Capitolo III
FANTASMI DEL PASSATO
Il sole era
tramontato e le cicale non cantavano più. La costa boscosa in faccia alla
biblioteca si disegnava nera sotto il limpido cielo aranciato che posava un
ultimo lume caldo sul pavimento della sala presso alle finestre, e, fuori,
sulle foglie lucide brune della magnolia, sulla ghiaia del giardinetto. Per la
porta aperta entrava l'aria fresca del vallone e lo stridìo dei passeri intorno
ai cipressi.
Il conte, seduto allo stesso posto
della mattina, si teneva coperto il viso con ambe le mani appoggiando i gomiti
al tavolo. Silla, in faccia a lui, aspettava che parlasse.
Ma il conte pareva di pietra; né
parlava, né si moveva. Solo qualche volta le otto magre dita nervose si
alzavano dalla fronte tutte insieme, si tendevano; poi, ripiegandosi, parevano
volersi imprimere nell'osso. Silla guardava rotear sul pavimento l'ombra d'un
pipistrello che non trovava la via di uscire, batteva le librerie, il soffitto
angosciosamente.
Anche dentro alla fronte severa del
vecchio gentiluomo v'era un'angoscia di parole che non trovavan la via di
uscire. Era l'ora che turba il cuore; quell'ora in cui, mancando la luce, le
cose e le anime si sentono libere, quasi, da una vigilanza fastidiosa; i monti
paiono coricarsi a grande agio sul piano, le campagne dilagano sopra i villaggi
e casali, le ombre pigliano corpo, i corpi sfumano in ombra, nel cuore umano
affondano le impressioni, i pensieri del presente, e vien su un movimento
confuso di ricordanze lontane, di fantasmi che inteneriscono e fanno sospirare
in silenzio.
Ad un tratto il conte alzò con impeto
il viso e disse:
«Signor Silla!»
Tacque un momento e riprese
lentamente:
«Quando avete letto la mia lettera,
il nome che vi trovaste sotto Vi era sconosciuto?»
«Sconosciuto.»
«Non era nella memoria Vostra la
traccia più lieve di questo nome?»
«Nessuna.»
«Dalle persone con le quali avete
vissuto non udiste mai parlare di qualcuno il cui nome non era pronunciato e
che avrebbe potuto trovarsi un giorno nelle circostanze più difficili della
vita?»
«No. Da chi ne avrei inteso parlare?»
Il conte esitò un istante, poi ripeté
a voce bassa:
«Dalle persone con le quali avete
vissuto.»
«Mai.»
«Vi ricordate almeno di aver veduta
la mia fisionomia?»
Silla era sorpreso di tanta
insistenza.
«Ma no» diss'egli.
«Eppure» ripigliò il conte «or sono
diciannove anni, un giorno in cui vi si era punito severamente per avere
spezzato un vaso di cristallo, all'uscire da uno stanzino buio, dove Vostro
padre vi aveva tenuto chiuso per parecchie ore, vedeste un momento il mio
ritratto.»
Silla balzò in piedi; il conte si
alzò pure e, dopo un momento di silenzio, girato il tavolo, andò a piantarsi
presso il suo interlocutore, voltando il viso al chiarore morente del
crepuscolo.
«Vi ricordate?» diss'egli.
Silla rispose stupefatto. Non
ricordava il ritratto, ma sapeva benissimo d'aver spezzato il vaso di cristallo
e d'essersi rifugiato, dopo il castigo, nella stanza di sua madre.
«Vedete che Vi conosco da lungo
tempo. Ne dubitate? Adesso vado a dirvi quello che so di Voi.»
Il conte si pose a camminare su e giù
parlando. Si udiva il suo vocione andare e venire per la sala piena d'ombra: si
vedeva la sua figura bizzarra illuminarsi e oscurarsi a vicenda, quando passava
davanti alle finestre.
«Voi siete nato nel 1834 a Milano, in
via del Monte di Pietà. Vostra madre Vi diede il suo latte, Vostro padre vi
diede una culla d'argento e una bambinaia brianzuola che doveva esser creduta
dal mondo la Vostra balia. Questa donna è morta appena lasciato il Vostro
servizio. Voi non la potevate soffrire, non è vero?»
«Non lo ricordo; me l'hanno detto,
però; me l'ha detto più volte mia madre.»
«Sicuramente. Volete sapere qual è il
Vostro ricordo più lontano? Questo. Avevate cinque anni. La sera di un giorno
in cui vi era stato in casa Vostra un insolito affaccendarsi di servi, un
trambusto d'operai e si eran portate montagne di dolci e di fiori, Vi posero a
letto prima dell'ora solita. A tarda notte foste svegliato da un suono di
musica. Poco dopo, l'uscio della camera si aperse. Vostra madre venne a
chinarsi sopra di Voi, Vi baciò e pianse.»
«Signor conte!» esclamò Silla con
voce soffocata «come fa Lei a sapere queste cose?»
«Alcuni anni più tardi» continuò
senz'altro il vocione del conte «quando Voi ne avevate tredici, nel 47 insomma,
avvenne in casa Vostra qualche cosa di straordinario.»
Il vocione tacque, il conte si fermò,
lontano da Silla, con le spalle alla porta del giardinetto.
«Non è vero?» diss'egli.
Silla non rispose.
Il conte riprese la sua passeggiata.
«È forse crudele» proseguì «di
ricordare queste cose, ma io non sono amico di certe mollezze sentimentali
moderne; io credo che è molto bene per l'uomo di ripassare ogni tanto le
lezioni e i precetti ch'egli ha avuto, direttamente o indirettamente, dalla
sventura, e di non lasciarne estinguere, di rinnovarne il dolore, perché è il
dolore che li conserva. E poi il dolore è un gran ricostituente dell'uomo,
credete; e in certi casi è un confortante indizio di vitalità morale, perché
dove non vi è dolore, vi è cancrena. Dunque, nel 47 accadde in casa Vostra
qualche cosa di straordinario. Andaste a dimorare parecchi giorni a Sesto, in
casa C... La carrozza che vi ricondusse a Milano, si fermò davanti ad un'altra
casa, in via Molino delle Armi. Era una casa molto diversa da quella del Monte
di Pietà e vi avete fatto una vita molto diversa. Non più servi, non più ricche
suppellettili. Voi sapete, una parte di quelle suppellettili, dove si trova.»
«Ma come?...» interruppe Silla.
«Furono vendute, naturalmente.»
«Ma perché Lei?...»
«Quello è diverso, ne parleremo in
seguito. Cosa dicevo? Ah, Voi siete dunque andato ad abitare un quinto piano in
via Molino delle Armi. Dalla finestra di una camera da letto si vedevano queste
montagne. Lassù avete cominciato a fare anche Voi il solito sogno di diventare
qualche gran cosa e di empire il mondo del Vostro nome.»
«Signor conte» disse Silla «mi pare
che basti. Dica cosa desidera da me!»
«Più tardi. Non è vero che basti.
Vado a dirvi dei fatti della Vostra vita che non sapete Voi stesso. Vi è dunque
venuta questa salutare follìa della gloria, che Vi ha preservato, con una
promessa fatta di niente, dalle solite corruzioni. Sciaguratamente avete
pensato a procacciarvi la gloria con gli scritti invece che con le azioni.
Lasciatemi dire; sono un vecchio. Con gli scritti letterari, poi! E non avete
avuto la forza di carattere, la fiducia in Voi stesso che ci voleva per seguire
da uomo questo proposito. Invece di chiudervi nel Vostro bozzolo della
letteratura, siete andato a Pavia. Cosa avete studiato a Pavia?»
«Leggi.»
«Tutto fuorché leggi avete studiato.
Lo so, volevate una carriera proficua, pensando a Vostra madre; ma allora
bisognava volere virilmente; tagliarsi via mezzo il cuore e andare avanti col
resto. Cosa avete fatto al Vostro ritorno da Pavia? Avete pubblicato un
romanzo. Ecco il fatto che non sapete. Quel poco di oro che Vostra madre Vi
diede perché servisse alla stampa del libro, non era punto, come ella Vi disse
e Voi avete creduto, un dono de' suoi parenti; il giorno prima ell'aveva
portato al gioielliere i suoi ultimi brillanti, una memoria cara di famiglia.»
«Il Suo diritto?» esclamò Silla
slanciandosi verso il conte. «Il Suo diritto di sapere queste cose?»
«Il mio diritto? Questione molto
oziosa. Vostro diritto è sicuramente di vedermi in faccia.»
Il conte suonò.
Silla taceva, ansante. Il conte andò
ad aprire l'uscio, e aspettò fin che udì il passo nel corridoio.
«Lume!» diss'egli; e andò a sedersi
al tavolo.
«Non è vero, non è vero!» disse Silla
sottovoce. «Non fui questo sciagurato ch'Ella dice! Me lo provi, se può.»
Il conte non rispondeva.
«Io» continuò Silla «che avrei dato
il sangue per mia madre, che l'adoravo, che non volevo neppure quel denaro
perché i parenti di mia madre non potevano soffrire ch'io scrivessi, e,
conoscendoli, temevo s'irritassero contro mia madre per causa mia!»
Il conte si pose l'indice alle
labbra. Un domestico entrò con il lume, lo pose sul tavolo e si ritirò.
«Quando io affermo una cosa, mio caro
signore» disse il conte «è provata.»
«Ma in nome di Dio, chi!...»
«Adesso lasciamo stare. Io non voglio
accusarvi di avere accettato un sacrificio simile. Voi non lo sapevate. Del
resto la vita è così. Vi è sempre nei giovani questa baldanza ridicola di
credere che la terra è beata del loro piede e il cielo del loro sguardo, mentre
i loro genitori pestano fango e spine per portarli avanti, nascondendo quello che
soffrono proprio negli anni in cui il loro corpo invecchia, il loro spirito è
stanco, e tutte le dolcezze della vita, ad una ad una, se ne vanno.»
«Dio! Se fosse vero, mi vituperi,
m'insulti!»
«Io non Vi ho fatto venire in casa
mia per vituperarvi. E poi, se avrete figli, pagherete. Bisognerebbe vituperar
Voi, me e tutta questa buffonesca razza umana. Proseguiamo. Il Vostro libro non
ebbe fortuna; per verità mi pare di potermi rallegrare con Voi, che la fortuna
non è Vostra amica. Nel 58...»
Il conte si fermò e poi riprese a
voce bassissima:
«Non è a temere che Voi dimentichiate
mai il colpo che riceveste nel 1858.»
Tacque daccapo, e per qualche momento
durò non interrotto il silenzio.
«Devo pur dirvi, a questo punto»
riprese il conte «che se io V'intrattengo sui casi della Vostra vita oltre
quanto sarebbe necessario per dimostrare che Vi conosco bene, si è perché
intendo di meglio giustificare in tal modo le proposte che vado a farvi.
Dunque, nel 59 avete fatto il Vostro dovere e Vi siete battuto per l'Italia.
Vostro padre...»
«Signor conte!»
«Oh, Voi mi conoscete molto male se
potete credere che io voglia offendere davanti a un figlio la memoria di suo
padre, anche se quest'uomo ha commesso degli errori e ha meritato delle
censure. State tranquillo. Vostro padre non era più a Milano quando vi siete
tornato Voi. Era nel paese straniero dove intendo che ha cessato di vivere due
anni sono, nel maggio del 62. Vi trovaste solo colla Vostra letteratura. Allora
foste improvvisamente chiamato a insegnar lingua italiana, geografia e storia
in un istituto privato, di cui non conoscevate neppure il nome. Avete mai
saputo come quei signori abbiano scelto appunto Voi?»
«No.»
«Non importa. In quel tempo avete
avuto una offerta dai parenti di Vostra madre, dai Pernetti Anzati, non è vero?
Volevano che entraste nella loro Filatura e Vi offrivano un lauto assegno; non
è così?»
«Sì, ma è forse Lei che mi ha fatto
eleggere?...»
«Non importa, Vi dico. Avete
rifiutata l'offerta dei Pernetti Anzati. Fatto bene, molto nobilmente. Meglio
un lavoro che frutta poco pane e molta civiltà, di un lavoro che converte in
denaro il tempo, la salute e una buona parte dell'anima. Ma adesso l'istituto
al quale appartenevate ha fatto cattivi affari e venne chiuso. Io credo che Voi
non sarete malcontento di occuparvi in qualche altro modo degno, ed è per
questo che Vi ho pregato di venire da me.»
«La ringrazio» rispose Silla asciutto
asciutto. «Prima di tutto, posso vivere.»
«Oh!» interruppe il conte. «Chi parla
di questo? Lo so benissimo. I Pernetti Vi passano l'interesse di una parte
della dote di Vostra madre che si trattennero sempre, un migliaio e mezzo di
lire circa. E poi?»
«E poi» proruppe Silla con forza
«voglio sapere finamente chi è Lei, perché si occupa di me!»
Il conte indugiò un poco a
rispondere.
«Io sono un vecchio amico della
famiglia di Vostra madre, e Vi porto molt'affezione per la memoria di persone
che mi furono assai care. Le circostanze della vita ci hanno tenuti lontani
fino ad oggi; un male che noi ripareremo. Vi basta quello?»
«Perdoni, non mi può bastare; è
impossibile!»
«Ebbene, mettiamo un poco da parte la
mia amicizia. In fine dei conti non è un beneficio che io Vi offro, è un favore
che Vi domando. Io so che avete molto ingegno, molta cultura, che siete probo e
che Vi è mancata la Vostra occupazione ordinaria. Io ho a proporvi un lavoro di
lunga lena, mezzo scientifico mezzo letterario, di cui ho raccolto i materiali
e che amerei fare io stesso se fossi mai stato uomo di penna, o almeno, se
avessi l'età Vostra. Questi materiali sono tutti qui, presso di me, e io
desidero mantenere una continua comunicazione d'idee con la persona che
scriverà il libro, il quale dovrà quindi essere scritto in casa mia. Questa
persona mi farà le sue condizioni, naturalmente.»
«Io non esco di qua, signor conte»
rispose Silla «se Ella non mi dice come ha potuto sapere le cose che ha
narrate!»
«Dunque non volete che trattiamo di
questo lavoro?»
«Così, no.»
«E se io adoperassi i buoni uffici di
una persona che ha grande autorità sopra di Voi?»
«Pur troppo, signor conte, non vi è
nessuno al mondo che abbia grande autorità sopra di me.»
«Io non Vi ho detto che questa
persona sia viva.»
Silla provò una scossa, un formicolìo
freddo nel petto.
Il conte aperse un cassetto del
tavolo, ne trasse una lettera e gliela porse.
«Leggete» diss'egli, e si gettò
addietro sulla spalliera della seggiola con le mani in tasca e la testa china
sul petto.
L'altro afferrò rapidamente la
lettera, ne lesse la soprascritta e fu preso da un tremito violento che gli
tolse di proferir parola. V'era scritto di pugno di sua madre: «Per CORRADO.»
Tremava così forte che poté a mala
pena aprir la lettera. La voce cara di sua madre gli pareva venir dal mondo
degli spiriti per dir parole non potute dire in vita e sepolte nel suo cuore
sotto una pietra più grave di quella della tomba. Le parole erano queste:
«Se ti è cara la memoria mia, se
credi ch'io abbia fatto qualche cosa per te, affidati all'uomo giusto che ti dà
questa lettera. Dal paese della pace dove spero m'abbia posato la misericordia
di Dio quando la leggerai, ti benedico.
«LA MAMMA».
Nessuno dei due parlò. Si udì un
singhiozzo disperato, prepotente; poi più nulla.
Ad un tratto Silla, contro la sua
ragione, contro la sua volontà, il suo cuore istesso, guardò il conte con tale
angosciosa domanda negli occhi sbarrati, che quegli menò un furibondo pugno sul
tavolo esclamando:
«No!»
«Dio! Non ho voluto dir questo!»
gridò Silla.
Il conte si alzò in piedi e allargò
le braccia.
«Amica venerata» diss'egli.
Silla piegò la testa sul tavolo e
pianse.
Il conte aspettò un momento in
silenzio e poi disse a bassa voce:
«Vidi Vostra madre per l'ultima volta
un anno prima del suo matrimonio. Ella mi ha scritto poi molte lettere di cui
Voi eravate il solo argomento. Ecco perché io conosco molti particolari intimi
della Vostra vita. Dopo il 58 sono stato informato da certi amici miei di
Milano. Voi comprenderete facilmente perché abbiate ritrovato in casa mia
quelle suppellettili; esse mi ricordano la persona più virtuosa e più
rispettabile che mi abbia onorato della sua amicizia.»
Silla stese ambedue le mani verso di
lui senz'alzare il capo dal tavolo.
Il conte gliele strinse
affettuosamente, le tenne qualche momento fra le sue.
«Dunque?» diss'egli.
«Oh!» rispose Silla alzando la testa.
Era detto tutto.
«Bene» rispose il conte «adesso
uscite, uscite subito, andate a pigliar aria. Vi faccio accompagnare dal mio
segretario.»
Suonò e fece venire Steinegge che si
mise, tutto sorridente, agli ordini del signor Silla. Egli si professava lieto
dell'onorevolissimo incarico. Non sapeva se gli abiti che si trovava indosso
fossero degni dello stesso onore. Sì? Ringraziava. Se n'andò finalmente con
Silla, strisciando inchini e facendo infinite cerimonie ad ogni uscio, come se
al di là della soglia vi fosse stata una torpedine. Appena uscito dal cancello
del cortile, mutò modi e parole. Prese a braccetto il compagno: «Andiamo a
R...» disse «bisogna bere un poco, caro signor.»
«No» rispose Silla, distratto, non
sapendo ancora bene in che mondo si fosse.
«Oh, non dite no, io vedo. Voi
siete serio, molto serio; io poi sono serissimo.»
Steinegge si fermò, accese un sigaro,
sbuffò una gran boccata di fumo, batté con il palmo della destra la spalla del
suo interlocutore e disse ex abrupto:
«Oggi sono dodici anni, mia moglie è
morta.»
Fece un passo avanti, poi voltossi a
guardar Silla, con le braccia incrociate sul petto, le labbra strette, le sopracciglia
aggrottate.
«Andiamo, voglio raccontarvi questo.»
E, ripreso il braccio di Silla, tirò
avanti a passi sgangherati, fermandosi di tratto in tratto su' due piedi.
«Io, per il mio paese, mi sono
battuto nel 1848, Voi sapete. Io lasciai il servizio austriaco e mi battei nel
Nassau per la libertà. Bene, quando si calò il sipario fui gittato per grazia
alla frontiera con mia moglie e mia figlia. Sono andato in Svizzera. Là ho
lavorato come un cane, col piccone, sopra una linea di ferrovia. Non dico
niente, questo è un onore. Sono di buona famiglia, fui Rittmeister, ma
fa niente, questo è un onore, di aver lavorato con le mie mani. Il male era che
non guadagnavo abbastanza. Pensate, signor, mia moglie e mia figlia pativano la
fame! Allora con l'aiuto di alcuni compatrioti, si andò in America. Sì, signor,
sono stato anche in America, a New York. Ho venduto birra, ho guadagnato. Oh,
andava bene. Es war ein Traum. Sapete? Era un sogno. Mia moglie ammalò
di nostalgia. Si stava bene a New York, si prendevano dollari, si avevano molti
amici. Ebbene, cosa è tutto questo? Partiamo, arriviamo in Europa. Io scrivo a'
miei parenti. Sono tutti reazionari e bigotti; io sono nato cattolico, ma non
credo ai preti; non mi rispondono. Che importava loro se mia moglie moriva?
Scrivo ai parenti di mia moglie. Cose da ridere, signor. Quelli mi odiavano
perché avevan creduto dare la ragazza a un ricco e il poco che mio padre non
aveva potuto togliermi era stato confiscato dal governo. Oh, è bellissima. Però
mio cognato venne a Nancy, dov'ero io. Mia moglie partì con la bambina,
sperando guarire presto e ritornare. L'accompagnai alla frontiera. Stava male;
dovevamo lasciarci a mezzogiorno. Un'ora prima mi abbracciò e mi disse:
<Andrea, ho visto il paese da lontano: basta, restiamo insieme.> Capite,
signor? Voleva morire con me. Otto giorni dopo...»
Steinegge compì la frase con un gesto
e si cacciò a fumare furiosamente. Silla taceva sempre, non gli dava retta,
forse non l'udiva neppure.
«I parenti di mia moglie» continuò
l'altro «hanno preso la bambina. È stata una carità perché la piccina non
sarebbe stata bene con me solo, e con questo pensiero ch'ella si trovava meglio
io ho potuto soffrire molto allegramente. Ma credete che non mi hanno mai data
una notizia? Io le ho scritto ogni quindici giorni, sino a due anni or sono;
non mi ha risposto mai. Potrebbe anche non essere più al mondo. Cosa è questo?
Si beve, si fuma, si ride, ooh!»
Dopo questo epilogo filosofico il
segretario tacque. Era notte oscura. La stradicciuola tagliava per isghembo un
pendìo cespuglioso dal vallone del Palazzo alle prime nere casupole di R...
Abbasso, il lago dormiva. Nel Palazzo si vedevano ancora illuminate le finestre
della biblioteca e altre due nella stessa ala, sull'angolo del secondo piano;
una verso ponente, l'altra verso mezzogiorno. Prima di toccar le casupole, il
sentiero svoltava fra i due muricciuoli bassi, in un avamposto di granoturco e
di gelsi.
«Dove andiamo?» domandò Silla
affacciandosi all'entrata scura del villaggio.
«Solo un poco avanti» rispose
Steinegge, incoraggiandolo.
«Le sarei grato se ci fermassimo
qui.»
Steinegge sospirò.
«Come volete. Fuori del ciottolato,
allora.»
Ritornarono un passo indietro dai
muricciuoli e sedettero sull'erba, dalla parte del ponte.
«Io faccio come volete, signor» disse
il segretario «ma questo è molto male per Voi di non bere. Gli amici delle ore
tristi sono pochi e il vino è il più fedele. Non bisogna trascurarlo.
Mostrategli di vederlo volentieri, Vi accarezza il cuore: trattatelo male e, se
un giorno ne avrete bisogno, Vi morderà.»
Silla non rispose.
Era dolce a contemplare, nello stato
d'animo suo, la notte senza luna né stelle. Dal vallone spirava una tramontana
fresca, pregna d'odor di bosco.
Erano lì da pochi minuti quando
udirono a destra fra le casupole vicine un suono cupo di molti passi, che si
allargò subito all'aperto e si fermò.
«Ooh, Angiolina!» chiamò qualcuno.
Silenzio.
«Ooh, Angiolina!»
Una finestra si aperse e una voce
femminile rispose:
«Che volete?»
«Niente, vogliamo. Siamo qui al caffè
della valle a prendere il fresco come i signori, e vogliamo far quattro
chiacchiere.»
«Maledetti ubbriaconi, è questa l'ora
di far chiacchiere? Dovevate stare all'osteria a far chiacchiere.»
«Ci è troppo caldo» saltò su un
altro. «Si sta meglio qui a cavallo de' muri. Non sentite che bel freschino?
Come volete fare a dormire? L'è pazzia stare a letto con questo caldo. Non è
andato a letto neppure il vecchio del Palazzo stasera. Non vedete che ha ancora
acceso il lume?»
«Non si vede da qui. Sarà il lume
della signora donna Marina.»
«Oh adesso! Mai più. C'è bene anche
quello, ma le due finestre chiare, abbasso, sono quelle dei libri. Ho mica da
saperlo? Sono stato giù l'altro giorno a metterci due lastre.»
«Ci hanno ad essere de' forestieri»
disse un terzo.
«Sì, c'è un giovinotto di Milano.
L'ha detto il cuoco stasera dalla Cecchina. Ci deve essere per aria di combinar
qualche cosa con la signora donna Marina.»
«Stia allegro chi la toglie, quella
lì, che toglie un bel balocco, sì!» disse la donna. «Ha detto così la signora
Giovanna alla Marta del signor curato, che hanno attaccato lite anche oggi e
che lui, il vecchio, le ha sbattuto giù il libro dalla finestra, e lei allora
ha fatto il demonio. La signora Giovanna tiene dal suo padrone, ma già sono
matti tutti e due. Solo per il nome non la vorrei quella lì, se fossi un uomo.
Ha un gran nome da strega, sapete. Malombra!»
«Oh sì, sì, come ha ragione questa
donna, da strega!» disse piano Steinegge. «Questo è divertente.»
«È mica Malombra, è Crusnelli.»
«Malombra!»
«Crusnelli!»
«Malombra!»
Si riscaldavano, gridavan tutti
insieme.
«Andiamo via» disse Silla.
Si alzarono e ridiscesero verso casa.
Quando giunsero in fondo al seno del
Palazzo, dove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco
la lanterna, saltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d'un piano.
Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte
intorno alle note limpide, si sentiva, sotto, l'acqua sonora. In quel deserto
l'effetto dello strumento era inesprimibile, pieno di mistero e di
immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stanco, e in città, di
giorno, si sarebbe disprezzata la sua voce un poco fessa e lamentevole, pure
quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticata,
assottigliata dall'anima troppo ardente. La melodia, tutta slanci e languori
appassionati, era portata da un accompagnamento leggero, carezzevole, con una
punta di scherzo.
«Donna Marina» disse Steinegge.
«Ah» sussurrò Silla «che musica è?»
«Ma!» rispose Steinegge «pare Don
Giovanni, Voi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a
quest'ora.»
In biblioteca non c'era più lume.
«Il signor conte arrabbia adesso»
disse Steinegge.
«Perché?»
«Perché non ama la musica e quella lo
fa apposta.»
Silla zittì con le labbra.
«Come suona!» diss'egli.
«Suona come un maligno diavolo che
abbia il vino affettuoso» pronunciò Steinegge. «Vi consiglio di non credere
alla sua musica, signor.»
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