello incontrò Steinegge. «Lei qui?»
diss'egli.
«La campana: ho inteso la campana»
rispose Steinegge con voce commossa. «Oh, questo è un dolore! Io dovrei
piangere per questo uomo.»
Egli abbracciò e baciò don Innocenzo,
soffocando un singhiozzo, poi disse in fretta:
«Si può andare avanti? Ha visto il
signor Silla?»
«Eh!» rispose don Innocenzo. «Altro
che visto!» e raccontò la lunga scena, poi quanto gli aveva riferito il Rico.
Steinegge fremeva, sbuffava; non
lasciò quasi che don Innocenzo finisse e corse via con un gesto risoluto che
voleva dire: «Vado io». Entrò nel Palazzo mentre ne usciva il giardiniere, che
pareva aver gran fretta e non lo riconobbe.
Salendo le scale incontrò Fanny che
scendeva con Catte singhiozzando, ripetendo:
«Voglio andar via, voglio andar via!»
«Andrete, andrete» rispondeva Catte
«ma pazienza, benedetta. Volete lasciar la vostra padrona in quello stato?»
«So di niente, io, voglio andar via!»
«Madre santa, che vita!» disse Catte
a Steinegge, che stringendosi alla ringhiera per lasciarle passare, le guardava
attonito. Egli stava per domandar loro qualche cosa, quando la contessa Fosca
gridò dall'alto:
«Ohe, questo Momolo!»
«Subito, Eccellenza!» rispose Catte,
e scese in fretta, trascinando giù Fanny. Steinegge continuò, pure in fretta, a
salire.
«Momolo» disse la contessa,
scambiando Steinegge pel suo servitore «avrà inteso bene, eh, quell'altro? Un
legno e un biroccino alle sei. Ah, siete voi? Scusate, caro voi.»
«Parte, la signora contessa?»
«Sì, sì, e maledetta quella volta che
son venuta.»
Nepo chiamò sua madre all'uscio del
salotto. Si vide dietro a lui l'avvocato Mirovich seduto al tavolo con una
lucerna, un calamaio e due gran fogli davanti a sé. La contessa entrò in
salotto e l'uscio ne fu richiuso sul viso a Steinegge. Questi trovò nella
loggia il Vezza appoggiato alla balaustrata verso il lago; gli si avvicinò col
cappello in mano per parlargli; ma colui, guardatolo appena e accennatogli di
tacere, volse il capo dall'altra parte, ascoltando.
Si udì un gemito lungo, debole.
«Donna Marina?» disse Steinegge.
L'altro non rispose, ascoltò ancora.
Non si udì più nulla. Allora quegli, come uscisse da un sogno, si mise a
parlare affrettatamente:
«Cose orribili, sa. Le hanno
detto?...»
«Sì, mi ha detto qualche cosa il signor
curato.»
«Oh, Lei non ha idea di quel momento!
Guardi.»
Il Vezza rappresentò tutta la scena
appuntino, parlando sottovoce, interrompendosi tratto tratto per ascoltare.
«Io esco» diss'egli poi «con
l'avvocato Mirovich, sa, l'avvocato dei Salvador. Trovo nel corridoio donna
Marina in preda a convulsioni terribili. Non gridava perché aveva addentato
l'abito dell'altro qui al petto, gemeva. Si chiama il medico, la cameriera, la
moglie del giardiniere. A gran pena riescono a trarla su per la scala, senza
poterle aprir la bocca. Dopo non so più niente di positivo; deve aver
continuato il delirio violento. Adesso si capisce che è più tranquilla, ma fino
a poco fa sono state, mi dicono, urla, maledizioni, suppliche incomposte.
Parlava sempre a quell'altro. Ed egli è là, capisce? Non è disceso mai. Oh!
cose incredibili. Quando si pensa quella scena, qui in loggia l'anno scorso! A
proposito, lo sa che stanotte quando il povero Cesare ebbe l'ultimo attacco,
loro due erano insieme?»
«Erano insieme?»
«Insieme, insieme! Li ha trovati la
Fanny in camera da letto.»
«Oh!» esclamò Steinegge. Gittò via il
cappello, rimase a braccia aperte.
«Insieme» riprese il Vezza dopo un
breve silenzio. «E in un momento lo hanno saputo tutti.»
«Commendatore» disse Nepo dall'altro
capo della loggia «vuol favorire?»
Il commendatore uscì, rientrò pochi
minuti dopo.
«Che confusione!» diss'egli. «Lo sa
che partono?»
«Chi?» rispose Steinegge distratto.
«I Salvador; alle sei. Che vuole?
Appena successa la disgrazia, il conte Nepo non ha perso tempo, ha cercato e
trovato il testamento ch'è olografo e ha la data di quindici giorni sono.
L'ospitale di Novara è erede universale. Per i Salvador ci sarà forse
questione, perché c'è ordine all'erede di vender la possessione di Lomellina,
onde soddisfare entro due anni le trecentoventimila lire di cui, dice il
testatore, <faccio donazione a mio cugino il conte Nepomuceno Salvador di
Venezia>. Donna Marina non ha niente. C'è poi una infinità di legati. Cesare
si è ricordato di tutti, da gentiluomo, veramente. C'è anche un assegno
vitalizio per Lei. Io sono esecutore testamentario. Del resto è ben naturale
che i Salvador se ne vadano; non c'è neanche onore, per loro, a restar qui. Il
conte avrebbe voluto fare del chiasso, che so io, battersi; ma se n'è lasciato
dissuadere subito.»
Catte venne a pregare il commendatore
di andare ancora dalla contessa, e Steinegge rimase solo.
Non era stato mai un gran sognatore
il povero Steinegge, pure qualche sogno, durante il suo mezzo secolo di vita,
l'avea fatto anche lui, di tempo in tempo; qualche piccolo sogno come la
libertà della patria, la pace della famiglia. Il suo ultimo sogno, umile e
timido, era stato che sua moglie sarebbe guarita e che avrebbero trovato un pane
in Alsazia; soffiatogli via dalla fortuna anche questo, non aveva sognato più.
Per meglio dire, non aveva più
creduto di sognare, perché adesso, guardando il lago dalla loggia del Palazzo,
e sentendosi il cuore tutto amaro, capì che un'altra speranza, natagli
spontaneamente, inavvertita da lui, gli si era rotta e gli faceva male. Chi
avrebbe pensato che Silla potesse dissimulare a quel modo? Deliberò di
aspettarlo.
Nessuna voce veniva più dalla camera
di Marina; tutta quell'ala del Palazzo era muta. Dall'altra parte si udivano
ancora spesso colpi d'usci sbattuti, strilli di campanelli. Spesso si apriva la
porta della loggia, si chiamava sommessamente un nome o l'altro. Nessuno
rispondeva; una testa usciva a guardare, poi spariva e l'uscio si richiudeva
lentamente. Voci di donne si alzavano un momento in litigio, ma erano fatte
tacere subito. Passi frequenti crosciavano sulla ghiaia del cortile, salivano
la scalinata; in alto, pei sentieri del vigneto si gridava e qualche volta si
rideva. Per fortuna i bagagli dei Salvador eran quasi pronti fin da due giorni
prima; la contessa li faceva portar su alla casetta del giardiniere.
Steinegge, fermo in loggia all'ultima
arcata di ponente, con le spalle al lago, le braccia incrociate sul petto,
aspettò a lungo, con gli occhi sulla porta onde sperava veder uscire Silla.
Finalmente udì venire pel corridoio i
passi di due persone. Ascoltò trattenendo il fiato; non parlavano. La porta si
aperse.
«Siamo intesi, dottore» disse Silla.
«Riferisca le condizioni gravi in cui ho dovuto prestare la mia assistenza;
riferisca lo stato di sopore e di abbattimento in cui ella si trova
presentemente, e se qualcuno Le domanda di me, La prego rispondere a nome mio
che per un'ora mi si troverà qui in loggia.»
La voce era sinistramente fredda.
Qualcuno che portava un lume tornò indietro; il medico attraversò la loggia,
Silla vi entrò dopo di lui.
Steinegge gli si fece incontro.
«Signor Silla!» diss'egli.
L'altro non gli rispose, non si voltò
nemmanco a guardarlo, andò a buttar le braccia sulla balaustrata verso il
cortile.
Steinegge fece un altro passo.
«Signor Silla, non mi riconoscete?»
Silenzio.
«Ah, quand'è così, bene.»
Egli tornò dov'era prima e tacque,
guardando Silla che non si muoveva.
«Io non so» diss'egli. «Io non credo
aver meritato questo.»
Nessuna risposta.
«Questo è amaro, signor Silla, di
venire come amico ed essere accolto così! Io voleva solamente dirvi che io
avrei preferito non vedervi più mai qui; anche adesso io vorrei piuttosto
vedere una buona onesta bocca di fucile sul Vostro petto, per Dio! Ero venuto
per dire a Voi questo e altre cose, ma poiché Voi non volete ascoltarmi, io
vado. Addio.» S'incamminò per uscire. Allora Silla, senza voltare il capo, gli
disse freddamente:
«Dica a Sua figlia che ho tenuto
parola e son caduto a fondo.»
«A mia figlia! Questo?»
«Sì, e adesso vada. Vada, vada via!»
ripeté Silla con passione improvvisa perché Steinegge, sorpreso, tornava verso
di lui. Questi piegò il capo in atto di rassegnazione e se n'andò.
Due lanterne, un corteo silenzioso
attraversano il cortile. Subito dopo il commendatore viene ad avvertire Silla
che i Salvador sono andati ad aspettar la carrozza in casa del giardiniere, e
che, s'egli desidera, può comunicargli una disposizione del conte che lo
riguarda.
L'uscio si chiuse dietro a loro, la loggia
rimase vuota.
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