Capitolo V
STRANA STORIA
Ell'era figlia
unica di una sorella del conte Cesare e del marchese Filippo Crusnelli di
Malombra, gentiluomo lombardo che visse in Parigi tra il 49 e il 59,
sciupandovi un pingue patrimonio, mobilizzato in fretta e in furia dopo Novara.
Marina perdette colà sua madre e passò dalle mani di una severa istitutrice
belga a quelle di una governess inglese, giovane, bella e vivace. Quando
il marchese tornò a Milano, nel novembre del 59, Marina aveva diciott'anni, una
flora romantica in testa, una guida stordita al fianco e sulle labbra un
sorriso sarcastico che le faceva pochi amici. In quell'inverno 1859-60 che
lasciò a Milano splendida memoria di sé, lo spensierato marchese Filippo volle
rientrare da Parigi nella società milanese col fracasso d'una vettura da Posta
che tuona per le borgate. Diede pranzi, balli e cene dove miss Sarah faceva gli
onori di casa. Alcune vecchie dame parenti del marchese mossero gravi
rimostranze al «caro Filippo» con la solennità di chi adempie un alto ufficio
ed esprime in pari tempo il giudizio di una casta venerabile. Cadute a vuoto le
loro parole, ruppero le relazioni diplomatiche e non vollero più saperne, di
quel «povero Filippo». Così almeno usavano dire agli amici, provocandone la
maldicenza adulatrice a carico del marchese, di miss Sarah e di Marina; sopra
tutto di miss Sarah. E gli amici venivano spesso a portar loro qualche ghiotta
primizia di scandalo, tutta avvolta di parole blande. - La X e la Y hanno
rifiutati gli inviti del marchese; altre lettere dell'alfabeto li accettano, ma
sono sempre d'un freddo con miss Sarah! La R. le ne ha fatte intendere di ben
chiare, come sa far lei. Pare che miss ricondurrà presto Filippo a Parigi:
forse con l'esercito francese. Corrono dei mauvais propos che sentono il
punch e i sigari; si dice che miss partirà con la cavalleria, donna Marina con
l'artiglieria, e Filippo, povero Filippo! lo fanno partire con la fanteria.
Perché con la fanteria?
Perché nei suoi affari si comincia a
non veder chiaro, anzi a vederci molto scuro, un buco nero, un pozzo, una
voragine. Pare che questo gran train gli pesi, che lo subisca, che sia
voluto da Sarah, la quale non sa il vero stato delle cose e amerebbe gittar
Marina sulla testa di qualcheduno e poi fare il gran colpo... si capisce! S'è
fatto avanti per Marina quello sventurato del ragazzo Ratti; ma suo padre,
avute certe informazioni da Parigi, lo ha spedito a Costantinopoli.
Quell'eterno freddurista di R... ha detto che se i ratt scappano, è
segno che casa Crusnelli sta per affondare.
Queste cose raccontavano alle vecchie
dame gli amici. Infatti si cominciava a parlar così, in Milano, delle
condizioni economiche del marchese; ma erano voci timide ancora, vaghe e non
credute da molti. Dicevano, in gran parte, il vero; tuttavia Dio sa quanto champagne
avrebbe potuto scorrere ancora in onore di donna Marina, se un temuto aneurisma
di suo padre non fosse scoppiato come la folgore portando via lui, lo champagne
e miss Sarah.
Il conte Cesare d'Ormengo fu chiamato
a far parte del Consiglio di famiglia per Marina. Il Consiglio fu ancora in
tempo di salvare l'onore del nome e una piccola dote. Il conte Cesare e il defunto
marchese non erano stati amici mai; da moltissimi anni non si vedevano neppure.
Ma il conte era il parente più prossimo di Marina e fu il solo che le offrisse
la propria casa. Marina avrebbe rifiutato se le fosse stato possibile.
L'aspetto, i modi, i discorsi austeri dello zio le ripugnavano; ma gli amici
del tempo felice s'erano dileguati; i parenti di suo padre le mostravano certa
grave commiserazione con un nocciolo nascosto di rimproveri che ella indovinava
fremendo di sdegno; sola non poteva vivere; quindi accettò. Accettò
freddamente, senza ombra di gratitudine, come se il conte Cesare, suo zio
materno, adempisse un dovere e si procacciasse per giunta il beneficio di una
compagna nella tetra solitudine che abitava. Ella non vi era andata mai; aveva
però inteso descrivere più volte la tana dell'orso, come diceva suo
padre, che l'orso aveva abbandonata nel 1831, per tornarvi ventott'anni
dopo, nel 1859. Non si sgomentava della futura dimora; anzi si compiaceva
dell'idea di questo palazzo perduto fra le montagne, dove vivrebbe come una
regina bandita che si prepari nell'ombra e nel silenzio a riprendere il trono.
Il pericolo di seppellirvisi per sempre non si affacciava neppure al suo
pensiero, perché ella aveva una fede cieca e profonda nella fortuna, sentivasi
nata agli splendori della vita, era disposta ad aspettarne con altera indolenza
il ritorno.
Arrivò al Palazzo con suo zio una
sera burrascosa. Il conte l'accompagnò egli stesso alle camere che le aveva
assegnato nell'ala di levante, verso il monte. Le aveva fatte arredare con
semplicità elegante, aveva provveduto al loro riscaldamento per l'inverno e
nella camera da letto aveva collocato il ritratto di sua sorella, lavoro
dell'Hayez. Marina vi si lasciò accompagnare, guardò senz'aprir bocca le
pareti, il soffitto, gli arredi, il quadro, ascoltò le spiegazioni di suo zio
su questo e su quello, aperse le finestre e disse tranquillamente che voleva
una camera sul lago.
Ella amava le onde e la tempesta, né
le fecero paura la fronte corrugata e gli occhi lampeggianti del conte; tenne
fermo freddamente contro le osservazioni sempre più acri ch'egli le venne
facendo e che troncò, a grande sorpresa di lei, con un risoluto: «Sta bene».
Dato a bassa voce un ordine a
Giovanna, la sua vecchia governante, il conte uscì. Allora la governante si
pose in cammino, con il lume in mano, seguita da un lugubre corteo di servi e
di bauli. Marina volle venir ultima con Fanny, la sua giovane cameriera. Attraversarono
tutto il palazzo da capo a fondo. Spesso, nel passare da una camera a un'altra,
Marina si fermava a guardar indietro nel buio, costringeva la intera carovana a
sostare. Tutte le facce si voltavano a lei, quella della vecchia governante
seria seria, quelle dei servi tra torbide e sgomente.
Quando il convoglio entrò nella
loggia che congiunge le due ali del palazzo, Marina affacciossi alla
balaustrata verso il lago, diede un'occhiata alla scura costa che fronteggia
l'ala di ponente, aggrottò le ciglia e disse alla governante:
«Dove mi porti?»
Immediatamente gli uomini deposero a
terra i bauli. La vecchia posò il lume sopra un baule, s'accostò a Marina,
giunse le mani, e crollando il capo chino sulla spalla destra, sussurrò con
accento di commiserazione profonda:
«In un gran brutto sito, cara la mia
bella signora.»
«Allora non ci vado.»
«Sarebbe ben meglio» interruppe uno dei
portatori.
«Oh sì, voialtri» gli rispose la
vecchia in aria severa «e il signor padrone? Dio ce ne guardi.»
«Ma insomma» esclamò Marina con
impazienza «è un granaio, è un armadio, è un pozzo questa camera?»
«Oh, la camera è bella.»
«Ma dunque?»
«Ma dunque» saltò su l'oratore di
prima, un vecchio contadino, mezzo letterato «mi perdoni se mi prendo
l'arbitrio di loquire in tre; c'è dentro il diavolo, eccola; non so se
mi spiego.»
«Zitto, voi, andiamo, prudenza! Che
c'entrate voialtri!»
«Prudenza? L'è così, già, signora
Giovanna: la prudenza insegna che non c'entriamo né noi né lei.»
«Avanti tutti!» disse Marina.
«Obbedite al signor conte.»
E andò con Giovanna.
Colui si volse a' compagni e fe' con
la mano destra l'atto di cacciarsi le mosche dalla fronte.
Entrarono in un lungo corridoio e,
percorsane la metà, si misero per una scala a sinistra, salirono ad un altro
corridoio, nel piano superiore.
Quando Giovanna aperse l'uscio
temuto, Marina le strappò di mano il lume ed entrò rapidamente. Vide una stanza
discretamente ampia, molto alta, con il pavimento di mattoni, le pareti mal
vestite d'una sdrucita tappezzeria gialla, il soffitto a mezza volta con un
affresco nel mezzo, un gran carcame di letto, con il suo padiglione che pareva
una corona di vecchio nobile spiantato, e pochi seggioloni antichi, fidi
compagni di quella grandezza decaduta. Marina fece aprir le imposte e si gittò
sul davanzale di una finestra, tuffando il capo nel buio, nel vento, nel
fragore misto delle onde e dei boschi, tutto voci di rampogna e di minaccia che
le parevano amiche dell'irritato conte; piene in pari tempo di una potenza
superiore e malvagia.
restò lì lungo tempo, affascinata,
senz'avvedersi dell'affaccendarsi febbrile, delle commosse esclamazioni di
coloro che, dietro a lei, mettevano all'ordine la camera, vi portavano
masserizie e biancherie. Più volte in passato le erano comparse immagini non
evocate di luoghi solitari e selvaggi in cui il suo pensiero posava un momento,
senza desiderio né ribrezzo. Adesso le tornavano a mente. Ricordava qualche
cosa di simile a questo nero deserto. Alla Scala? Sì, una notte, al veglione
della Scala; un'altra notte, in casa sua, coricandosi dopo una gran festa, le
era balenata una tetra visione di solitudini montane. Non s'era curata di quei
fantasmi. Ed ora, ecco il vero.
«Signora» disse timidamente Giovanna.
Marina non rispose.
«Signora!»
Silenzio.
«Signora donna Marina!»
Questa trasalì e si voltò
bruscamente.
Non c'era più che la vecchia in
camera: gli altri se n'erano andati.
«Ebbene?» diss'ella.
«Per questa sera avrà pazienza così.
Domani speriamo che il signor padrone cambierà idea. Se no, cercheremo di fare
un po' meglio. Comanda qualche cosa?»
«Sicuro.»
Data questa laconica risposta, Marina
piantò lì l'attonita vecchierella, fece due o tre giri per la stanza e le tornò
davanti.
«Questo diavolo? Dov'è questo
diavolo?»
«Ah, cara madonna, non lo so, io. Son
cose che si dicono così... sa bene. Io non so.»
«Cosa dicono?»
«Oh, non abbia paura, sa!»
«Cosa dicono?»
«Dicono che qui dentro c'è l'anima
d'un povero morto che sarebbe poi il padre del signor conte, il suo papà grande
di Lei.»
Marina rise.
«Dunque mio zio è figlio del
diavolo!»
«Ah Signore, cosa dice mai questa
signora qui! No che non era il diavolo il papà del padrone; però era forse un
poco suo parente. Ha da sapere ch'egli tenne qui dentro, come in prigione, la
signora contessa, mica la mamma del padrone, la prima ch'era una genovese,
giovane un bel pezzo più di lui. C'era un vecchio qui a R... che si ricordava
di averla veduta e diceva che era così bella che somigliava un bambino. È bene
che questa povera signora è venuta matta; e alla notte, neh, faceva dei versi e
cantava delle ore e delle ore sulla stessa musica, che i pescatori di R...
quando andavano fuori di notte la sentivano lontano un miglio. Si figuri che hanno
persino dovuto mettere le inferriate alle finestre. Mi ricordo io quando il
povero conte vecchio la fece tirar giù. Perché io, La vede, sono nata qui, al
Palazzo. Questa povera signora se ne andò presto all'altro mondo. Quando, degli
anni dopo, è morto anche lui, il signor papà grande, la gente cominciò a dire
che nella casa ci si sentiva e che i rumori venivano proprio da questa camera.
E dissero che l'anima del marito, in pena d'essere stata così cattiva, il
Signore l'aveva condannata a star qui dentro settantasette volte tanti anni
quanti vi era stata la moglie. Ancora adesso non c'è uno di questi paesani che
si possa far dormire qui per un milione.»
«Storia insipida» mormorò Marina.
«Cosa c'è qui sotto?»
«Una camera da letto ch'era poi
quella della Sua nonna; dopo non c'è stato più nessuno.»
«E sopra?»
«La stanza della frutta.»
«E quella finestra lì dove guarda?»
«Guarda verso il largo del lago,
perché qui siamo sull'angolo.»
«E quella porta lì?»
«Quella porta lì mette a una camera
grande come questa, sulla facciata come questa, dove potrà dormire la Sua
signora donzella.»
A questo punto s'udì nel corridoio
vicino uno scoppio di pianti e di lamenti. Era Fanny che singhiozzava
disperatamente addossata al muro. Ripeteva fra i singhiozzi di voler andar via,
di voler andare a Milano subito subito.
Giovanna rimase stupefatta della
pazienza, della bontà, della grazia che Marina pose in opera con quella ragazza
caparbia e irragionevole, riducendola poco a poco alla calma senza ottenerne
mai una risposta diretta. Voleva andare a Milano a casa sua; casa sua, è vero,
non l'aveva, ma sarebbe andata a casa di qualchedun altro: a Milano c'erano
almeno cinquanta case di signori da carrozza, dove andare lei sarebbe come
pioverci la manna dal cielo, e le si erano già fatte, prima di lasciar Milano,
delle magnifiche offerte; un luogo simile non lo avrebbe mai potuto immaginare;
più di una settimana non resterebbe per tutto l'oro del mondo; l'idea di
dormire in quell'orrore di camera l'avea fatta impazzire; i regali eran belli e
buoni, ma più di quindici giorni o di un mese lei non resterebbe per tutti i
regali della terra anche in un'altra stanza; del salario a lei non importava
nulla; se restasse, resterebbe per affetto alla sua padrona e non per aumento
di salario; del resto, non si sentiva poi neanche bene; provava un gran bisogno
di mangiare qualche cosa di sostanzioso e di bere qualche cosa di forte. Così,
lasciato a Giovanna l'incarico di trovare per Fanny una camera da letto meno
vicina alla dimora degli spettri, fu fatta la pace, e Marina prese possesso del
suo appartamento.
Anche il burbero zio fu in seguito
ammansato da Marina, senza umili scuse né moine a cui non avrebbero piegato né
lui né lei, ma con un riserbo dignitoso, e, quando il rigido conte cominciò a
dar qualche segno di sgelo, con certi discorsi studiati, con certe attenzioni
appena accennate che lo ruppero e lo sconvolsero affatto. Sulle prime
l'atteggiarsi di Marina gli riusciva misterioso e sospetto; poi fu il bizzarro
contegno di lei in quella sera burrascosa, che diventò nella sua memoria un
enigma inesplicabile. Allora offerse a Marina un'altra stanza più gaia nell'ala
sinistra del Palazzo. Marina rifiutò; si compiaceva della leggenda paurosa
narrata da Giovanna. La solitudine stessa, la tristezza del vecchio Palazzo
pigliavano fra le pareti della sua camera un che di fantastico e di patetico;
ed ella sentiva gli occhi de' domestici e de' contadini che bazzicavano per
casa seguire la sua persona con ammirazione mista di spavento. Ottenne invece
dal conte, che alla Giovanna parve opera di stregoneria, di fare alto e basso
nella sua camera a piacer suo. Ne strappò le sdrucite tappezzerie gialle e vi
stese in luogo loro certi bellissimi arazzi che il conte serbava in granaio,
stimandoli poco o nulla; sovrappose ai mattoni un tavolato lucido a scacchiera,
cui gittò su, di fianco al letto e a piè di una greppina di velluto marrone,
dei tappeti di arazzo. Il vecchio letto coronato rimase, ma la sua corte venne
ruvidamente congedata. Una combriccola più pomposa di suppellettili, dame e
cavalieri dell'antico regime, tutti boria e sorrisi studiati, ultimo avanzo
invenduto degli splendori di casa Crusnelli, venne da Milano a pavoneggiarsi
intorno al malinconico monarca.
Quando si moveva tra queste eleganze
invecchiate e tetre la delicata figura di Marina nell'abito celeste a lungo
strascico che talvolta indossava per capriccio nelle sue camere, ella pareva
caduta dall'affresco del soffitto, da quel cielo sereno, dal gaio seguito di
un'Aurora ignuda che vi guidava i balli delle Oreadi e delle Naiadi; caduta in
un tenebroso regno sotterraneo dove il suo fiore giovanile brillava ancora, ma
di bellezza meno gaia e meno ingenua. Quella dea lassù, tutta rosea da capo a
piedi, non aveva negli occhi come questa il fuoco della vita terrena né il
fuoco del pensiero; e benché pigliasse nel cielo uno slancio superbo con tutti
i simboli della sua divinità, pareva, rispetto a Marina, una guattera
glorificata.
Nella stanza vicina, che aveva
ispirato tanto orrore a Fanny, Marina fece collocare il suo Erard, ricordo del
soggiorno di Parigi, e i suoi libri, un fascio di ogni erba, molto più di
velenose che di salubri. D'inglese non aveva che Byron e Shakespeare in
magnifiche edizioni illustrate, regali di suo padre, Poe e tutti i romanzi di
Disraeli, suo autore favorito. Di tedeschi non ne aveva alcuno. Il solo libro
italiano era una Monografia storica della famiglia Crusnelli pubblicata
in Milano per le nozze del marchese Filippo, nella quale si facean risalire le
origini della famiglia a un signore Kerosnel venuto in Italia al seguito della
prima moglie di Giovan Galeazzo Visconti, Isabella di Francia contessa di
Vertu. C'era pure un Dante, ma nella tonaca francese dell'abate di Lamennais,
che lo rendeva molto più simpatico a Marina, diceva lei. Non le mancava un solo
romanzo della Sand; ne aveva parecchi di Balzac; aveva tutto Musset, tutto
Stendhal, le Fleurs du mal di Baudelaire, René di Chateaubriand,
Chamfort, parecchi volumi dei Chefs d'oeuvre des littératures étrangères
o dei Chefs d'oeuvre des littératures anciennes pubblicati
dall'Hachette, scelti da lei con uno spirito curioso e poco curante di certi
pericoli; parecchi fascicoli della Revue des deux Mondes.
La grossa barca di casa dovette
stringersi alla parete per far largo a Saetta, lancia elegante venuta
dal lago di Como, che ci aveva l'aria di un'allieva della scuola di ballo
accompagnata dalla mamma. Il signor Enrico, detto Rico, figlio del giardiniere,
diventò ammiraglio della squadra. Sperò, sulle prime, in una divisa degna di Saetta,
sollecitata da Marina; ma su questo punto il conte, un aristocratico pieno di
generose contraddizioni, fu irremovibile; dichiarò che per l'onore della
dignità umana avrebbe preferito un Rico senza calzoni e senza scarpe a un Rico
in livrea, fosse pure livrea di battelliere. E lo stesso Rico, essendosi un
giorno arrischiato a dirgli che a Como e a Lecco aveva veduto parecchi suoi
simili molto contenti della loro livrea, si udì rispondere, in onore della
dignità umana, ch'era un grandissimo asino. Marina gli fece allestire un abito
scuro da signorino, nel quale il vanitoso Rico entrava, rosso come un gambero,
sprizzando riso da tutti i pori; fino a che gli diventò famigliare come le
solite brache paterne ad usum delphini. Anche il vecchio giardino ebbe
un ritorno di giovinezza e di civetteria dopo la venuta di Marina. Nuovi fiori
si addensarono nelle aiuole, una fascia di ghiaia immacolata le cinse. E foglie
e fiori furono composti dall'ossequioso giardiniere nel nome della marchesina,
in mezzo alla grande aiuola ovale tra l'aranciera e il viale lungo il lago.
Perché il giardiniere e gli altri servi guardavano a lei come all'avvenire e
gareggiavano di zelo per conciliarsene il favore. Tranne Giovanna, però.
Giovanna non guardava così lontano, non aveva timori né speranze, devota al
padrone, rispettosa verso la «signora donna Marina», seguitava quietamente la
sua vita.
Del conte non si può dire che andasse
rimettendosi a nuovo come parte della sua casa, né che rifiorisse come il suo
giardino. Ma pure anche la sua persona e il suo volto riflettevano qualche
nuovo lume, perché la gioventù, la bellezza e la eleganza, unite in una
persona, irradiano intorno a sé, volere o non volere, uomini e cose. Si radeva
più spesso, non gli si vedevano più certi cappelli archeologici da spaventare
le passere, certi zimarroni ereditati in apparenza dall'antenato di ferro.
Steinegge, con Marina, era ossequioso
e freddo. L'aveva preceduta al Palazzo d'un mese appena: strano segretario,
incapace di scrivere due righe d'italiano corretto. Il conte l'aveva preso,
sulla raccomandazione del Marchese F. S. di Crema, per spogli e traduzioni sì
dal tedesco che dall'inglese, la quale ultima lingua Steinegge, figlio di una
istitutrice di Bath, conosceva perfettamente. All'arrivo di Marina il
pover'uomo si era creduto in dovere di fare lo spiritoso e il galante. Tante
amarezze, tante miserie patite non avean potuto spegnere del tutto in lui i
sentimenti cavallereschi della sua gioventù. Era stato un ardito ufficiale, de'
primi a cavallo, de' primi con la sciabola in pugno, de' primi nei nobili
amori; poteva egli diportarsi con Marina da scriba melenso? Si diede a
sfoderarle complimenti antiquati e galanterie fuori di corso, versi di Schiller
e di Goethe. Il successo non fu splendido. Marina non degnava avvedersi del
segretario che per significargli con un gesto del viso, con una parola ironica,
quanto poco stimasse le sue cortesie, il suo spirito, la sua vecchia e magra
persona; e che, se le piaceva di essere amabile col conte, non voleva dire che
lo sarebbe con tutti. Da quanto lo zio le aveva detto di Steinegge, ella lo
giudicava un avventuriero volgare; a lei, vissuta a Parigi tra una società
spesso mescolata di queste figure torbide, il tipo non ispirava curiosità di
sorta. Aveva in odio, per giunta, la lingua tedesca, lo spirito tedesco,
l'amore tedesco, la musica tedesca, la gente, il paese, il nome, tutto. Diceva
d'immaginare la Germania come una pipa, una enorme testa rotta di gesso, dal
muso di borghese obeso, a cui bruci senza fiamma nel cervello aperto del
tabacco umido, malsano, e n'escano spire di fumo denso, forme azzurrognole,
mobili dal grottesco al sentimentale, nuvolette che diventano nuvole, nuvoloni;
i quali poco a poco vi calano addosso, vi avviluppano, vi tolgono di vedere e
di respirare. Un giorno, mentre Steinegge le parlava con molto calore d'ideali
femminili tedeschi, di Margherita e di Carlotta, ella gli disse con la sua
indifferenza aristocratica: «Sa che effetto mi fanno Loro tedeschi?» E gli
espose quell'amabile paragone. Mentre parlava, sul viso giallastro di Steinegge
correva fuoco sino alla radice dei capelli, e gli occhi gli si stringevano in
due scintille. Quando Marina ebbe finito rispose: «Signora Marchesina, questa
vecchia pipa rotta ha avuto fiamma e avrà: intanto io Vi consiglio molto non
toccare perché brucia.» Da quel giorno Steinegge tenne per sé complimenti e
squarci poetici.
Marina aveva il suo disegno:
conquistar lo zio, impadronirsene del tutto, farsi portare almeno per qualche
mese a Parigi o a Torino o a Napoli, in qualunque gran corrente di vita e di
piacere che non fosse Milano; navigare con questa e commettere il resto alla fortuna.
Lo aveva concepito la sera stessa del suo arrivo al Palazzo, dopo essersi
misurata con il conte e averne assaggiato il metallo. Lottò prima di decidersi,
con il cuore altero che non voleva piegarsi a simulazioni, benché si sentisse
morire, lì dentro, di scoramento. Rimediato allo strappo di quella prima sera
con un contegno dignitoso e tranquillo, cominciò poco a poco a lodare il
Palazzo, il giardino, i cipressi aristocratici, il lago, le montagne, il
soggiorno, come persona che s'adagia in un riposo nuovo, ne piglia volentieri
le abitudini e sente penetrarsi di benevolenza per le cose stesse che la
circondano. Lasciò cadere ad una ad una quasi tutte le numerosissime
corrispondenze. Il conte non ebbe più ad aggrottar le ciglia sulla pioggia di
lettere cifrate, stemmate e profumate che il Rico portava dalla Posta nei primi
tempi. Le parole pungenti sfuggitegli qualche volta all'indirizzo di queste
amiche, di queste complici delle follie passate, per poco non avevano
scompigliato i disegni di Marina, cui facevano groppo alla gola, in quei
momenti, risposte sdegnose da soffiar via d'un colpo il lavoro paziente di
mesi. I suoi cari libri francesi, romanzi e poesie, non uscirono dalla loro
stanza che di soppiatto o quando il conte non avrebbe potuto vederli. Egli era
un fiero dispregiatore d'ogni cosa francese, salvo che del vino di Borgogna e
di Bordeaux. Alto repubblicano, soleva dire che i Francesi fanno all'amore con
le idee belle e grandi, le guastano senza rispetto come fantesche, e finalmente
le piantano malconce e svergognate per modo che gli altri perdono la voglia di
toccarle. Li detestava come inventori della formola: liberté, égalité,
fraternité, dove il secondo termine, diceva lui, si caccia dietro al primo
per ammazzarlo a tradimento. E poiché nel disprezzo come nell'ammirazione non
aveva misura, diceva che tutti gli scrittori francesi insieme non valevano la
nota del bucato di Giovanna; che Voltaire, per esempio, era uno smisurato
buffone; che lo scriba Thiers con la sua strategia era un ridicolo retore
Formione e sarebbe insultato da Bonaparte, se tornasse al mondo, come colui lo
fu da Annibale. Quando parlava di Lamartine «questa gran chitarra che una
repubblica ebete si pose in capo sul serio», certi rudi e gagliardi paroloni
piemontesi mezzo sepolti nella memoria gli si smuovevano dentro, venivan su con
lo sdegno e gli uscivano come cannonate. Picchiava poi sodo sulla folla,
picchiava su i poeti e i romanzieri francesi con furore, perché la poesia
moderna e il romanzo, in qualunque lingua, gli erano odiosi. «La società è
inferma», soleva dire, «e questi asini poltroni di letterati non fanno che
eterizzarla continuamente». Per questo Marina non gli faceva vedere i suoi
libri francesi. Gli parlava invece spesso e sinceramente di religione.
Il conte aveva una religione tutta
propria, forse non troppo logica, ma ben salda e tenace come le altre sue
opinioni. Credente in Dio e nello spirito immortale, partiva dal testo «gloria
in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis» per dividere
nettamente le cose del cielo dalle cose della terra, e operare, secondo la sua
espressione, il decentramento religioso. «Sappia» disse una volta ad un
cattolico troppo zelante, «sappia che Domeneddio, per festeggiare la nascita di
suo figlio, ha dato agli uomini la costituzione.» E poi, per dimostrargli che
Dio regna glorioso in excelsis e non governa in terra, gli citò
imperturbabilmente Lucrezio come se costui fosse un redattore della Civiltà
Cattolica. Ciò posto, affermava che gli uomini sono liberi di vivere sulla
terra seguendo quella idea del vero e del bene che ciascuno è in grado di
formarsi.
Le opinioni di Marina non erano così
nette e precise. Aveva seguite le pratiche cattoliche per inconscio moto del sangue,
per l'impulso della vigorosa fede di lontani antenati. Tali fredde pratiche
eran bastate lungo tempo a far sì ch'ella si credesse cattolica e bastarono
perché le ribellioni del pensiero e del senso cui fu presto in grado di
conoscere sia nei libri, sia nel vero, le comparissero gloriose e calde di
gagliarda vita di fronte al suo sterile cattolicismo, come la divina ribellione
di foglie e di fiori che rompe i vincoli dell'inverno. Nel suo nuovo soggiorno
troncò risolutamente ogni pratica religiosa. Ella vedeva che suo zio non ne
seguiva alcuna ed era curiosa di penetrarne le ragioni, desiderava udirsi
approvare, confermare nel suo proposito, scoprire tanti sicuri argomenti di non
credere, onde il pensiero moderno, ella lo sentiva, doveva esser padrone. Ma il
conte secondava poco e male i suoi desideri: non era forte in filosofia
religiosa, giudicava la religione piuttosto storicamente che filosoficamente.
Erano i mali recati dalla lotta delle religioni positive e l'aspetto delle loro
evoluzioni regolari, conformi ad una legge generale di sviluppo e di decadenza,
che lo avevano reso scettico. Non amava però fare propaganda del suo
scetticismo; anzi gli avvenne una volta di dire a Marina che non sarebbe forse
un gran male se tutte le donne andassero a messa. Ella rispose che oramai, se
credesse e andasse a messa, vorrebbe anche poterla dire; ma che la parte attiva
dell'impostura era tutta presa dagli uomini.
A lei la uguaglianza della chiesa
ripugnava quanto a suo zio la uguaglianza politica. Non era irreligiosa di
natura; pensava qualche volta che vi dovrebbe essere una religione speciale per
le classi più alte, una religione liberissima, senza pratiche, quasi senza
legge morale o almeno con una legge morale trasformata, dove al concetto del
bene e del male fosse sostituito il concetto meno volgare del bello e del
brutto, del buono e del cattivo gusto. Lo squisito intelletto della bellezza e
dell'armonia starebbe invece della coscienza morale; i sensi non sarebbero
combattuti, ma governati con l'intelletto della loro poesia. Un Dio, sì, ci
vorrebbe per l'altra gioventù, per l'altra bellezza al di là della tomba.
Il conte abborriva la musica, e
Marina si guardava bene dal toccare il suo piano quand'egli era in biblioteca.
Però gli contraddiceva risolutamente in fatto di pittura, esprimendo senza
ritegno la sua ammirazione pei quadri ch'egli apprezzava meno. Marina si
compiaceva d'un dipinto arcaico come d'una suppellettile di lusso, ma
comprendeva soltanto le opere del gran secolo dello splendore e della forza.
Quelle dei migliori maestri veneziani le affrettavano il sangue nelle vene, le
ispiravano uno strano turbamento di ambizioni e di desideri ch'ella non sapeva
spiegare a se stessa. Il conte aveva in salotto uno stupendo ritratto di
gentildonna attribuito a Palma il Vecchio. Gli occhi di Marina scintillavano
posando su quella bellezza dal viso ardito e sorridente, dalle spalle possenti
ch'emergevano col seno dall'abito sfarzoso di broccato giallo. In questo argomento
dell'arte il conte si mostrava assai mansueto; neppure le contraddizioni vivaci
lo irritavano; anzi gli avveniva spesso di guardar Marina con dolcezza
mentr'ella combatteva focosamente pe' suoi pittori prediletti; il vecchio si
ricordava allora della propria madre e taceva.
Malgrado il favore che veniva
acquistando presso lo zio, Marina provava un'avversione sempre crescente per
quest'uomo austero, sprezzatore delle lettere, delle arti, d'ogni eleganza, che
le infliggeva la vergogna di nascondere, almeno in parte, l'animo suo. Ella non
era nata ipocrita e fu mille volte per prorompere e dire al conte che non lo
poteva soffrire, che non intendeva dovergli gratitudine alcuna, né rispetto, né
ubbidienza. Ma nol fece. Dopo quest'impeti frenati a fatica, pigliava Saetta
e partiva, ora sola, ora col Rico, si gettava a qualche riva solitaria e saliva
rapidamente la montagna con un vigore cui nessuno avrebbe attribuito alla sua
graziosa persona. I contadini che la incontravano ne stupivano. Gli uomini e le
ragazze la salutavano, le donne no. Dicevano tra loro che colei andava sempre
per demoni di boschi e di sassi, e a messa non ci aveva mai portati i piedi;
ch'era un'altra scomunicata come la Matta del Palazzo, quella di una
volta.
Quando era giunta a chetare i nervi
con la stanchezza, Marina ridiscendeva al lago, dove Saetta l'attendeva
pazientemente, custodita spesso dal giubboncello e dalle scarpe del Rico;
mentre questo operoso signore correva i dintorni a coglier frutta, o a disporre
trappole per ghiri, archetti per gli uccelli, con una destrezza che tutti i
monelli del paese gl'invidiavano.
Curioso ragazzo, quel Rico. Era il
primo de' primi alla caccia, alla pesca, al nuoto, alle sassate e alla scuola.
Leggeva e rileggeva con passione i libriccini toccati in premio e il Guerrin
Meschino, principio e fine della biblioteca di famiglia. Copriva qualche
volta con grande onore le funzioni di chierico della parrocchia e si vantava di
declamare il suo latino come «on scior curât»; per cui passava sdegnoso e
altero nella sua tonachella bianca fra la minor caterva dei sudici marmocchi
ammucchiati alla balaustrata dell'altare maggiore. Ai padroni era devoto
ciecamente. Diceva di voler bene prima al Signore, poi alla mamma, poi ai
«sciori», poi al papà, poi alla «sciora maestra», poi al «scior curât». Non
c'erano per lui altri «sciori» al mondo che quelli del Palazzo. Ne parlava come
se fosse una cosa sola con essi, opponendo sempre «il nostro palazzo», il «nostro
giardino», la «nostra lancia» alle cose di cui gli si raccontavano meraviglie.
Aveva la lingua d'un passero; giuocasse, lavorasse o mangiasse, gli era uno
scoppiettìo continuo di chiacchiere e di risa, salvo quando si trovava in
presenza del conte, ché allora ammutoliva. Conosceva tutti i pettegolezzi del
paese e possedeva un fondo inesauribile di fiabe, di leggende popolari. Marina
lo interrogava spesso sulle tradizioni relative alla Matta del Palazzo.
Egli le raccontava in mille modi, intrecciandovi il lavoro della sua
capricciosa e poetica fantasia, specialmente nella catastrofe del dramma. Un
giorno l'eroina scompariva insalutato hospite, per andarsene «drizza» a
casa del diavolo; un altro giorno il marito la faceva buttar giù nel Pozzo
dell'Aquafonda in Val Malombra, come la gente del paese chiamava un vallone
deserto della montagna di fronte al Palazzo; l'ultimo feudo di Marina, diceva
lei. Ma lo scioglimento preferito dal poeta era questo: l'infelice prigioniera
usciva di notte dal suo carcere attorcigliata intorno a un raggio di luna e si
dileguava nell'azzurro.
Marina si divertiva di questi
racconti e della cronaca del paese che il ragazzo le narrava con una mistura
incredibile di malizia e d'ingenuità. Ella era da quasi un anno al Palazzo e di
viaggio non si parlava. La sua salute se ne risentiva veramente. Sofferenze
nervose non gravi, ma frequenti, cominciarono a travagliarla. Ella disegnò
subito di trarne profitto; intanto ogni lieve distrazione le era cara, persin
quelle che le fornivano le chiacchiere del Rico.
Giunse così l'aprile del 1863;
giunse, nei tranquilli splendori del tramonto, una sera sinistra per Marina.
Laggiù a ponente, nubi colossali
ardevano nel cielo e nel lago divisi dall'umile striscia nera dei colli;
ardevano le cime verdi in faccia al Palazzo, e, a levante, i picchi
inaccessibili dell'Alpe dei Fiori. Al basso durava nell'ombra un qualche lume,
un tepore del sole recente, vestigia risus; e da ogni valloncello
calavano ad increspar il lago, per breve tratto, soffi pregni degli odori
primaverili. Vi si spandeva pure ed entrava per tutti gli echi delle valli il
suono festoso delle campane di R... La gran porta nera della chiesa
parrocchiale versava sul sagrato, che tocca a levante il ciglio della costa
verso il lago, un lento fiume di gente accalcata che si spandeva poi
rapidamente. Gli era un rimescolio, uno schiamazzo come d'una gran frotta di
pulcini, di paperi cui la gastalda abbia aperto l'uscio dei campi. Folla e
grida intorno ai rivenditori di ciambelle e di confetture, folla e grida
intorno ai venditori di zufoli e di trombette che si spargevano sonando
dappertutto. Sotto i noci e fra le macchie d'alloro che pendono sopra la
chiesa, strepitavano bevitori e mangiatori. Un po' in disparte si raccoglieva
il fiore del bel sesso di R... e dei dintorni; mamme e nonne tutte linde,
ridenti nelle loro cuffie, spose poderose chiuse in certe campane di seta nera
con tanto di catena d'oro, di pendenti d'oro, di spilloni d'oro; ragazze serie
e pudibonde sotto i cappellini e nastri di una civetteria furiosa. I preti
giravano lentamente tra le ondate della folla, pettoruti, accesi in faccia, col
berretto a croce sulla nuca, e il sigaro di virginia in bocca. Un branco di monelli
s'era precipitato per l'uscio del campanile ad avvinghiar freneticamente le
corde delle tre campane che suonarono e suonarono senza misura né decoro, come
vecchie impazzite, sinché il sagrestano assalì quei demoni a moccoli, a
scappellotti, a strappate; e fattili rotolar fuori dall'uscio in un mucchio,
assestò loro un calcio collettivo e diede alla chiave una furibonda mandata. Il
Rico, ch'era lì presso col suo zufolo in bocca, aiutò, ci duole il dirlo, le
prepotenze dell'autorità ecclesiastica, e si mise ad inseguire i rei gridando:
«Aspetta me! Aspetta me!». Ma nessuno lo aspettò, ed egli, correndo
all'impazzata, capitò invece come un montone tra le gambe del cappellano di...,
il quale gli diede del «maledetto asino», una buona scrollata e uno scapaccione
di congedo. Il Rico se ne andò mogio mogio, a guardar gli strumenti della banda
di V... che aveva suonato in chiesa, alla brava, fior di polke e di galopp e
s'era attavolata a bere lì presso. Il ragazzo, fiutando gli ottoni sfolgoranti,
udì quella gente che parlava d'andar più tardi al lago a suonare. Gli venne in
mente di domandare subito alla sua padrona se volesse prendere Saetta e
godere lo spettacolo. Corse via come una lepre, saltò il muricciuolo del
sagrato e sparve giù pel bosco verso il sentiero del Palazzo, che passa a mezza
costa.
Marina passeggiava quella sera in
giardino lungo la balaustrata del lago con un signore piccolo dal lungo
soprabito scuro, dai vasti piedi, che non sapeva come camminare né dove tener
le mani e sorrideva di continuo. Era il povero mediconzolo di R... che tutti
chiamavano el pitòr per la sua debolezza di tingersi la barba.
«Che peccato, dottore» diceva ella
appoggiandosi alla balaustrata e guardando il tramonto «che peccato che
quest'aria mi faccia così male! Com'è cattivo Lei a non metterci dentro qualche
cosa per me!»
Il pitòr ci mise dentro un
sospiro, giunse le mani, piegò il capo sulla spalla destra, e cominciò col suo
solito risolino:
«Se potessi, signora marchesina, se
potessi...»
E non poté dir altro.
«Pensi. Non si potrebbe farmi una
casina di ferro e vetro come si fanno per le palme e per le muse e soffiarvi
dentro un'aria molle, un'aria tenera e non celestiale? Perché non parla,
dottore? Dica, se non mi fanno la casina, cosa succederà del mio cuore e dei
miei nervi?»
«Non si può sapere, signora
marchesina, non si può sapere: possono soffrir molto, specialmente il cuore.
(<Se non fossi tanto asino> pensò il pitòr <qui potrei dire
qualche cosa di grazioso.>) Sicuro; quando, La vede, si ha un cuore
sensibile...»
«All'aria...» suggerì Marina.
«All'aria» capitombolò il pover'uomo
«si può andar soggetti, nei paesi di montagna, a frequenti palpitazioni che
poi, neh, rinnovandosi spesso e con violenza, finiscono con generare una
viziatura organica, la quale può condurre quando che sia a un precipizio.»
«Quanto è amabile, dottore! E i
nervi?»
«Ma sicuro, ci sono anche i nervi. I
Suoi nervi, stando sempre in quest'aria, farebbero, La vede, la rivoluzione.
Vorrebbero comandar loro e far da prepotenti, La mi capisce? Quest'aria Le va
benissimo per tre o quattro mesetti l'anno, mica di più.»
«Proprio così, dottore?»
«Proprio così.»
«Si guardi bene» disse Marina facendo
il viso serio serio «si guardi bene dal ripetere queste cose a mio zio. Mio zio
penserebbe che io desidero cambiare soggiorno. Io non gli chiederò mai questo
sacrificio, caro dottore; respirerò piuttosto il veleno della buona madre
natura. Non sono né vecchia né brutta, e non ci tengo affatto a diventarlo. Ci
tiene, Lei, dottore, a invecchiare?»
Come uno zuccherino di menta inglese
al primo posarsi sulla punta della vostra lingua vi irradia per le viscere
un'aura non capite bene se di fuoco o di gelo, una specie di puro lume
sensibile al gusto, che sembra invader tutto l'esser vostro, così le ultime
inattese parole di Marina e lo sguardo che le accompagnò, irradiarono nelle
viscere del turbato pitòr un'aura di refrigerio insieme e di ardore, un
arcano lume sensibile a quell'occhio interno che ciascuno di noi possiede. Dio
sa in quale recondita occhiaia. Benché vecchio e brutto, egli era di
temperamento amoroso; inclinato a spicce e caute galanterie campagnuole, era
pur capace di fiamme donchisciottesche. Si figurava d'essere innamorato di
Fanny, una ghiottornìa squisita per lui; ma ora quel complimento di Marina, di
una dea a cui non aveva mai osato alzare il pensiero, gli fece perdere il lume
dell'intelletto. E non vide agli angoli della bocca di lei l'impercettibile
riso. Non vide neppure il conte Cesare che si accostava lentamente, a capo
chino, con le mani congiunte tra la schiena e il soprabito tutto aperto e
rovesciato all'indietro.
«Che sta scritto sulla ghiaia, zio?»
gli disse Marina sorridendo.
«Vi sta scritto» rispose il conte
«che voi avete camminato troppo e che questo diabolico dottore vi ha fatto
furiosamente la corte. Non è vero, dottore? Metta, metta il Suo cappello.
Dunque, come ha trovato mia nipote?»
«Quasi benissimo» interruppe questa.
«Glielo dimostri Lei con i suoi termini, dottore. Quanto a me, non posso
soffrire il discorso orribile ch'Ella farà, e Le do la buona sera».
Così dicendo, Marina stese al dottore
una sottile manina profumata, ricca, nel suo candore quasi trasparente, di
occulte malizie, di elettricità senza nome, di espressioni potenti e rapide
oltre alla parola; e, significatogli con essa di non parlare, mosse verso casa.
Ell'aveva un lume singolare negli occhi. Si teneva sicura che il dottore
avrebbe rappresentato al conte la necessità di portarla per qualche tempo in
aria diversa, e non avrebbe taciuta la eroica abnegazione di lei che si
disponeva di affrontare una legione di malattie pur di non chiedere sacrifici
allo zio. Da questo sperava molto.
Stava per entrare in casa quando le
comparve davanti il Rico trafelato, che buttò fuori in fretta e in furia le sue
luminose idee e, avuta la risposta, saltò nel vestibolo, ricomparve carico di
cuscini e di scialli, e via come il lampo alla darsena, seguito lentamente da
Marina.
Quanto era dolce la sera e come
scivolava bene sull'acqua chiara la piccola Saetta! Il Rico era in lena;
la sottile prora nera parea volare tra cielo e cielo e la poppa correva tra i
grandi ovali segnati dai remi. Ad ogni tratto il rematore si fermava a guardare
verso la riva di R... Le barche non venivano, ma si udivano dall'alto ondate di
musica ora più ora meno sonore. Certo la banda s'era fermata in piazza a far
ballare le ragazze e i giovinotti. Il Rico propone di andar verso riva, ma
donna Marina gli ordina di fermarsi al largo e di aspettare. Egli comincia
un'enfatica apologia della banda forestiera, del famoso suonatore che ha
imparato a Como, di quell'altro prodigio che ha imparato a Lecco, dei loro
strumenti; donna Marina gli ordina di tacere. Tacere lui? «Non suonano più,
ecco, vengono, son qua; no, non vengono ancora, adesso s'imbarcano; oh, dei
lumi! Son lanterne! Son palloni! Ora sì che vengono proprio. Suonano, suonano.»
«Rema» disse Marina «verso la
musica.»
Vengono prima a paro due barche
illuminate, piene zeppe di suonatori ritti in piedi che soffiano a più potere
nei flauti, nei clarinetti, nelle trombe, tenuti in riga a cannonate di gran
cassa; poi vengono altre barche oscure col pubblico. Dopo ogni pezzo scoppia da
quest'ultime barche un subisso di grida, di applausi, di apostrofi ai rematori,
ai timonieri, all'uno, all'altro, di strilli modulati acutissimi. La flottiglia
si avanza lenta per la quiete del lago tutto bruno, passa davanti a Marina.
Suonano un pot pourri di
canzoni popolari lombarde e a tutta quella buona gente ci si rimescola il
sangue di tenerezza e d'orgoglio. Sono i loro amori, le loro allegrezze, è il
loro fiore d'un giorno; è il canto uscito dalle loro viscere che si spande
glorioso e potente fra le care montagne. I suonatori ci mettono uno slancio, un
fuoco insolito, i remi rompono l'acqua tuonando, le vecchie barche saltano
avanti, tutti cantano colla musica
L'è sett'anni che son maridada
Perché s'era la bella biondin.
Forza ai remi! Anche quel vecchio
battelliere di poppa si ricorda del suo buon tempo, e si mette a remar con
l'arco della schiena e mette fuori anche lui la sua voce sconnessa:
Passeggiando per Milan
L'era un giorno ch'el pioveva,
La mia bella la piangeva,
Per vedermi andà soldà.
Canta, canta, vecchio battelliere di
poppa. Spendi nel canto l'ultimo vigore della tua voce, l'ultimo fuoco del tuo
cuore. Non fosti chiuso tu pure, quand'eri giovane e bello, da due braccia
amorose?
Il Rico si lascia trasportare
dall'entusiasmo, e dimentico dei doveri del proprio stato, mette a profitto i
suoi polmoni di acciaio per remare e cantare ad un punto:
Oh che pena, oh che dolore,
Che brutta bestia che l'è l'amore!
Non si muove un atomo d'aria. Sui
fianchi ombrosi delle montagne ogni fil d'erba, ogni fogliolina recente ascolta
immobile la dolce musica lontana che parla d'amore; sui pioppi dei prati
ascoltano gli usignoli; al chiarore delle fiaccole e delle lanterne salgono a
fior d'acqua grossi pesci attoniti; e il lago, zitto come olio, palpita
lievemente sulla traccia chiara delle barche rigata dal raggio azzurrino di
Vespero.
Quella sera l'aria dei monti non
nuoceva a Marina. Ell'avrebbe forse preferito seguire un fresco sul Canalgrande
o una serenata a Bellagio, dove la fragranza, per così dire, delle più squisite
voluttà mondane è nell'aria ed entra sino al cuore; ma tuttavia sapeva
apprezzare l'agreste poesia di quella sera d'aprile sul lago e la ingenua
semplicità, non sempre volgare, dei canti usciti dalla fantasia del popolo. E,
pensando che probabilmente avrebbe presto lasciato lago e montagne, pensiero
pieno d'inquiete speranze, li giudicava senza inimicizia, assaporava la musica
e ammirava la scena come ghiottornìe rare, gratissime per una volta a palati
fini e curiosi come il suo; così avrebbe gustato un quadrettino fiammingo,
un'aria di Cimarosa.
Poi, quando i suoni e i canti si
andarono dileguando da lontano e Saetta mosse lentamente, quasi a
malincuore, verso il Palazzo, le impressioni di quella sera si addentravano
poco a poco nell'anima sua rammollita dal voluttuoso languore che l'aprile
ispira; e vi si mesceva una gran sensazione di sgomento, simile a certe doglie
che ci saettano e passano e passano e poi ce ne scordiamo; e si trova in
seguito ch'erano frettolose messaggere di un grosso male in cammino. L'orologio
di R... suonò le nove. Non le parve la solita campana. Come poteva avere
un'altra voce? Stette in ascolto. Le balenò alla mente d'essersi trovata
un'altra volta sul lago, esattamente nello stesso luogo e alla stess'ora,
d'aver ascoltata la campana e fatto lo stesso pensiero che il suono era diverso
dal consueto. Ma quando?
Le era accaduto parecchie altre
volte, specialmente nell'adolescenza, di venir sorpresa da simili riproduzioni
di circostanze e di pensieri, senza poter ricordare l'epoca del suo primo
passaggio. Ne aveva parlato. Suo padre s'era stretto nelle spalle: che si ha a
fare attenzione a simili sciocchezze? Miss Sarah aveva detto: «E dunque?» Le
amiche l'avevano assicurata che a loro succedeva la stessa cosa ogni giorno.
Marina non ne parlò più, ma ci pensò ancora.
Questi lampi di reminiscenza solevano
riferirsi a circostanze tra le più indifferenti della vita. Le rimaneva perciò
sempre dubbio se si trattasse di reminiscenze vere e proprie o di
allucinazioni. Stavolta non era così. Pensando e ripensando, si persuase di non
essersi trovata mai sul lago a quell'ora; era dunque un'allucinazione.
Quando scese al Palazzo, il conte si
era già ritirato. Ella passeggiò un tratto su e giù per la loggia, entrò nelle
sue stanze, prese un libro, lo gettò via, ne prese un altro, gittò anche
quello, si provò a scrivere una lettera e, dopo aver pensato alquanto con la
penna in mano, stracciò il foglio, si trasse due anellini, li buttò sulla
ribalta abbassata dello stipo antico che le serviva di scrivania, e andò al
pianoforte. Suonò uno dei suoi pezzi prediletti, la gran scena dell'evocazione
delle monache nel Roberto. Ella non intendeva, non suonava che musica
d'opera.
Suonò come se gli ardori delle
peccatrici spettrali fossero entrati in lei, più violenti. Alla tentazione
dell'amore si fermò, non poté proseguire. Quel foco interno era più forte di
lei, la opprimeva, le toglieva il respiro. Chinò la fronte sul leggìo. Pareva
che ardesse anche quello. Si alzò in piedi, guardando nel vuoto. La divina
musica vibrava ancora nell'aria, le pareva di respirarla, di sentirla nel
petto: ne le correva uno spasimo voluttuoso per le braccia.
Finalmente abbassò gli occhi sul
pavimento, li posò involontariamente su qualche cosa che brillava a' suoi
piedi. Guardò, senz'averne coscienza, quel punto brillante che a poco a poco le
venne fermando la fantasia, finché lo vide e lo raccolse. Era uno degli
anellini buttati da lei sulla ribalta dello stipo. Cercò l'altro. Sulla ribalta
non c'era, nell'interno dello stipo non c'era, sul pavimento neppure. Marina
s'irritò, frugò persino sotto lo stipo. Nulla. Cacciò ancora la mano nel vuoto
che si apriva sopra il piano stesso della ribalta, fra due ordini di cassetti.
Frugando là dentro si accorse di un piccolo foro nel piano, e, introdottovi
l'indice, vi sentì l'anello. Non potendovi entrare con due dita, cercò
levarnelo serrandolo tra il polpastrello dell'indice e il legno. Con sua
meraviglia non le riuscì, l'anello pareva preso e trattenuto da un uncino.
Mentre Marina faceva ogni sforzo di vincere questa resistenza, s'udì lo scatto
di una molla; il piano, dove posava la mano di Marina, cadde di alcuni
centimetri, l'anello vi ruzzolò su. Marina, sorpresa, ritirò la mano in fretta;
poi, rifrugando, trovò che, in fondo, la mano entrava più addentro di prima e
che v'erano, in quella ultima cavità, degli oggetti.
Ne li trasse ad uno ad uno. Erano un
libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d'argento, una
ciocca di capelli biondi legati con un brandello di seta nera, e un guanto.
Marina, attonita, faceva passare e
ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella della candela. I capelli erano
finissimi; parevano d'un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo,
stretto, allungato; aveva l'atto d'una cosa viva: conteneva ancora, per così
dire, lo spirito della mano delicata che l'aveva portato un giorno. A chi erano
appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva
nascosti là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa sperando
trovare uno scritto, ma senza frutto. Riprese a esaminare gli oggetti. Le
pareva che ciascuno d'essi si struggesse di parlare, di gridare: «Intendi!».
Finalmente, voltando e rivoltando per ogni verso lo specchietto, s'avvide di
qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre
segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione Marinà arrivò a leggere la
seguente laconica scritta: «Io - 2 MAGGIO 1802»
Parve a Marina che una luce lontana e
fioca sorgesse nell'anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al Palazzo la
infelice prigioniera, la pazza della leggenda? Forse era lei. Quel guanto, quei
capelli erano reliquie sue.
Ma nascoste da chi?
Marina, quasi senza sapere che si
facesse, afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine.
Ne cade un foglio ripiegato, tutto,
tutto coperto di caratteri giallognoli, sbiaditissimi. Ella lo apre e vi legge:
«PER RICORDARMI. 2 maggio 1802.
Ch'io mi ricordi, nel nome di Dio!
Altrimenti perché rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi
il nome che mi sarà imposto allora. Non vollero. Ebbene, qualunque sia il tuo
nome, tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia
infelice. Avanti di nascere hai sofferto TANTO, TANTO (questa parola era
ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia.
Ricordati! MARIA CECILIA VARREGA di
Camogli, infelice moglie del conte Emanuele d'Ormengo.
Ricordati la sera del 10 gennaio 1797
a Genova in casa Brignole: ricordati il viso bianco, il neo sulla guancia
destra della santa zia, suor Pellegrina Concetta.
Ricordati il nome RENATO, l'uniforme
rosso e azzurro, gli spallini e i ricami d'oro al collo e la rosa bianca al
ballo Doria.
Ricordati il carrozzone nero, la neve
e la donna di Busalla che mi ha promesso di pregare per me.
Ricordati la VISIONE avuta in questa
camera, due ore dopo mezzanotte, le parole di fuoco sfolgoranti sulla parete,
parole d'una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia
intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile
trascrivere quei segni, non ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascerei,
che vivrei ancora qui fra queste mura, qui mi vendicherei, qui amerei Renato e
sarei riamata da lui; dicevano un'altra cosa buia, incomprensibile,
indecifrabile, forse il nome che egli porterà allora.
Vorrei scrivere la mia vita intera,
non ne ho la forza; bastino quei cenni.
Cambiati nome! Che io torni a essere
Cecilia. Ch'egli ami Cecilia!
Questo stipo era di mia madre;
nessuno ne conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d'argento che
la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro. Mi vi sono guardata a lungo, a lungo;
lo specchietto ritiene la fisonomia dell'ultima persona che vi si è guardata.
Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello.
Questi sono i miei capelli. Non li
conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come
son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d'amore, senza
una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra.
Anche tu, piccola mano mia! Metto coi
capelli un guanto per ricordarmi di te, piccola mano. Nota che il pollice del
guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bella, così morbida? La
bacio. Addio!
Ho pochi giorni a vivere. È la sera
del 2 maggio 1802. Non so l'ora, non ho orologio.
Le finestre sono aperte. Ecco le mie
sensazioni: un'aria tepida, un odor di bosco, un cielo verdognolo, così soave!
E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie calde, possibile
non le ricordi?
Anima mia, imprimi bene in te stessa
questo. Il conte Emanuele d'Ormengo e sua madre sono i miei assassini. Ogni
pietra di questa casa mi odia. Nessuno ha pietà! Per un fiore, per un sorriso,
per una calunnia! Oh, ma adesso no! Adesso con la volontà, col desiderio
immenso, son tutta sua, tutta!
Son cinque anni e quattro mesi che
son qui, che essi non parlano a me e che io non parlo ad essi. Quando mi
porteranno in chiesa, ci verranno anche loro, forse. Saranno vestiti a lutto,
mostreranno alla gente un viso triste e risponderanno ai preti: lux perpetua
luceat ei. Allora, allora vorrei rizzami sul cataletto e parlare!
Madre mia, padre mio, è vero che
siete morti, che non potete difendermi? Ah, d'Ormengo, vili, vili, vili! Almeno
non soffrono.
Debbo arrestarmi un momento. I miei
pensieri non mi obbediscono, si muovono tutti in una volta, si aggruppano qui
in mezzo alla fronte, vi fanno una smania che non ha sollievo.
Addio, sole; a rivederci.
Porta nera, porta nera, non aprirti
ancora!
Calma. Alcune regole per quel giorno.
Quando nella seconda vita avrò
ritrovato e letto il presente manoscritto, m'inginocchierò immediatamente a
ringraziar Dio; quindi, paragonati i miei capelli d'adesso a quelli d'allora,
provato il guanto e guardata la immagine nello specchio, spezzerò a
quest'ultimo il vetro che dev'essere rinnovato per poter servire un'altra
volta; e riporrò tutto nel segreto. Poi converrà premere sull'uncino per far
tornar su il piano orizzontale.
Aver fede cieca nella divina
promessa: lasciar fare a Dio.
Sieno figli, sieno nipoti, sieno
parenti, la vendetta sarà buona per tutti. Qui aspettarla, qui.
«Cecilia.»
Marina lesse avidamente e non
intese.
Rilesse. Al passo: «Tu che hai
ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice», si fermò.
Prima non le aveva notate.
L'occhio suo si fermò su quelle
parole, e le mani, che tenevano il foglio, tremarono. Ma per poco. Ella
proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero pietrificate.
Giunta alle parole «m'inginocchierò
immediatamente a ringraziar Dio» chiuse il manoscritto tenendovi dentro
l'indice della mano destra e rimase immobile in piedi, con la testa china sul
petto.
Riaperse il manoscritto, lo rilesse
per la terza volta. Poi lo depose e prese la ciocca di capelli. Le sue mani si
movevano lentamente, non avevano più nulla di nervoso. La fisonomia era
marmorea; non v'erano scritte né incredulità, né fede, né pietà, né paura, né meraviglia.
Un passo pesante nel corridoio.
Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso;
chiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta.
Era Fanny che aveva un passo da
corazziere.
«Vattene» disse Marina.
«Ah, Signore, che furia, cos'è
accaduto?»
«Nulla, non ho bisogno di te stasera,
vattene a letto» ripeté Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se
ne andò.
Marina stette in ascolto de' suoi
passi finché la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo.
Esitò a riaprirlo, ne considerò i
geroglifici, le figure enigmatiche d'avorio intarsiato nell'ebano, che avevano
in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una
nera corrente infernale. Si decise e riabbassò la ribalta.
Trasalì; lo stipo era stato chiuso in
furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia.
Rilesse l'ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano
una treccia e l'accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si
rassomigliavano affatto.
Prese il guanto. Come n'era fredda la
pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guanto andava bene: era troppo
piccolo.
Marina ripose nel segreto il
manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con i pezzi dello
specchietto e premette forte sull'uncino. La molla scattò, il piano risalì a
posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni, appoggiò le braccia sulla ribalta dello
stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava
di riflessi dorati le onde diffuse dei capelli, parve allora la sola cosa viva
nella camera. La fiamma aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli
slanci e dei languori inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se
fosse ansiosa di calare all'orecchio di Marina e sussurrarle: «Che hai?» Ma
neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rosa,
si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi né
voce. Il cuore le batteva appena; il sangue stesso, forse, era quasi fermo. La
sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno a
sé un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito dallo stipo aperto davanti
alla graziosa persona col truce proposito d'infiltrarlesi nel sangue, di
avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle la vita e l'anima per mettersi al loro
posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall'uso del mondo non
l'avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile
velo di scetticismo che copriva sempre il suo pensiero in tempo di calma come
una crittogama di acque stagnanti, si era squarciato e disperso
nell'incomprensibile turbamento di spirito che l'aveva assalita tornando al
Palazzo.
La sua prima impressione
nell'afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento.
L'avea vinta subito con un atto di volontà, con il proposito di esaminar
freddamente, d'intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa
di quanto aveva letto, udì una imperiosa voce interiore che le disse:
«No, non è vero.»
E subito dopo diffidò di questa voce
stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la
conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse passato il suo
pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava farlo tornare indietro, fargli
rifare, passo passo, la via.
Quella donna non era sana di mente.
Lo diceva la tradizione, lo confessava lei stessa, lo significava la
concitazione, il disordine febbrile delle sue idee, quand'anche il concetto
sostanziale dello scritto non bastasse per sé a dimostrarlo. Questo concetto di
una seconda esistenza terrena aveva esso almeno qualche cosa di originale che
potesse far sospettare un'ispirazione superiore, far prendere sul serio le
visioni di Cecilia? No, era una ipotesi antica come il mondo, notissima, che
l'infelice poteva assai facilmente avere udita o letta, che aveva trovato, al
dì del dolore, nella propria memoria. Allora essa l'aveva afferrata, ne aveva
tratto il suo ristoro, ne aveva vissuto: l'idea era diventata, a questo modo,
sangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente
ciò ch'ella chiedeva loro con la più grande energia di volontà e di
immaginazione. Avean risposto con fuoco, sì. Con chiarezza? No. Che
significavano i capelli, il guanto, lo specchio? Perché far paragonare la mano,
i capelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o di
risorgere?
Lo scritto era dunque un frutto del
delirio. Solo qualche ricordo della vita anteriore che si destasse ora
nell'animo di lei, Marina, potrebbe dimostrare l'opposto.
Apriti, anima! Ella interrogò se
stessa sui ricordi accennati nel manoscritto come chi si curva sopra un pozzo
buio e profondo e chiama e sta in ascolto se qualche voce, se qualche eco
risponda.
Camogli? Nessuna eco, nessuna
memoria. Genova? Silenzio. Suor Pellegrina Concetta, Renato? Silenzio. Palazzo
Doria, palazzo Brignole, Busalla, Oleggio? Silenzio, sempre silenzio. Così
talvolta, ad alta notte, in qualche sala d'aspetto ingombra di gente e male
illuminata da un fumoso lume a petrolio, si grida una sequela di nomi di paesi
e di città lontane; nessuno si move; nessuno risponde. Aspettano un altro
treno. Ma chi sa se vi hanno viaggiatori per quella linea che non hanno udito
perché dormono nei loro mantelli, laggiù all'altro capo della sala, seduti
dietro la gente ritta?
«È una pazzia» si disse Marina, «e io
che mi stillo il cervello a questo modo, sono ridicola! Ridicola!» ripeté ad
alta voce e balzò in piedi.
La parola uscita dalle labbra le
parve più aspra della parola stessa concepita nel pensiero. Più aspra, non
solo; anche eccessiva e falsa. Ne rimase ferita come se non l'avesse
pronunciata lei. In pari tempo le entrò prima nel cuore, poi per tutte le
membra una agitazione sorda, un'alternativa di stanchezza e d'impaziente
ardore, una cupa resistenza alla volontà.
Meraviglioso il caso che l'aveva
portata, nel fiore della gioventù e della bellezza, da Parigi, a quella stanza
disabitata da settant'anni! Meraviglioso il caso che aveva appiccato l'anello
all'uncino del segreto, sì che ella potesse leggere: «Tu che hai ritrovato e
leggi queste parole, conosci in te l'anima mia infelice!»
Delirio! Ma dove era una traccia di
vaniloquio in quello scritto? Concitazione sì, disordine sì, ma una prigionia
di cinque anni, un concetto così straordinario nella mente! Concetto antico! Ma
non sarebbe questa una ragione di credere? Marina tremò, le parve sentirsi
chiamare, pregare da tante anime ignote che avevano avuta questa fede, le parve
seguire un momento il loro slancio. E il sangue le correva sempre più tempestoso,
la intelligenza, la volontà venivano mancando.
Non ricordava Camogli né Genova,
Renato né Pellegrina Concetta, non un giorno della esistenza precedente, non
un'ora; ma quanti istanti! Quante volte non le era balenata la ricordanza di
istanti perduti fra le tenebre d'un passato ignoto! Quella sera stessa, le
campane! Le corse un ghiaccio pel sangue, un'oppressione indicibile la strinse
alla gola. Ebbe allora lo sgomento di affogare, l'istinto di salvarsi.
Abbracciò quest'idea che non poteva esser lei Cecilia, perché c'era del sangue
d'Ormengo nelle sue vene; ma il cuore implacabile disse: «No, che importa il
sangue? Tu odii, hai sempre odiato tuo zio, la vendetta è più squisita così;
Dio, perché tu la compia meglio, ti ha posto dentro, irriconoscibile, alla
famiglia del nemico.»
Ma ella adesso aveva paura, voleva
sottrarsi alla lotta; diè di piglio al lume e passò nella camera da letto. Le
finestre erano aperte; un soffio di vento le spense la candela. Volle
riaccenderla, ma non sapeva che si facesse, e non vi riuscì. Si gittò spossata
alla finestra per aver ristoro. Colà le tornò subito a mente come, la sera del
suo arrivo al Palazzo, guardando da quella finestra, nella notte, avesse
creduto riconoscere un antico sogno, una immagine sinistra, apparsale altre
volte nelle ore gaie della sua vita mondana. Fu l'ultimo colpo; una commozione
senza nome le oscurò il pensiero e la vista, credette udire mille sussurri
levarsi intorno a lei, mescolarsi per l'aria, confondersi in una voce sola; si
portò ambe le mani alla fronte e cadde a terra.
Nell'oscuro lume delle stelle diffuso
sul pavimento davanti alla finestra giaceva la bianca persona come sciolta dal
sonno. Chi avrebbe detto che vi fosse là una donna svenuta? Nel palazzo tutti
dormivano; i grilli e gli usignoli cantavano allegramente; i soffi brevi e
vivaci della chiara notte di aprile entravano curiosi per le finestre aperte,
frugavano, bisbigliavano dappertutto; e da una barca lontana indugiatasi più
delle altre sul lago veniva il canto spensierato:
E cossa l'è sta Merica?
L'è un mazzolin di fiori
Cattato alla mattina
Par darlo alla Mariettina
Che siamo di bandonar.
Solo lo zampillo del cortile
raccontava in aria di mistero agli arum una storia lunga lunga ch'era
ascoltata con religioso silenzio. In tutto il cortile non si moveva fronda. Era
forse la storia della donna svenuta là presso, ma non riusciva possibile a
orecchio umano intenderne sillaba, né sapere, perciò, se la donna vi fosse
chiamata Marina di Malombra o Cecilia Varrega.
Conseguenza di quella notte fu per
Marina una violenta febbre cerebrale di cui nessuno poté indovinare la causa. È
quasi impossibile che l'inferma non si sia fatta sfuggire durante il delirio
qualche allusione al fatto straordinario onde avea riportato impressioni sì
gravi; ma quelle allusioni dovettero essere assai rade e vaghe, perché non
fecero sospettare di nulla. La volontà gagliarda di Marina, benché sconnessa e
rotta dal male, lavorava ancora per un impulso ricevuto prima. Essa voleva
tacere. La presenza del conte Cesare era il più terribile cimento per lei.
Quando vedeva il conte, e anche solo all'udirne i passi pel corridoio vicino,
l'ammalata diventava furibonda, urlava, smaniava senza articolar parola; per
modo che, dopo i primi giorni di malattia, le visite dello zio cessarono.
Questa ripugnanza fu molto commentata dai domestici e dalle comari pettegole di
R... Si fabbricarono parecchie novelle assurde. La interpretazione più creduta
fu che il conte voleva sposare Marina, contro la inclinazione di lei, e che la
ragazza n'era impazzita. Il chiarissimo professore B..., chiamato da Milano in
aiuto del povero pitòr che non sapeva più in qual mondo si fosse, credette
di dover tastare il conte su questo delicato argomento dell'antipatia violenta
che l'ammalata gli dimostrava, e lo fece con moltissimo garbo, mettendo avanti
l'interesse medico della questione. La risposta del conte non fu altrettanto
diplomatica.
«Mia nipote» diss'egli «mi deve forse
qualche beneficio; non però tanto grande da odiarmi per questo. Ella è una
giovane molto intelligente e io sono un vecchio quasi rimbambito; ho motivo di
credere che siamo, in molte cose, agli antipodi; malgrado tutto questo non mi è
mai passato pel capo di sposarla, come probabilmente vi avrà detto il nostro
medico, il quale beve come una spugna tutto quello ch'è stupido; e non lo fa
apposta. Tornando a mia nipote, le nostre prime impressioni reciproche furono
disgustose più del necessario; però ci abbiamo versato su molto zucchero, e,
per parte mia, non sentivo più quel sapore. Del resto io credo, caro
professore, che quando uno ha messo il suo cervello a rovescio, se dice nero,
bisogna intender bianco.»
La scienza del prof. B..., aiutata
dall'umile ignoranza del suo collega, vinse il male. Dopo un mese e mezzo
Marina comparve in loggia. Era pallida, aveva gli occhi assai più grandi del
solito e velati da un languore attonito. Si sarebbe detto che il vento dovesse
curvarla come un sottile getto di acqua. Il vigore e la bellezza tornarono
rapidamente, ma un osservatore attento avrebbe notato che l'espressione di
quella fisonomia era mutata. Tutte le linee apparivano più decise; l'occhio
aveva tratto tratto degli stupori insoliti, oppure un fuoco triste che non gli
si era mai veduto. Quel velo di dissimulazione, in cui Marina si era venuta
avvolgendo, scomparve. La memoria delle sue piccole ipocrisie d'una volta la
irritava. La sua eleganza, prima correttissima per non offendere l'austero zio
e per accordarsi con l'ambiente, pigliò un accento strano, provocatore. Candidi
stormi di biglietti stemmati, cifrati e profumati si incrocicchiarono daccapo
nel regio antro postale di R... Uno stillicidio di drammi e di romanzi francesi
si avviò dalla libreria Dumolard al Palazzo. Il piano gittò a tutte le ore,
fosse o no il conte in biblioteca, un fuoco vivo di Bellini, di Verdi e di
Meyerbeer e Mozart. Meyerbeer e Mozart erano i soli due maestri cui Marina
perdonava d'esser tedeschi; al primo in grazia della sua cittadinanza francese,
al secondo in grazia del solo Don Giovanni.
Ricominciarono le corse sfrenate pel lago
e pei monti, malgrado venti e piogge, di giorno e di notte; corse nelle quali
il Rico faceva con entusiasmo la parte di guida, di cavaliere devoto e di cane
fedele. Inoltre, con grande stupore degli abitanti di R..., Marina si pose a
frequentare la chiesa, dove in passato non aveva mai posto piede. Per vero dire
questo suo risveglio di pietà era assai bizzarro, perché alla messa festiva non
la si vedeva mai comparire. Andava in chiesa quando non c'era nessuno, talvolta
di mattina, talvolta di sera. Un giorno che la trovò chiusa andò risolutamente
dal curato a cercar la chiave. La serva del curato ebbe a rimaner di stucco
aprendo l'uscio alla «Signora del Palazzo», e più ancora udendosene chiedere la
chiave della chiesa. Il suo primo istinto fu di chiuderle la porta in faccia,
non che di rifiutare la chiave; ma le labbra osarono solo dire che ne avrebbe
riferito al padrone, al quale corse subito raccomandandogli di trovare un
pretesto per non dar la chiave a quella strega. Il padrone la rimproverò aspramente
e andò egli stesso ad aprir la chiesa a Marina, che aveva già conosciuta in
qualcuna delle sue rade visite al Palazzo.
Non è difficile immaginare come
procedessero, in tale stato di cose, le relazioni fra zio e nipote. Essi potevano
paragonarsi a due punte metalliche fortemente elettrizzate, che non s'accostano
mai l'una all'altra senza scambiare scintille che vorrebbero essere folgori. A
viaggiare Marina non ci pensava più. Durante la sua convalescenza il medico
gliene aveva parlato, facendole presentire, per incarico avutone, l'assenso del
conte. Ella rispose che non intendeva affatto muoversi dal Palazzo, che l'aria
le faceva benissimo e che il signor dottore non ne capiva niente.
Ella e il conte non si vedevano, si
può dire, che a pranzo, ma si combattevano sempre. Persino le suppellettili del
palazzo erano penetrate di quella sorda inimicizia e parevano pigliar parte
quando per l'uno quando per l'altra. Certe finestre, certi usci si
pronunciavano due o tre volte al giorno. Marina li faceva aprire, il conte li
faceva chiudere. Un povero vecchio seggiolone del corridoio dei paesaggi vi
perdette il suo decoro e la sua quiete. Quasi ogni giorno un decreto lo
traslocava in faccia a un grande Canaletto, e un altro decreto lo ricacciava al
posto di prima. Fanny, nell'esercizio delle sue funzioni, portava sempre alto
il nome e i voleri della sua «signora»; gli altri domestici accampavano quelli
del padrone; la buona Giovanna cercava di metter pace, ma non riusciva spesso
che a guadagnarsi qualche impertinenza di Fanny, e se ne struggeva in silenzio.
Il conte abborriva i profumi, per cui Marina ne usava un po' più che non
permetta il buon gusto. Libri francesi dimenticati qua e là per la casa
ridevano in viso al vecchio gallofobo che ne fremeva sino al vertice de'
capelli. I fiori più belli del giardino sparivano appena sbocciati, malgrado il
tempestare del conte contro il poco vigile giardiniere e contro Fanny a cui gli
piaceva attribuire quei guasti. Con lei, naturalmente, non si imponeva ritegni;
per poco un giorno non la gittò nel lago. Fu una fortuna per Fanny, perché il
conte, pentito di quell'eccesso, non mandò ad effetto il suo proposito di farla
inesorabilmente cacciare. Però i rabbuffi spesseggiavano sempre e violenti,
molte volte, più del ragionevole, perché miravano a passar lei da banda a banda
e cogliere Marina.
A fronte di questa il conte, di
solito, si frenava, fosse per la memoria di sua sorella che aveva molto amata,
o per un sentimento cavalleresco, o per timore di uscire da' giusti limiti. Il
nuovo contegno della giovane aveva provocato sulle prime recisi rimproveri
fatti da lui con un tono tra il grave e l'acerbo, ribattuti da lei con
freddezza nervosa, piena di recondita emozione. Il conte si ritrasse tosto da
quella via pericolosa e si appigliò al sistema del silenzio accigliato;
silenzio carico di elettricità, interrotto soltanto, come si è già detto, da
fugaci scintille, da lampi di sdegno per parte dell'altra. Qualche volta scoppiavano
dei mezzi temporali che lasciavano il tempo scuro di prima. Il povero Steinegge
non godeva punto fra questi due litiganti: Marina trovava modo di offenderlo a
ogni momento. «Signor conte» diss'egli un giorno al conte Cesare «so che ho la
disgrazia di dispiacere molto alla signora marchesina. È forse la mia vecchia
fisonomia che non posso cambiare. Se la mia presenza può aumentare i vostri
piccoli differenti di famiglia, ditemelo! Io vado.» Il conte gli rispose che,
per ora, in casa sua ci comandava lui; che se il principe di Metternich
offrisse al signor Steinegge il posto di direttore delle sue cantine di
Johannisberg, si permetterebbe al detto Steinegge di partire; altrimenti, no.
Circa un anno dopo la scoperta del
segreto, Marina ebbe dal libraio Dumolard, insieme a quattro o cinque novità
francesi, un libro italiano. Era un racconto stampato dalla tipografia V... -
Portava per titolo: Un sogno, racconto originale italiano di Lorenzo. -
Possiamo aggiungere che la copia spedita a Marina e trattenuta da lei per
noncuranza, era la trentesima spacciata in due mesi dalla pubblicazione.
Marina non aveva punto stima de'
libri italiani e pochissima voglia di legger questo. Se lo lesse fu per una
storditaggine di Fanny che glielo portò una mattina a bordo di Saetta
invece dell'Homme de neige. Giunta nella sua rada prediletta della
Malombra, si accorse dell'errore, e dopo la prima dispettosa sorpresa, si
rassegnò a tentar di leggere.
Il soggetto del libro è questo: Un
giovanotto spossato ed esaltato da soverchie fatiche cerebrali, ha un sogno di
straordinaria vivezza nel quale egli crede vedere rappresentato sotto forme
allegoriche il proprio avvenire. I fatti, interpretati da lui secondo questa
convinzione, vengono confermando la prima parte del sogno. Passano quindici
anni. Tutta la prima parte del sogno, serena e lieta, si è avverata. Ora è la
seconda parte, di cui si aspetta il compimento. Questa seconda parte predice un
amore impetuoso, violento, un delirio dello spirito e dei sensi onde il
protagonista dev'essere tratto a catastrofi spaventose. A trentasei anni,
costui, padre di famiglia, uomo grave che vive ritirato dal mondo per la
segreta paura del suo sogno, si trova con grande angoscia preso d'amore per una
donna cui fu avvicinato da necessità ineluttabili. Questa donna è per altezza
d'animo un ideale più facile a trovarsi oggidì nella vita che nei romanzi. Essa
divide la passione di lui malgrado sforzi eroici di volontà. Lottano ambedue
per dividersi, per salvarsi; ma il cielo, la terra e gli uomini cospirano per
farli cadere. Sull'orlo dell'abisso in cui troveranno la sventura, il disonore
e fors'anco la morte, sfugge all'uomo il segreto della fatalità misteriosa che
lo perseguita e cui non vale a resistere. In quel momento supremo la donna
magnanima si sdegna di cedere al destino e non al proprio cuore, non alla
felicità dell'amante. Con lo sdegno la sua coscienza religiosa si rialza. Gli
amanti si dividono innocenti. L'uomo a poco a poco dimentica, vive tranquillo e
felice. La donna muore.
Il racconto è scritto con pochissima
esperienza della società e delle cose, ma con qualche acume d'osservazione
psicologica. Le descrizioni della natura sono tollerabili, l'elemento
fantastico non vi è adoperato troppo male. Insomma, se non vi fosse tanto
calore virtuoso, se non vi mancassero affatto gli studi fotografici di
appartamenti e di vesti, non che le prove che l'autore conosce un poco anche il
nudo; se lo stile fosse più facile e borghese; sovra tutto se vi si dicesse bono
e bona invece di quel buono e buona che bastano a rivelare
un povero ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di
gusto affatto indegno di comparire tra gli scrittori odierni, una testa da
parrucca; se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l'autore si fosse
date le mani attorno, Un sogno avrebbe probabilmente trovato miglior
fortuna.
A Marina parve andare a sangue,
perché quando l'aperse l'ombra violacea della montagna copriva gran tratto di
lago oltre la rada; quando lo posò, il sole brillava per le vette dei boschi
pendenti sopra il suo capo e l'ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda
in un bel verde smeraldo.
Tornò al Palazzo con la mente piena
di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l'autore, parlargli. Credeva egli in
quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo?
Se il destino era stato vinto, poteva dirsi destino? Se non poteva dirsi
destino, v'hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi,
rappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo
da colpire fortemente la nostra fantasia?
Nessuno rispondeva a tanta furia di domande
e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi né
come avrebbe diretta la lettera, buttò giù d'un fiato otto fitte paginette di
una calligrafia inglese alquanto irregolare, battezzata già da miss Sarah per angloitaliana.
Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di
maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche
alle serie, e colorire la grazia con l'alterezza. Sottoscrisse «Cecilia» e,
dopo un istante di incertezza, aggiunse il seguente poscritto:
«Vorrei pur sapere se credete
possibile che un'anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l'etereo
autore di Un sogno non usa di colombe né di rondinelle postali, come si
potrebbe sospettare, mandi semplicemente la sua risposta al dottor R..., ferma
in posta, Milano.»
Poi Marina scrisse quest'altro
biglietto alla signora Giulia De Bella:
«Aiutami a fare una piccola follìa
ben timida e ben savia. Sono tutta meravigliata di aver letto, non so più bene
se per amore o per forza, un romanzo italiano. Arriccia il tuo nasino ma
ascolta. Questo romanzo è un buon signore timido con i guanti troppo scuri e la
cravatta troppo chiara ch'entra impacciato nel tuo salon, saluta mezza
dozzina di persone prima di te, oscilla un quarto d'ora tra una poltrona, una
seggiola e uno sgabello, e si decide finalmente pel posto più lontano dalle
signore. Ma poi, quando parla, non somiglia a nessun altro del tuo circolo. Ha
delle idee, del fuoco: è un uomo. Ne hai, cara, degli uomini nel tuo circolo?
Se ne hai, pardon.
Non importa punto conoscere il nome
né la persona dell'autore che ci si dice semplicemente Lorenzo. Potrebb'essere
borghese, Matteo e biondo. M'è venuto invece il capriccio di una corrispondenza
letteraria e ne posso avere tanto pochi dei capricci, che li soddisfo tutti
subito. Y. che scrive a X.! Deve essere delizioso, specialmente se X.
risponderà a Y. Potrebbe accadere che X. fosse una consonante di spirito;
questa divertirebbe assai la povera Y. che si annoia come una regina. Ora X.
non ha nemmanco a sapere di dove gli piova la mia lettera; vedi se non è una
follìa savia! Tu dunque, amica mia, farai gettare alla posta l'accluso dispaccio
diretto all'autore di Un sogno presso la tipografia V... Ma, come pensi
bene, non basta. Ti compiaceresti di far cercare fra qualche giorno alla posta
se vi fossero lettere per il dottor R... e di spedirmele se ve ne sono? Gli ho
dato, contando sopra te, questo indirizzo, il meno compromettente possibile. La
cosa è tanto innocente che potresti desiderar di chiedere il permesso di tuo
marito per farla. In ogni caso taci il mio nome. Vi sarà poi qualche cosa per
te. Ti manderò un pezzo di lago pel tuo giardino di via Bigli, per le manchettes
della S... e per le mani illustri del professor G...
I miei omaggi à ton
très-haut seigneur et maître, se lo vedi.
Addio, cara. Sto rileggendo un libro
vecchio, l'Amour di Stendhal. È scritto au bistouri.
«Marina».
La signora De Bella, che aveva fatto
per curiosità qualche follìa meno savia di questa, rispose tra scherzosa e
corrucciata, minacciò l'amica con la punta della sua morale di gomma e
conchiuse accettando; con la riserva sottintesa di leggere le lettere prima di
spedirle. Ell'era, sovra tutto, una donna di coscienza.
La risposta dell'autore di Un
sogno non si fece attendere lungamente. Egli vi sosteneva con maggior cuore
che vigore logico le opinioni espresse nel suo romanzo intorno alla fatalità e
alla potenza invincibile dello spirito umano che vuole. Dimostrava come, negli
avvenimenti a cui deve necessariamente concorrere la volontà dell'uomo con atti
che toccano la sua coscienza morale, questa volontà sia un elemento principale
che ne determina la forma; un'incognita variabile che introdotta nei calcoli
fondati su leggi naturali fisse ne rende sempre incerto il risultato. Negava
poscia l'azione prestabilita e necessaria della volontà che assente al male.
Posto in sodo come basti alla dimostrazione della libertà umana che l'uomo
possa sempre decidersi per il bene, sosteneva che lo può. Diceva che può sempre
attingere l'impulso determinante al bene, dal fondo dell'anima sua stessa, da
un punto di misterioso contatto con Dio ond'entra in lei una forza non
calcolabile. È un gran torto, soggiungeva, della psicologia moderna, di non
avere sufficientemente osservato i fatti interiori che vengono in appoggio di tale
contatto. Colà sta la grande guarentigia della libertà umana.
Quest'azione divina ch'entra dunque
innegabilmente nell'origine delle azioni umane, non si oppone ella per sua
natura al male morale, e non esclude, a priori, che sia mai necessario?
Il mistico scrittore cercava poi dimostrare che neppure alla prescienza divina
potrebbe appoggiarsi una teoria fatalista, perché prescienza e divinità sono
due termini contraddittori, inconciliabili, come tempo e infinito, e nulla se
ne può dedurre.
Tutti questi argomenti erano posti
innanzi con una ingenua foga che poteva salvare l'autore di Un sogno
della taccia di pedante, ma generava il sospetto che egli volesse convincere,
oltre alla sua corrispondente, se stesso.
Spiriti maligni che si pigliano
giuoco di noi, proseguiva, ve ne hanno certo, e possono anche illudere con le
apparenze della fatalità. Tutto fa credere che, come noi esercitiamo un potere
sopra gli esseri che ci sono inferiori, così siamo soggetti, entro certi
limiti, all'azione di altri esseri che ci superano in potenza. Siamo forse
soliti attribuire al caso quello che è opera loro.
I sogni profetici, i presentimenti,
le subitanee inspirazioni artistiche, le illuminazioni fugaci della nostra
mente, i ciechi impulsi al bene e al male, certe inesplicabili allegrezze e
malinconie, certi movimenti involontari della nostra memoria, sono
probabilmente opere di spiriti superiori, parte buoni, parte malvagi.
Tali considerazioni, scriveva
Lorenzo, cadono tutte se non si ammette Dio. Esprimeva quindi la speranza che
Cecilia non fosse atea, nel qual caso, avrebbe, a malincuore, troncato ogni
corrispondenza con lei.
Veniva in seguito alla pluralità
delle esistenze terrestri.
Lorenzo credeva alla pluralità delle
esistenze. Lo stato dello spirito nel corpo umano è indubbiamente, diceva, uno
stato di repressione, uno stato di pena, la quale non può riferirsi che a colpe
commesse prima della incarnazione terrestre. I dolori degli innnocenti e, in
genere, la distribuzione ineguale del dolore e del piacere tra gli uomini,
senza riguardo ai meriti e ai demeriti della vita presente; la sorte delle
anime che escono pure dalla vita dopo un'ora della loro venuta ottenendo quel
premio che ad altri costa lunghi anni di lotte durissime, non possono meglio
spiegarsi che con l'attribuire alla nostra esistenza attuale un carattere di
espiazione insieme a quello di preparazione. Ammesso il principio della
pluralità delle esistenze, l'autore di Un sogno diceva che la ragione
umana non può andare più avanti, e che il problema se le nostre vite anteriori
sieno state terrestri o siderali va lasciato alla fantasia.
La lunghissima lettera, un volume,
finiva col voto molto poeticamente espresso che la corrispondenza misteriosa
avrebbe continuato. La signora De Bella venne presto a capo, con le sue dita
industriose, della busta, ma non resse a tanta filosofia e dalla prima pagina
saltò alla chiusa: poi scrisse sulla sopraccarta: «Sono sicura ch'è
perfettamente morale; è così pesante!».
Marina invece divorò lo scritto.
Sorrise appena dell'ingenuità di quell'uomo che rispondeva con tanta foga a
un'incognita. Palpitò leggendo il nome di Cecilia a capo della lettera e
nella chiusa. Naturalissimo che ci fosse; ma pure n'ebbe una impressione
profonda.
Passato qualche tempo, riscrisse
dissimulando affatto le sue vere impressioni. Non parlava più in questa seconda
lettera di fatalità né di esistenze precedenti; come per trarre scintille di
spirito dal suo corrispondente, se ne aveva, lo veniva pungendo in mille modi.
Scherzava sulla pedanteria della sua risposta, sulla sua pietà, sulla goffaggine
del suo pseudonimo: gli chiedeva con un tono di curiosità impertinente se vi
fosse qualche cosa di vero nel suo racconto, se avesse pubblicati altri lavori,
perché si tenesse celato. La lettera fu ricevuta da Corrado Silla un quindici
giorni prima della sua partenza per il Palazzo. Noi sappiamo come rispose.
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