Parte I
Capitolo I
CECILIA.
IN PAESE SCONOSCIUTO
Uno dopo l'altro,
gli spo(rtel)li dei vagoni sono chiusi con
impeto; forse, pensa un viaggiatore fantastico, dal ferreo destino che, ormai
senza rimedio, porterà via lui e i suoi compagni nelle tenebre. La locomotiva
fischia, colpi violenti scoppiano di vagone in vagone sino all'ultimo: il
convoglio va lentamente sotto l'ampia tettoia, esce dalla luce dei fanali
nell'ombra della notte, dai confusi rumori della grande città nel silenzio
delle campagne addormentate: si svolge sbuffando mostruoso serpente, tra il
labirinto delle rotaie, sinché, trovata la via, precipita per quella ed urla,
tutto battiti dal capo alla coda, tutto un tumulto di polsi viventi.
V'ha poca probabilità d'indovinare
che cosa pensasse poi quel viaggiatore fantastico, rapito tra fiotti di fumo,
stormi di faville, oscure forme d'alberi e di casolari. Forse studiava il senso
riposto dei bizzarri ed incomprensibili geroglifici ricamati sopra una borsa da
viaggio ritta sul sedile di fronte a lui; poiché vi teneva fissi gli occhi, di
tanto in tanto moveva le labbra, come chi tenta un calcolo, e quindi alzava le
sopracciglia, come chi trova di riuscire all'assurdo.
Eran già passate alcune stazioni,
quando un nome gridato, ripetuto nella notte, lo scosse. Una folata d'aria
fresca gli disperse le fila sottili del ragionamento; il convoglio era fermo e
lo sportello aperto. Egli discese in fretta; era il solo viaggiatore per...
«Signore» disse una voce rauca e
vibrata «è Lei che va dai signori del Palazzo?»
i fu tratta a bruciapelo da un uomo
che gli si piantò di fronte con la sinistra al cappello e una frusta nella
destra.
«Ma...»
«Oh, per bacco» disse colui,
grattandosi la nuca «chi dev'essere allora?»
«Ma come si chiamano questi signori
del Palazzo?
«Ecco, vede, da noi si dice i signori
del Palazzo e non si dice altro. Per esempio, a dire così, per un dieci
miglia tutto all'ingiro, capiscono; Lei, mettiamo, viene da Milano, è un'altra
storia. Queste sono sciocchezze, io lo so benissimo il nome; ma adesso,
piglialo! Noi povera gente non abbiamo tanta memoria. È poi un nome tanto fuori
di proposito!».
«Sarebbe...»
«Aspetti; Lei che taccia e che non mi
confonda. Ehi, dalla lanterna!»
Un guardiano si avvicinò lentamente
con le braccia penzoloni, facendo dondolare la sua lanterna a fior di terra.
«Non bruciarti i calzoni, che
Vittorio non te li paga» disse il giovinotto di poca memoria. «Tira su
quell'empiastro di una lanterna. Qua, prestamela un momento.»
E, dato di piglio alla lanterna, la
sbatté quasi sul viso al forestiere.
«Ah, è lui, è lui, è lui tal e quale
come mi hanno detto. Un giovinotto, occhi neri, capelli neri, nera mica male
anche la faccia. Bravo signore.»
«Ma chi ti ha detto?...»
«Lui, il signore, il conte!»
"Oh, diavolo" pensò colui,
"un uomo che non ho mai visto e che mi scrive di non avermi mai
visto!"
«To'!» esclamò l'altro lasciando
cader la frusta e cacciandosi la mano in tasca. «Proprio vero che più asino di
così la mia vecchia non mi poteva fare neanche a volere. Il signor conte non mi
ha dato un coso per farmi riconoscere? Ce l'ho ben qui. Tolga!»
Era un biglietto di visita profumato
di tabacco e di monete sucide. Portava questo nome:
CESARE D'ORMENGO
«Andiamo» disse il forestiere.
Fuori della stazione c'era un
calessino scoperto. Il cavallo, legato alla palizzata, col muso a terra,
aspettava rassegnato il suo destino.
«S'accomodi, signore; non c'è troppo
morbido, ma capisce, siamo in campagna. Ih!»
Il lesto vetturale, afferrate le redini,
balzo d'un salto a cassetto e cacciò il cavallo a suon di frusta per una
stradicciola oscura, così tranquillamente come se fosse stato mezzogiorno.
«Abbia mica paura, vede» diss'egli
«benché sia scuro come in bocca al lupo. Questa strada la cavalla e io
l'abbiamo sulla punta delle dita. Ih! Ho menato giù due forestieri anche la
notte passata, due signori di Milano, come Lei. Gran brava persona il signor
conte!» soggiunse poi, tirandosi a sedere di sghembo e cacciandosi sotto le coscie
il manico della frusta. «Che brav'uomo! E signore, ehi! Ha amici in tutte le
sette parti del mondo. Oggi ne capita uno, domani un altro, tutti fior di
gente, gran signori, sapienti, che so io. Già Lei sarà pratico!»
«Io? È la prima volta che vengo qua.»
«Ah, vedo. Ma conoscerà il signor
conte?»
«No.»
«O bello, o bello!» disse il
vetturale con accento di profonda meraviglia. «Una brava persona, sa! Sono suo
amico» soggiunse senza spiegare se appartenesse alla categoria dei gran signori
o a quella dei sapienti. «L'ho servito tante volte. Mi ha fatto bere un
bicchiere anche oggi. Non so se fosse vin di Francia o d'Inghilterra, ma che
vino! Ih!»
«Ha famiglia?»
«Signor no. Cioè...»
A questo punto le ruote di destra
saltarono sopra un grosso mucchio di ghiaia.
«Taci e guarda dove vai» disse il
viaggiatore.
Colui tirò giù bestemmie e frustate a
furia sulla povera bestia, che prese il galoppo.
Passarono sopra un torrente. Sul
ponte faceva chiaro. A destra si vedeva la striscia biancastra delle ghiaie
perdersi per campagne sterminate; a sinistra e di fronte umili colline
appoggiate ad altre maggiori; dietro a queste, gioghi cornuti che spiccavano
sul cielo grigio.
Non si udì più che il trotto del
cavallo, e, di tempo in tempo, lo scrosciar della grossa ghiaia sotto le ruote,
e l'abbaiar pertinace dei cani rinchiusi. Cavallo, cocchiere e viaggiatore
procedevano silenziosi insieme, come portati dallo stesso intento allo stesso
fine: porgendo immagine così dei fragili accordi e delle meditate alleanze
umane, poiché il primo tendeva segretamente alla dolcezza della tepida stalla,
il secondo a un certo vino di certa rubiconda ostessa, buon vino, spumante di
risate e di franchi amori; e colui ch'era il più intelligente e il più civile
dei tre, non conosceva affatto né la propria via né la meta.
Corsero fragorosamente attraverso
paeselli oscuri, deserti, dove le case pareano difendere accigliate il sonno
della povera gente; passarono davanti a giardini, a piccole ville vanitose, in
fronzoli, che avevano un'aria sciocca nell'ombra solenne della notte. Dopo un
lungo tratto di pianura la strada saliva e scendeva poggi che parlavano del
sole e parevano guardar tutti là verso l'oriente; finché sguisciò dentro una
valle angusta e scura tra selvosi fianchi di monti. Ne radeva talvolta l'unghia
estrema, talvolta se ne torceva lontano come per ribrezzo di quell'ispido
tocco; alla fine vi si gettò risolutamente addosso. Il cavallo si mise al
passo, il vetturale saltò a terra e disse chiaramente colla sua frusta
sbaldanzita: è un affar lungo.
«Dunque» chiese il forestiere,
accendendo un sigaro «ha famiglia o non ha famiglia?»
«Altro che averne, caro Lei. Ho una
donna brutta, vecchia e rabbiosa come il demonio.»
«Non te, il conte!»
«Ah, il signor conte! Chi ha da
saperlo? Dei signori non si sa mai niente. Alle volte pare che ce l'abbiano la
famiglia; c'è la donna, c'è i figli; e poi quando lui è lì per metter giù il
capo, gli sono addosso i corvi, e alla donna, vatti a far benedire, ci tocca di
cavarsela; alle volte vivono come i frati, e quando siamo lì al busillis,
tràcchete, è qua la signora con le lagrime e con le unghie. Fortunata in
tutto quella gente lì! Io, se faccio un'amorosa, dopo quindici giorni mi
pianta; ma la donna l'avrò ai panni fin che non iscoppia. Il signor conte ha
vissuto solo per un pezzo; ora ci ha insieme una ragazza. Chi la dice sua
figlia, chi sua nipote, ma è la sua amorosa senza dubbio. Queste bestie
ignoranti di paesani dicono ch'è brutta. Vedrà se è brutta. Ah, io già dovevo
nascere un signore!»
Qui, per consolarsi, il bizzarro
giovinotto tirò una furiosa frustata alla cavalla che portò via correndo
l'altro interlocutore e ruppe così il dialogo. Giunta, dopo lunga fatica, al
collo dell'erta, si fermò a prender fiato. Lassù la scena mutava. Monti ripidi
salivano a destra e a sinistra, lasciando appena posto alla strada; altri monti
si mostravano a fronte della discesa, un po' sfumati sopra le vette nere degli
alberi che cominciavano, poco sotto il collo, a fiancheggiarla.
Il vetturale risalì a cassetto, scese
di trotto alle grandi fauci fronzute del viale che gli si aprirono rapidamente.
Fra tronco e tronco la veduta veniva allargandosi; cresceva la luce,
comparivano distese di vigneti.
Un lume, spiccatosi dal lato destro
della strada, venne di fronte al cavallo, che si fermò.
«Ebbene?» chiese una voce.
«Oh, c'è, c'è» rispose il vetturale
saltando a terra. «Se comanda, signore, è qui. Pagato, signore. S'è per un
bicchiere, signore. Lei è buono padrone, nessuno Le può dir niente. Tante
grazie. Ehi, piglia la borsa del signore. Felice notte. Ih!»
«Il signor Silla?» disse l'uomo della
lanterna, un domestico, all'aspetto.
«Appunto.»
«Servito, signore.»
S'avviò silenzioso, con la borsa
nella destra e la lanterna nella sinistra, giù per un viottolo fiancheggiato di
rozzi muricciuoli, dove la luce balzellante saltava e guizzava, cacciandosi
avanti, traendosi dietro le più nere tenebre.
Invano il signor Silla guardava
curiosamente al di sopra dei muri; appena poteva discernere qualche fantasma
d'albero proteso dal pendìo, a braccia sparse, in atto di stupore e di
supplica. Un tocco vibrato di campanello lo fe' trasalire; la guida s'era
fermata a un cancello di ferro. Tosto qualcuno aperse; i ciottoli del viottolo,
la soglia del cancello furono inghiottiti dall'ombra; ora passava sotto la
lanterna una sabbia fine fine e, ai lati, negre piante dai rami folti,
impenetrabili. Dopo la sabbia, erba e vestigia incerte di un sentiero tra un
denso fogliame di viti; poi larghi scalini nerastri, sconnessi, a cui si
giungeva per fianco. Non se ne vedeva né principio né fine; solo si udiva verso
l'alto e verso il basso un discorrer modesto di acqua cadente. La guida
scendeva cauta per quelle pietre mal ferme che rendevano un suono metallico.
Nella fioca luce della lanterna apparivano, a intervalli regolari, due tronchi
enormi e due grigie figure umane, ritte, immobili a fianco della scalinata.
Finalmente gli scalini cessavano, minuta ghiaia rosea passava sotto la
lanterna, grandi foglie di arum le passavano a fianco, e lì presso, nel
buio, uno zampillo gorgogliava quietamente il suo racconto blando. La guida
prese a sinistra, girò il canto di un alto edificio, salì due scalini e
introdusse ossequiosamente il nuovo arrivato per una gran porta a vetri.
Nel vestibolo illuminato c'era un
signore vestito di nero da capo a piedi, che gli venne incontro facendo inchini
profondi e stropicciandosi le mani a tutt'andare.
«Benvenuto, signore. Il signor conte
si è ritirato, perché l'ora è un poco, come si dice?... un poco tarda, tarda;
il signor conte ha incaricato me di fare le sue scuse. Appunto ho l'onore di
essere il segretario del signor conte. Prego, signore, si accomodi, prego. Io
credo che il signore avrà bisogno di un poco di ristoro; oh! prego, prego.»
Il cerimonioso segretario mise
l'ospite per una scala signorile e lo accompagnò sino al primo piano. Colà,
ottenutane la promessa che sarebbe ridisceso a cena, lo affidò al servo, ed
andò ad aspettarlo in un salotto, dove era preparato da cena per due e dove
l'altro commensale non tardò a comparire. Questi non aveva accettato di sedere
a cena per desiderio di cibo, ma per curiosità dell'uomo singolare che ne lo
richiedeva.
Il signor segretario mostrava di
essere sui cinquant'anni. Due occhietti azzurrognoli gli fiammeggiavano nel
viso rugoso e giallastro fra due liste di capelli non più fulvi e non ancora
grigi. Portava la barba intiera che gli durava infuocata. Il pelo e il viso, la
rigida rapidità degli atti, certe consonanti petrificate e certe vocali
profonde che gli uscivano di bocca come d'un burrone, lo scoprivano tosto per
tedesco. Anche il taglio antiquato e la nitidezza dell'abito nero, i solini
inflessibili, il candido sparato della camicia erano da tedesco e da
gentiluomo. Se non che, strana cosa, a' polsi il gentiluomo finiva. Le mani
erano grandi, fosche, sparse di cicatrici, con la pelle avvizzita e screpolata
sul dosso, callosa nel palmo. Vi erano incise lunghe ore di sole, di gelo, di
lavoro faticoso. Aveano perduta ogni pieghevolezza; non sapevano più esprimere
il pensiero come lo esprime la mano intelligente dell'uomo colto. Parlavano in
vece loro, con brusca energia, con passione, le braccia e le spalle
mobilissime. Parlava, sopra tutto, il viso.
Era un viso brutto e gaio, ridicolo e
geniale, sfavillante di vita: un labirinto di rughe sottili che si contraevano,
si spianavano intorno a due occhietti chiari, ora aperti e gravi, ora stretti,
per ilarità o per collera o per dolore, in due scintille, sempre vivacissimi.
Subiti rossori, soffi di sangue gli salivano dal collo, si spandevano,
sfumavano per la fronte lasciando il giallore di prima intorno al naso, sempre porporino
e lucente. Insomma l'anima del segretario era tutta lì, sul viso; la si vedeva
sentire, dolersi, godere, fremere come un lume agitato dal vento dietro una
tela chiara. Parlava con voce sincera, varia di toni e focosa più di una voce
meridionale, comica spesso nell'accento, nei salti dal basso all'acuto, ma
efficacissima. E parlò molto quella sera a cena, assaggiando appena i cibi,
vuotando spesso il bicchiere. Incominciò con un profluvio di cerimonie, di
amabilità un po' rigide, esagerate, che non trovavano eco nel riserbo freddo
dell'ospite; entrò quindi in qualche discorso generale, parlò dell'Italia da
uomo che, avendo veduti molti costumi e molte città, possiede larga conoscenza
d'uomini e di cose contemporanee, e porta in ogni argomento, con tranquilla
sicurezza, giudizi insoliti, vedute nuove che forse non reggono sempre alla
critica pacata, ma sorprendono il volgo. Non mostrava però lo scetticismo di
chi ha viaggiato molto, né la manifesta propensione al nihil admirari.
Tutt'altro; le cavità sonore della sua gola eran piene di vocali esclamative
ch'esplodevano ad ogni momento. Quel commensale gli doveva esser molto
simpatico per mettergli tanta parlantina, serbando dal canto suo un contegno
asciutto che poteva parere altero. Il segretario lo guardava con occhi sempre
più dolci, più affettuosi, insisteva perché pigliasse di questo e di quello,
cominciava ad arrischiare qualche famigliarità, qualche domanda che lo
costringesse ad uscire dalle sue trincee.
«E che cosa si dice a Milano» esclamò
a un tratto gittandosi addietro sulla spalliera della seggiola e piantando
ritti sull'orlo della mensa forchetta e coltello stretti ne' pugni, «cosa si
dice a Milano di Ottone il Grande?»
Vista la stupefazione dell'ospite a
tale inattesa domanda, diede in una grottesca risata. «Io voglio parlare di
questo Bismarck» soggiunse poi pronunciando la parola Bismarck a gola
piena, con un fremito di voluttà da' capelli a' piedi, come se, nella tortura
del parlare italiano, quelle due sillabe gli portassero un refrigerio, un
soffio d'aria natía.
Il nobile conte era ancor lontano in
quella notte estiva del 1864 dal successo e dalla gloria: ma il suo compatriota
ne parlò, senz'attendere risposta, per dieci minuti, con foga, con ammirazione
mista di odio e di terrore.
«In Europa lo credono un pazzo»
conchiuse. «Ma per Dio...! Wir haben sechs und dreissig Herren, signor. Un
altro pezzo di questa trota? Noi abbiamo trenta e sei padroni; vedremo fra
dieci anni. Avete mai bevuto Johannisberg? È una vergogna per quest'uomo che il
primo vino del mondo si fa in Germania e non è suddito del suo re. Non è uomo
da soffrire lungamente simili cose!»
«Oh» esclamò il loquace segretario
cacciandosi le mani nei capelli, tirandoseli su fra le dita con uno slancio di
desiderio. «Oh, questo Johannisberg, oh!» E stringeva ridendo gli occhietti
brillanti come se assaporasse il nettare sospirato. «In una stanza Voi sentite
se si è sturata una bottiglia di Johannisberg. Un altro bicchiere, signor; io
prego. È solamente Sassella e non ha più odore che se fosse acqua, ma per vino
italiano può passare. Scusate molto mia franchezza, signor; in Italia il vino
non si sa fare né bere. AF
«Neppur bere?»
«No, oh, no, neppure bere.
Wenig nur verdirbt den Magen
Und zu viel erhitzt das Haupt.
Voi conoscete la mia lingua? No? Bene, è Goethe che dice questo: <Poco
guasta lo stomaco e troppo infiamma la testa>. Gl'Italiani o s'ubbriacano o
bevono acqua. Dico per esagerazione, signor, per esagerazione. Bere una
bottiglia al giorno è come bere acqua. I più savi lo bevono per igiene del
ventricolo; capite? Nessuno per igiene del cuore, ad exhilarandum cor!
Ridete? Siamo così tutti un poco latinisti in Germania, anche questi pitocchi e
questi cani principi! Ebbene, tutti dovrebbero bere fino alla letizia, nessuno
fino alla pazzia. Il vino è una gioventù perpetua. Finché io vivo voglio avere
vent'anni per tre o quattro ore al giorno; ma io non ne avrò mai dieci: questa
è la differenza.»
Intanto il limpido Sassella scendeva
dalle bottiglie, gli anni del segretario si staccavano, spiccavano il volo, a
quattro a quattro, dalle sue vecchie spalle. Queste si rialzavano baldanzose
dalla virilità declinante alla perfetta, che poi cedeva alla giovinezza matura.
Scendeva il limpido Sassella; ed ecco arrivare l'età felice degl'impeti
subitanei d'affetto, del facile intenerirsi, delle pronte e cieche amicizie. Il
segretario stese le braccia, porse la barba sveva verso il compagno suo
temperante e taciturno, gli afferrò una mano con ambe le proprie, gliela
strinse forte.
«Perbacco, signor, non avremo diviso
il pane e il vino senza sapere i nostri nomi, eh? Il signor conte mi ha ben
detto il Vostro, ma l'ho dimenticato.»
«Corrado Silla» rispose il giovane.
«Silla, ah, Silla, bene. Io spero che
non scriverete mai sulle Vostre liste di proscrizione Andreas Gotthold
Steinegge di Nassau, bandito dal suo collegio per aver troppo amato il vino,
dalla sua famiglia per aver troppo amato le donne, dal suo paese per avere
troppo amato la libertà. Sapete, caro signor Silla, l'ultima è stata la pazzia.
Oh, adesso sarei Kammerrath a Nassau, come il fu Steinegge mio padre, o
colonnello come quella canaglia di mio fratello. Ma la libertà, die Freiheit,
capite? È una parola pneumatica.»
Detto questo, il signor segretario
abbracciò rapidamente con ambo le mani la seggiola, se la portò indietro con
impeto; poscia, incrociate le braccia, stette a guardar Silla, che non capiva.
«Come, una parola pneumatica?»
«Oh, già! già! Voi non capite?
Infatti è un poco difficile. Ci sono, carissimo amico signor Silla, le parole
algebriche, le parole meccaniche e le parole pneumatiche. Io vado a spiegarvi
questo che mi ha insegnato un amico mio di Wiesbaden, fucilato dai maledetti
prussiani nel 1848. Le parole algebriche discendono dal cervello e sono segni
di equazione tra il soggetto e l'oggetto. Le parole meccaniche sono formate
dalla lingua come articolazioni necessarie del linguaggio. Ma le parole pneumatiche
vengono bell'e fatte dai polmoni, suonano come strumenti musicali, nessuno sa
cosa vogliano dire e ubbriacano gli uomini. Se invece di Freiheit,
invece di libertà si dicesse una parola di dieci sillabe, quanti eroi e
quanti matti di meno! Sentite, carissimo giovane, io sono vecchio, io sono
solo, io non ho denaro, io potrò morire sulla strada come un cane, ma se
stanotte mi dicessero: Steinegge, alter Kerl,vuoi servire domani la
reazione, essere Kammerrath a Nassau, sedere al tuo focolare, vedere tua
figlia che non vedi da dodici anni, io, vecchio pazzo, direi: <No, per Dio!
Viva la libertà>.»
Diede un gran pugno sulla tavola,
ansando, soffiando rumorosamente con le nari, a bocca chiusa.
«Bravo!» esclamò Silla, commosso suo
malgrado. «Vorrei essere un vecchio pazzo come Lei.»
«Oh, no, no, non desiderate questo!
Non dite questo così a cena! Bisogna sapere quanto costa di gridare <viva la
libertà> e quanto vale, oh! Non parliamo.»
Seguì un momento di silenzio.
«Lei è del Nassau?» disse Silla.
«Sì, ma lasciamo; questa è un'idea
triste. Io non voglio idee tristi, io sono molto ilare adesso, molto felice,
perché voi mi piacete immensamente, sì, sì, sì, sì!»
Batteva e ribatteva il mento al
petto, come se avesse una molla nella nuca; scintille di riso gli schizzavano
dagli occhi.
«Voi non partirete già domani»
diss'egli.
«Ma! Lo vorrei certo.»
«Oh, il signor conte non Vi lascerà.»
«Perché?»
«Perché io credo che Vi vuole molto
bene.»
«Se non mi conosce neppure!»
«Uuuh, ffff» sibilò Steinegge
chiudendo del tutto gli occhi e chinandosi fino a metter la barba nel piatto,
con le braccia allungate sotto la tavola.
Pareva un testone di gnomo.
«Mi conosce?» disse Silla.
«Io credo che mi ha parlato per
un'ora di Voi oggi.»
«E che cosa Le ha detto?»
«Ah!» esclamò il segretario
rizzandosi e alzando le mani al soffitto «non sono a questo punto, signor, non
sono a questo punto. Vi è ancora posto per molto Sassella fra la vostra domanda
e la mia risposta.»
Diede di piglio alle due bottiglie,
fece atto di pesarle, le scrollò e le depose. Erano vuote.
«Non vi è più amicizia» diss'egli
sospirando «né sincerità, né cuore. È forse meglio di andare a letto, signor.»
Benché sul pianerottolo della scala,
fra il primo e il secondo piano, un orologio da muro suonasse il tocco e mezzo
quando Silla si trovò nella stanza che gli era stata assegnata, egli non aveva
punto sonno. Ritto in piedi e immobile, fissava la fiammella della candela,
come se quella chiara luce avesse potuto dissipare le ombre del suo cervello.
Si scosse a un tratto, pigliò il lume e intraprese un viaggio che riuscì forse
meno istruttivo, ma più commovente di quell'altro famoso del conte De Maistre.
La stanza era grande, alta e quadrata. Un pesante letto di legno scolpito; di
fronte al letto, fra due larghe finestre, un cassettone coperto di marmo
bianco; sopra il cassettone, una cornice dorata intorno a certa figura curiosa,
mezza in luce, mezza in ombra, che si moveva con una candela in mano; una
scrivania; alcune grandi seggiole a bracciuoli: ecco quanto uscì dall'ombra
sotto il lume indagatore che andava lungo le pareti, ora salendo, ora
scendendo, ora a curve, a zig-zag come un fuoco fatuo, non
senza molte incertezze. A capo del letto pendeva un'ammirabile testa d'angelo
pregante, dipinta alla maniera del Guercino. Quasi supina, si sporgeva per
iscorcio. Nella bocca socchiusa, nelle nari dilatate, negli sguardi, direi
quasi veementi passava lo slancio della intensa preghiera. Si sarebbe detto che
quei guanciali fossero usi sorreggere la testa di grandi peccatori, e che nelle
ore del sonno, quando giacciono interrotte le immagini e le opere della colpa,
uno spirito pietoso alzasse le grida a Dio per costoro. La fiammella della
candela di Silla pareva affascinata da quel quadro. Se ne ritraeva talvolta con
impeto, ma per fermarsi tosto e tornargli appresso e percorrerlo di su, di giù,
per ogni verso, guardarlo da destra, guardarlo da sinistra. Poi se ne staccò
lentamente e rifece la via di prima, quasi ne fosse rimasta in aria la traccia,
seguendo le stesse giravolte, prendendo le stesse salite e le stesse discese.
Stavolta qualche cosa era mutato lungo la via. Quando il lume giunse di fronte
a quella tal cornice sopra il cassettone, vi apparve tuttavia dentro la figura
mezza in luce, mezza in ombra; ma non esprimeva curiosità bensì commozione e
stupore. Difatti, se quello specchio avesse potuto serbare le immagini
ripercosse durante la sua vita sterile e vana, vi sarebbero apparse, fra le
altre, una testa malinconica di donna, una testolina gaia di fanciullo molto
simili tra loro nei lineamenti e negli occhi. Come talvolta in un'acqua cheta
le montagne si contemplano ridenti al mattino, indi la nebbia le invade e le
oscura sì che lo specchio pare voltato col piombo all'insù; finalmente quel
velo si solleva alquanto e ricompaiono nell'acqua le facce brune dei monti;
così ricompariva nel vetro fedele, dopo molti anni, la immagine del fanciullo,
fatta pensoso viso virile.
Silla si voltò, si avvicinò tremando
al letto, lo guardò lungamente; deposta la candela a terra, giunse le mani, si
piegò a baciare il legno freddo e lucente. Poscia, rialzatosi, uscì in due
salti sulla scala, senza prendere il lume. Un cieco istinto lo spingeva a
cercare il conte sull'istante, a parlargli. Ma tutto era buio e silenzioso, non
si udiva che il tic-tac dell'orologio. Il signor Steinegge
era già sicuramente a letto; e poi, avrebb'egli saputo rispondere? Silla tornò
pian piano in camera. Sul chiarore della candela, posata a terra di là dal
letto, questo si disegnava come un gran dado nero. Se qualcuno vi fosse stato a
giacere, non lo si sarebbe visto; e la fantasia di Silla poteva ben comporvi
tal persona che vi aveva riposato un tempo, raffigurarvela malata, schiva del
lume triste, sopita forse, ma viva. S'avvicinò al letto in punta di piedi, vi
si buttò su a braccia distese.
Ella dormiva altrove, in una camera
più angusta, sopra un letto più freddo, la madre sua pura e forte; ma a lui
pareva sentirvela ancora; si sentiva tornare nel cuore la fanciullezza, tante
minute memorie del letto e della stanza, l'odore di una cassettina di sandalo
cara a sua madre, tante parole indifferenti di lei, della gente di casa, tanti
diversi aspetti di quel viso scomparso. Quando si rialzò e, tolta la candela,
si guardò attorno, gli parve impossibile non avere riconosciuto a prima giunta
il quadro, le sedie, lo specchio, che lo guardavano tutti, ne lo
rimproveravano.
Ma come mai, pensava Silla, come mai
quegli arredi dell'antica stanza di sua madre si trovavano essi lì, in una casa
sconosciuta, presso un uomo di cui egli non aveva mai veduto il viso, né
tampoco udito proferire il nome da chicchessia? Veramente erano stati venduti
parecchi anni prima della morte di sua madre, e il conte d'Ormengo poteva bene
averli acquistati per caso. Per caso? A no, non era possibile.
Sedette alla scrivania, trasse dal
portafogli una lettera di gran formato, la lesse, la rilesse con attenzione
febbrile.
Diceva così:
«R........ 10 agosto 1864
Signore, Noi non ci siamo mai visti e
Lei, molto probabilmente, non ha mai inteso il mio nome, benché appartenga a
una vecchia razza italiana che lo ha sempre portato in casa e fuori, a piedi e
a cavallo, molto come si deve. È tuttavia necessario, per Lei e per me, che noi
ci parliamo. Siccome io ho cinquantanove anni, Lei verrà da me.
Troverà un calesse posdomani sera
alla stazione di... sulla linea Milano-Camerlata; e troverà alla mia casa
l'ospitalità poco cerimoniosa che io pratico con gli amici più saldi, i quali
hanno poi la compiacenza di rispettare le mie abitudini. Mi permetto di dirle
che vi è tra queste l'abitudine di aprire la finestra se un camino fuma in casa
mia, e di aprire, se vi fuma un uomo, la porta.
Io l'aspetto, caro signore, nel mio
romitaggio.
Cesare d'Ormengo.»
Null'altro. La sapea pure a memoria
quella lettera, ma avrebbe voluto cavarne fuori qualche parola sdrucciolata
forse dietro le altre, scoprirvi, battendo e origliando a' vocaboli, delle
cavità coperte, de' doppi fondi. Nulla; ossia il doppio fondo v'era e si
sentiva; ma tanto fondo da non potervi arrivare né mano, né occhi.
Era un amico o un nemico, questo
signore che gli gettava silenziosamente in viso la memoria di sua madre e del
tempo felice?
Nemico no. Scriveva con la franchezza
rude d'un gentiluomo antico; i suoi grandi caratteri inclinati nell'impeto
della corsa, spiravano sincerità. La sua ospitalità era poco cerimoniosa
davvero; non lasciarsi vedere! Anche per questo bisognava credere alle parole
cordiali che ne accompagnavano l'offerta; originale, dunque, ma benevolo.
E quali ragioni poteva egli aver
avuto di raccogliere quegli oggetti in casa sua, tanti anni addietro, e di
chiamar lui, adesso, a colloquio? Mai, mai Silla non aveva udito quel nome né
da sua madre, né da suo padre, né da altri. Lasciò cadere la lettera e si
coperse il viso con le mani. Un barlume sorgeva nella sua mente. Forse un
barlume del vero, sì. Quegli arredi erano stati venduti all'indomani di un
rovescio economico; certa gente di rapina, Silla lo ricordava confusamente, era
calata in casa sua nell'interesse proprio o di potenti creditori, che si
tenevano all'ombra per essere amici di famiglia o per altre men disoneste
ragioni; oltre allo sperpero de' beni stabili, quadri e suppellettili di gran
valore erano state portate via a vilissimo prezzo, rubate quasi in un piglia
piglia indecente. Il conte d'Ormengo poteva essere stato uno dei creditori,
avere troppo approfittato in quei momenti dell'opera di qualche rapace agente,
desiderare adesso di aggiustare i conti con la propria coscienza. Qualcuno
forse gli aveva detto ch'egli, Silla, era rimasto senza impiego, e versava in
angustie. Perciò s'era fatto avanti, parlava di necessità per l'uno e per
l'altro, inalberava sulle prime righe della sua lettera la bandiera
dell'onoratezza; e l'avergli assegnata quella camera era un modo d'entrare in
discorso prima di vedersi.
Il rumore sordo di un passo sopra la
sua testa lo scosse. Stette alquanto in ascolto e gli parve di udir aprire una
finestra. La sua camera ne aveva due: pensò un momento e ne aperse
risolutamente una.
Rimase stupefatto, con le mani alle
imposte. Il cielo era lucido come il cristallo. La luna falcata sorgeva a
sinistra sopra alte montagne, illuminava debolmente a' lati della finestra una
grande muraglia grigia, severi profili di altre finestre; la grande muraglia
cadeva a piombo in uno specchio terso d'acqua distesa e chiara a ponente verso
umili colline, oscura dall'altra parte. Si udivano alle spalle stormire foglie
non viste; soffi leggeri correvano, si spandevano, svanivano sull'acqua.
«Piace?» disse una voce che partiva
dall'alto, un po' alla destra di Silla. «Un piccolo Föhn, un piccolo Föhn.»
Era la voce di Steinegge che, appollaiato lassù a una finestra, fumava come un
piroscafo. Il conte dormiva molto lontano e molto sodo, se il suo segretario si
attentava di parlar così a voce alta, malgrado il silenzio notturno e la eco
sonora del lago sottoposto. Egli si affrettò di raccontare a Silla ch'era stato
in galera a Costantinopoli per cause politiche e che le maledette sentinelle
turche gli rompevano il sonno ogni due ore col loro fastidioso grido:
Allah-al-Allah! Da quel tempo gli era rimasta l'abitudine
di svegliarsi ogni due ore per tutte le notti. Veniva alla finestra in camicia
e fumava: guai se lo sapesse il conte! Egli era stato avvezzo a fumare sino a
diciotto virginia il giorno, quando serviva, come capitano, negli usseri
austriaci, prima del 1848. Aveva passato poi qualche giorno senza mangiare,
senza tabacco mai. Il regime del conte lo faceva soffrire, gli metteva i nervi
sossopra.
«La prego» gli disse Silla,
interrompendone le chiacchiere «sa Lei perché il signor conte mi abbia fatto
venire?»
«Voglio tornare in galera turca se so
una parola sola, signor. So che il signor conte Vi conosce; non altro.»
Silla tacque.
«Aaah! - Aaah! - Aaah!» soffiava
Steinegge esalando fumo e beatitudine.
«Che lago è questo?» disse il primo.
«Non sapete? Non siete mai stato?
Molti, moltissimi italiani non sanno, io credo, che vi è questo piccolo lago. È
curioso che lo deva io insegnare a Voi.»
«Dunque?»
«Oh, il diavolo!»
Un colpo di vento sul viso strappò
quella esclamazione a Steinegge che fu appena in tempo di gettare il sigaro e
di chiudere la finestra. Il sigaro passò come una stella cadente sugli occhi di
Silla, i vetri suonarono in alto, le foglie stormirono dietro la casa.
Steinegge, tremando d'aver lasciato entrare una boccata di fumo, fiutando
l'aria infida, tornò a letto, a sognar che usciva dalla galera turca e che il
padischah sorridente gli offriva la sua pipa imperiale colma di buon tabacco di
Smirne.
Silla rimase lungo tempo alla
finestra. La notte pura, il vento, l'odor delle montagne lo ristoravano, gli
versavano silenzio nei pensieri, pace in fondo al cuore. Non si avvedeva,
quasi, del passar del tempo, seguiva con attenzione inconscia i ghiribizzi del
vento sul lago, le voci, il sussurro del fogliame, il viaggio della luna
limpida. Udì una campana solenne suonar le ore da lontano. Le due o le tre? Non
sapeva bene, si alzò sospirando e chiuse la finestra. Bisognava coricarsi,
riposare un poco per avere la mente lucida all'indomani quando si troverebbe
con il conte. Ma il sonno non veniva. Riaccese il lume, camminò un pezzo su e
giù per la stanza; non giovava. Cercò risolutamente ricordi e pensieri lontani
dalle incertezze presenti, e parve finalmente aver trovato qualche cosa, perché
sedette alla scrivania, e, dopo riflettuto a lungo, scrisse, interrompendosi
cento volte, la seguente lettera:
«A Cecilia,
«Fu il mio libro Un sogno, che
mi ottenne, signora, l'onore gradito della Sua prima lettera. Mentre Le
rispondevo facevo appunto un sogno, un altro sogno assai migliore, assai più
alto del libro. Le dirò quale? No. La farei sorridere; ora lo pseudonimo che
sta in fronte a quel libro e a piè di questo scritto copre uno spirito non vano
ma orgoglioso. Ebbi la Sua seconda lettera, e, come molte illusioni che hanno
già tentato e deriso la mia giovinezza, anche quel sogno si è perduto davanti a
me; io vedo vuota, squallida, senza fine la via faticosa. Noi non ci possiamo
intendere e ci diciamo addio; Ella nascosta nel Suo domino elegante, Cecilia,
io chiuso nel mio Lorenzo ch'Ella dice volgare e mi è caro per essere
stato portato qualche giorno, cinquant'anni addietro, da un grande poeta che io
amo. Per parte mia, nessuna curiosità mi pungerà mai, signora, a ricercare il
Suo nome vero; Le sarò grato s'Ella non farà indagini per conoscere il mio.
«Quando Ella mi scrisse chiedendomi
la mia opinione sulla libertà umana e sulla molteplicità delle vite terrestri
di un'anima, pensai che solo una donna di gran cuore, poiché si diceva dama,
potesse commuoversi di problemi tanto superiori alle cure consuete del volgo
signorile. Mi parve intendere che la Sua non fosse vaghezza di mente oziosa che
tra un piacere e l'altro, forse tra un amore e l'altro, entra per capriccio a
veder cosa fa chi pensa, studia e lavora; e, per capriccio, vuole assaggiare il
liquore amaro e forte della filosofia o della scienza. Dubitai persino che
qualche avvenimento della Sua vita, taciuto da Lei, Le avesse posto in cuore il
sospetto, l'ombra di quegli arcani intorno ai quali mi domandava un giudizio. E
risposi con folle ardore, lo confesso, con una ingenuità di espressione che
dev'essere di pessimo gusto nel Suo mondo falso, perdoni la licenza d'una
maschera che non vuole offender Lei, nel Suo mondo falso, dove le donne
dissimulano le rughe e gli uomini la giovinezza. È vero, ho fatto da zotico
borghese che stende amichevolmente la mano a una nobile signora cui non fu
presentato. Ella ritira la Sua, mi punge con piccoli spilli brillanti che non
fanno sangue ma dolore, mi sprizza in viso il Suo spirito, lo spirito di cui
vive la intelligenza della gente raffinata sino alla massima sottigliezza e
leggerezza, come certe creature gracili vivon di dolci. Io apprezzo e non stimo
lo spirito, signora; peggio s'è spirito alla francese come il Suo, scettico e
falso. Eccolo là davanti a me nello specchio d'un'acqua che ondulando sotto la
luna ne volge il dolce lume in vano riso e in fugaci scintille. I Suoi sarcasmi
non mi feriscono; sarò cinico; dirò che ho visto delle donne prese, forse
malgrado loro, d'amore, difendersi così, come poveri uccellini prigionieri, a
beccate innocue; ma davvero non era una flirtation da ballo in maschera
che mi poteva tentare; era la corrispondenza intima, seria con un'anima
appassionata per quelle stesse alte cose che affascinano il mio pensiero. Avevo
deciso di non risponderle più; attribuisca questa lettera ad una notte insonne,
in cui mi giova riposare il cuore stretto da certe penose incertezze. Non
ricordo se ci siamo incontrati mai in una vita anteriore; non so quale
aristocratica stella di madreperla sarà degna di accogliere Lei quando avrà
fuggito questo nostro borghese pianeta ammobigliato, questo sucido astro di
mala fama dove non c'è, per una dea, da posare il piede; ma...»
Forse venne meno in quel punto il
lume della candela, o una nube di sonno si levò finalmente nel cervello dello
scrittore. Comunque fosse, al mattino Silla dormiva e a mezzo foglio si
protendeva tuttavia nel vuoto come una lama dentata in atto di ferire,
l'ambigua parola: ma...
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