Capitolo VII
CONVERSAZIONI
Quel giorno la gentildonna
veneziana di Palma il Vecchio fu scherzosamente pregata di uscire dalla sua
cornice e di sedere a pranzo. La bella donna rispose col solito sorriso. Benché
la mensa brillasse di argenti, di cristalli e di fiori, non valeva ad allettare
lei, cresciuta fra magnificenze orientali. E poi, quale squallida comitiva di
adoratori a' suoi piedi! Chi la pregava di scendere era il comm. Finotti,
deputato al Parlamento, prossimo alla sessantina, con gli occhi tutti fuoco e
il resto tutto cenere. C'era pure il comm. Vezza, letterato, aspirante al
Consiglio superiore d'istruzione pubblica e al Senato, piccolo, tondo,
imbottito di dottrina e di spirito, caro a molte signore ma non a quella lì,
che non era letterata né ipocrita e rideva di quegli occhiali d'oro, di quel
carnierino grigio corto, di quelle forme da soldatino di gomma. C'era il prof.
cav. ing. Ferrieri: fisonomia nervosa, occhio intelligente, sorriso scettico,
cervello e cranio perfettamente lucidi. Neppure costui poteva allettare la
bella veneziana. Ella era troppo del secolo XVI e lui troppo del XIX. Nato con
una scintilla di poeta e d'artista, l'avea convertita in agente meccanico.
C'era l'avvocatino Bianchi, giovinotto elegante, timido, con un'aria di sposina
imbarazzata, tutto tepido ancora del nido di famiglia. Anche di lui sorrideva
dall'alto la esperta dama. Altre facce nuove non c'erano, perché non poteva
contarsi fra queste la trista figura del dottore, sdrucciolato senza invito
nella sala da pranzo.
Chi aveva portato quegli ospiti al
Palazzo era stato il solitario fiumicello ch'esce dal lago a ponente, fra i
pioppi. Alcuni capitalisti di Milano avevano incaricato il prof. Ferrieri di
recarsi a visitare l'emissario del piccolo lago di... e a studiare se ci fosse
forza bastante per una grande cartiera.
Il professore doveva schizzare un
progetto sommario, tastare il Municipio di R... per la costruzione di un tronco
di strada e fors'anche per la cessione gratuita di un fondo comunale. Egli era
un ingegnere di molta fama; quattro sgorbi col suo nome avrebbero fatto piovere
gli azionisti. Aveva portato con sé suo nipote avvocato per la parte legale
dell'affare. Il commendatore politico e il commendatore letterato, vecchi amici
del conte Cesare e dell'ingegnere, si erano accompagnati a questo per fare al
Palazzo una visita promessa fino dal 1859.
Il pranzo fu eccellente e largamente
inaffiato di spirito. I motti dell'onorevole deputato si urtavano con le
freddure dell'uomo di lettere, con gli epigrammi incisivi dell'ingegnere
professore. Il vocione del conte copriva spesso le altre voci, il tintinnìo
delle posate e dei cristalli, il cozzo sguaiato dei piatti e tutto quanto. Il
giovane avvocato taceva, mangiava poco, beveva acqua e guardava Marina.
Steinegge e il dottore bisbigliavano insieme, scambiavano qualche rara parola
con Silla. Questi, distratto, assorto in altri pensieri, tante volte non
rispondeva loro nemmeno, o rispondeva a sproposito.
Marina pure era taciturna.
I due commendatori suoi vicini
chiedevano aiuto alla Natura, all'Arte, al cielo e alla terra per farla parlare
e non riuscivano a trarle di bocca che radi monosillabi. Però il suo viso, il
suo sguardo, che non si rivolse mai a Silla, non esprimevano preoccupazione
alcuna. Il commendator Vezza, che aveva la manìa di saper tutto, le domandò,
per ultimo tentativo, se conoscesse un certo punto di ricamo di nuova
introduzione, che a Milano tutte imparavano. Ella gli rispose con una sommessa
esclamazione di meraviglia sdegnosa che turbò molto il dotto uomo e lo spinse a
buttarsi subito fra i discorsi degli altri. Si parlava della futura cartiera.
L'ingegnere vantava le nuove macchine che si sarebbero introdotte per fare e
adoperare la pasta di legno. Steinegge si stupiva che la pasta di legno fosse
una novità per l'Italia; secondo lui l'uso n'era divulgatissimo in Sassonia. Il
Vezza osservò che in Italia usavano gli azionisti di pasta di legno e le azioni
di cenci; fece poi dei commenti agrodolci su questo germanismo industriale
tanto riprensibile, secondo lui, quanto il germanismo letterario. La
discussione s'infervorò subito. Il Finotti sosteneva il Vezza; l'ingegnere lo
combatteva. Steinegge, rosso rosso, fremeva in silenzio, versava Sassella,
versava Barolo sulle piaghe del suo amor proprio nazionale.
«Quella è la miglior poesia italiana,
non è vero?» gli disse ridendo l'ingegnere.
Steinegge giunse le mani, soffiò e
alzò gli occhi al cielo senza parlare, come un vecchio serafino estatico.
«Ben detto, signor Steinegge, bravo»
gridò l'onorevole deputato. «Cesare, tra poco ci capita la Giunta di R..., non
è vero, per conferire qui con Ferrieri sotto i tuoi auspici? Bisogna
inzupparmela di questo Barolo. Per quanto siano duri quei signori, l'amico se
li mangerà facilmente, uno dopo l'altro.»
«Oh, non li conosci» rispose il
conte. «Essi berranno il mio vino e le ragioni del signor professore, loderanno
tutto e non si decideranno a niente. Questa gente, più la si accarezza, meno si
fida. E non ha poi tutti i torti.»
«Già! Timeo! Ma intanto lui,
il professore, non porta nessun dono, e poi, per fortuna, ha un profilo così
poco greco! Non Le pare, marchesina?»
Marina rispose asciutto che non si
occupava di greco.
«E lui son quarant'anni che va
dimenticando di essersene occupato male» disse il professore. «Non gli dia
retta. Del resto, non sono greco ma ho il Pattolo in tasca. Duecentocinquanta
fra operai e operaie, una dozzina d'impiegati tecnici e amministrativi,
l'esempio, sopra tutto l'esempio! Sapete quanti opifici si potranno piantare
con quell'acqua lì! Dopo verrà la necessità d'una ferrovia.»
«Prova generale» sussurrò il
commendator Vezza.
«Insomma il Municipio di R... mi deve
buttare ai piedi la strada, il terreno e il diploma della sua cittadinanza.»
«Castelli di carta. Ah, una trota, salmo
pharius. Rossa, di fiume. Queste ce le guasterai di sicuro con la tua
carta.»
Ciò detto, il comm. Vezza impegnò con
il conte, l'ingegnere e Steinegge un dialogo assai vivo sulle trote d'ogni
razza e paese, sulle reti, sugli ami, sulla piscicoltura. Intanto l'uomo
politico trovò modo di avviarne uno più intimo col dottore, suo vicino, intorno
a Corrado Silla; ne raccolse con voluttà le maldicenze che correvano sulla
origine del giovane. Quando poteva mettere il dito sopra una debolezza umana di
quel genere, una debolezza di puritano, inaspettata, curiosa, era felice.
«Dunque» diceva il comm. Vezza «per
le trote di fiume s'infilza sull'amo una mosca... o un lombrico...»
«O un poeta tedesco» suggerì
l'ingegnere.
«No, chi ne mangia? Neppure un
ingegnere. Gli è per pigliare i sindaci lacustri che s'infilza sull'amo un
pezzo grosso dell'Università incartato in un progetto...»
Qui il commendatore si cacciò in
fretta una mano sulla bocca, perché, annunciati dal cameriere, entravano il
Sindaco e la Giunta di R...
Movimento generale, strepito di
sedie, presentazioni cerimoniose, silenzio, tintinnìo di tazze, brindisi
eloquente del commendator Vezza alla futura prosperità del Comune di R... «così
degnamente e sapientemente rappresentato». Dell'amo non parlò. Il Sindaco e la
Giunta lo guardavano trasognati, con la vaga inquietudine di chi sente farsi
gran lodi e non sa perché, e teme d'esser caduto in qualche imbroglio. Poi
tutti si alzarono. Il conte, l'ingegnere, l'avvocatino e la Giunta si strinsero
a conferire insieme.
Il comm. Finotti diede il braccio a
donna Marina sussurrandole alcune parole francesi e sorridendo, probabilmente
all'indirizzo delle autorità che spandevano un disgustoso odore di fustagno. Si
respirava uscendo da quel caldo nell'ombra fresca della loggia, dove veniva su
dal cortile un soave odore di rhynchospermum fiorito. Anche il lago
davanti al Palazzo taceva per un gran tratto nell'ombra. Le montagne in faccia
e l'acqua in cui si specchiavano eran dorate. Il ponente splendeva, sereno. A
levante, l'Alpe dei Fiori, infocata, toccava il cielo nero, tempestoso.
«Bello!» disse il comm. Finotti
appoggiandosi alla balaustrata; «bello, ma troppo deserto. Come Le passa il
tempo in quest'èremo, marchesina?»
«Non passa del tutto» rispose Marina.
«Ci sarà però nei dintorni qualche
essere umano lavato e pettinato da poter dire due parole.»
«Ce n'è uno dipinto.»
Accennò il dottore che stava presso
l'entrata della loggia ascoltando a bocca aperta un vivacissimo dialogo tra il
Vezza e Steinegge. Silla si teneva in disparte, guardava il getto d'acqua nel
cortile.
«Ma Cesare» insisté il Finotti «ha
sempre ospiti. Anche adesso, mi pare...» soggiunse con una voce piena di
domande sottintese, guardando la giovane signora, che sporse il labbro
inferiore senza rispondere.
«Come mai è amico di Cesare?» disse
il commendatore sottovoce.
«Non lo so.»
«Io però lo invidio».
«Perché?»
«Viver vicino a Lei!»
«Può essere assai poco piacevole agli
altri se non garbano a me» disse Marina con l'accento e l'atto di chi vuol
troncare un discorso.
«Vezza!» gridò forte il Finotti «come
puoi star a parlare di trote, perché tu già parli di trote o di granchi, dove
c'è una dama? Vedo che al mio garbatissimo amico dottore ci fai una pessima
impressione.»
Il garbatissimo amico si sviscerò in
proteste.
«Marchesina» disse il Vezza,
avvicinandosi «oda come si ricompensa l'abnegazione di un amico che vi cede il
primo posto!»
«L'aveva Lei?» rispose Marina con uno
dei suoi sorrisi; e senz'attender la replica, si rivolse a Steinegge:
«Tre sedie» diss'ella.
V'erano cinque persone in loggia e
neppur una sedia.
«Quando una signorina ordina» rispose
Steinegge dopo un momento di silenzio «un capitano di cavalleria può portarne trenta.»
Il commendatore Finotti osservò
Silla. Era pallido e guardava Marina con fuoco così sdegnoso che parve sospetto
a quel dilettante di psicologia pratica.
«Tutti in piedi?» disse il conte
affacciandosi in quel punto alla loggia con l'ingegnere, l'avvocato e le
Autorità. «Caro Steinegge, abbia la bontà di dire che portino delle sedie. Il
professore desidera vedere se e come si potrebbe stabilire un barraggio
regolatore delle piene del lago; se occorra qualche altra operazione alla
soglia dell'emissario. Io lo accompagno. Questi signori preferiscono rimanere».
«Noi leveremo l'incomodo» disse uno
degli assessori.
«Che diavolo!» replicò il conte.
«Bisogna far visita a mia nipote, adesso. Quando crede, professore...»
Il professore distribuì in fretta
sorrisi e strette di mano ai cinque dignitosi municipali e partì col conte.
«Noi faremo ballare gli orsi»
sussurrò il commendator Finotti a donna Marina.
Ma gli orsi non erano tanto orsi
quanto s'immaginava lui. Tre di essi, gli assessori supplenti e il Sindaco, si
conoscevano abbastanza per non aprir bocca mai. Gli altri due, gli assessori
effettivi, potevano dar dei punti, per furberia, al signor commendatore. Per
scioltezza di scilinguagnolo non gli stavano troppo al disotto, posto ch'erano
contadini; grassi se si vuole, ma contadini da gerla e da zappa. «Siamo poveri alfabeti
di campagna» diceva uno di loro. Avevano finissimo il fiuto della canzonatura.
Si parlò, naturalmente, della
cartiera. Il Finotti fece una pittura, a gran tratti di scopa, delle meraviglie
industriali che si sarebbero vedute, dei favolosi guadagni che avrebbe fatto il
paese. I due approvavano col capo a più potere, fregandosi i ginocchi con le
mani.
«Com'è diventato aguzzo il mondo!»
disse il più vecchio.
«E noi restiamo sempre tondi» rispose
l'altro. «Almeno se non ci piallano un poco.»
«Comune ricco, già» disse il Finotti.
«Sì, quattro sterpi e un paio di
viaggi d'erba, su quelle croste là in faccia, dove tutti si servono. Quando li
avremo mangiati per far la strada della cartiera, allora diventeremo ricchi; ma
per adesso... Allora sì. Sarà forse per quel vino che ci ha favorito, per sua
grazia, il signor conte, allora mi pare che abbiamo da diventar signori bene. È
un gran vino; ma sarà mica traditore? Cosa ne dice Lei, signor tedesco, che lo
vedo qualche volta dalla Cecchina gobba?»
«Ah! Ah!» soffiò Steinegge senza
capir bene.
«Ehi!» esclamò il Vezza accorgendosi
dei nuvoloni neri che ingrossavano a levante. «Vuol far temporale.»
«Oh signor no» disse l'assessore che
aveva parlato prima «per adesso no; stanotte, forse.»
«Come si chiamano quei sassi là in
alto dove batte il sole?»
«Noi li chiamiamo l'Alpe dei fiori.
Da ragazzo ci sono stato anch'io lassù, a far fieno. Potevano metterci nome
l'Alpe del diavolo ch'era più meglio.»
«C'è bene, lassù, il buco del
diavolo» disse l'altro assessore.
«Ah, c'è un buco del diavolo?» disse
Silla «E perché lo chiamano così?»
«Ma, io non saprei mica, vede.
Bisogna domandare alle donne. Loro contano un sacco di storie!»
«Per esempio, dicono che per quel
buco si va all'inferno, che è un piacere, dritti come i, e che i
beniamini del diavolo piglian tutti quella strada là. Ci fanno anche il nome a
tre o quattro che ci son passati.»
«Ah sì?» disse il commendator
Finotti. «Sentiamo.»
«Proprio non mi ricordo, sa...»
«Gente del paese, già?»
«Del paese e mica del paese. Non mi
ricordo.»
Qui l'onorevole Sindaco uscì, in mal
punto, dal suo prudente silenzio.
«Pare impossibile, Pietro» diss'egli
«pare impossibile che non vi ricordiate. La matta!...»
«Che asino!» mormorò fra i denti il
poco riverente assessore; e non disse altro.
«Bravo Sindaco. A Lei! Lei deve ben
sapere da che parte vanno all'inferno i Suoi sudditi, diavolo! Racconti dunque!
Non sarà mica un segreto d'ufficio, spero.»
Il Sindaco, accortosi troppo tardi di
aver posto un piede in fallo, si andava contorcendo sulla sedia.
«Storie vecchie» rispose «storie
vecchie. Sarà un affare di forse seicento anni fa.»
«Ouf, seicento! Non saranno neanche
sessanta» disse un altro municipale che fino allora era stato zitto.
«Bene, bene, sessanta o seicento, è
sempre una storia vecchia, e qui ai signori può interessar poco.»
Ma il povero Sindaco, preso alle
strette, non trovò modo di schermirsi; e, per non aver più quel peso sullo
stomaco, lo buttò fuori a un tratto.
«Ecco, questa matta era la prima
moglie del povero conte vecchio, qui del Palazzo; una genovese, che ha
scappucciato, pare, un tantino, e suo marito l'ha condotta qui, l'ha tenuta
come in castigo, ed è stato qui anche lui finché è morta; la gente dice che il
diavolo se l'è portata a casa per di là.»
Mentr'egli parlava, Marina si alzò,
gli voltò le spalle. I suoi colleghi gli fecero gesti di rimprovero. Il Vezza
disse a caso:
«È la barca di Cesare quella là?»
«Bei tempi!» esclamò Silla con voce
sonora.
Tutti, tranne Marina, lo guardarono
sorpresi.
«Tempi di forza morale» proseguì
senza badare a quelle occhiate. «Di forza morale organica. Adesso si hanno le
convulsioni, gl'impeti di passione sfrenata, e, in fondo, egoista. Se una donna
tradisce, la si ammazza o la si scaccia. Vendicarsi e liberarsi: ecco lo scopo.
Allora no. Allora vi era qualche gentiluomo capace di seppellirsi con la colpevole
in un deserto e di dividere la espiazione senz'aver divisa la colpa, rompendo
tutti i vincoli del mondo, per rispetto a un vincolo sacro, benché doloroso.»
Marina, senza voltarsi, sfrondò
nervosamente con la destra un ramo di passiflora.
«Può essere stata una vendetta
atroce» disse il Finotti «un omicidio lento e legale. Che ne sa Lei?»
«Non lo so; non credo che il padre
del conte Cesare sia stato capace di questo. E poi, ci occupa, ci commuove la
pena; ma la colpa? Chi era questa donna? Chi ci può dire?...»
Donna Marina si voltò.
«E Lei» diss'ella con voce rotta
dalla collera «chi è, Lei? Chi ci può dire neppure il Suo vero nome?
S'indovina!»
Aperse con impeto l'uscio che metteva
nell'ala di ponente e scomparve.
Medusa non avrebbe impietrato meglio
di lei quel gruppo d'uomini.
Silla sentiva di dover dire qualche
cosa, e non sapeva che. Gli parve di aver toccato un gran colpo di mazza sulla
testa e di barcollare. Finalmente, a stento, raccapezzò un pensiero.
«Signori» diss'egli «sento che mi si
è gettata un'ingiuria: non so quale, non intendo!»
Le parole no, ma l'accento, le
braccia, gli occhi, dicevano: Se avete inteso, parlate. I commendatori e il
medico protestarono silenziosamente, col gesto, di non saper nulla, gli altri
stavano a bocca aperta. Steinegge prese Silla a braccetto, lo trasse via
dicendogli: «Adesso conoscete, adesso conoscete.»
La Giunta di R... e il dottore si
ritirarono subito.
«Bel finale!» disse il commendator
Vezza, passato il primo sbalordimento. «Hai capito tu?»
«Eh altro» rispose il Finotti. «È
chiaro come l'acqua.»
«Torbida.»
«Ma che? vuoi sentire? Quel
giovinotto lì, piovuto al Palazzo dalle nuvole, è un peccatuccio dell'amico
Cesare. Alla damigella ci ha seccato mortalmente. Capisci, vedersi portar via
sotto il naso uno zio siffatto! Ci sarebbe, per salvar tutto, la solita
combinazione, e questa scommetto che è l'idea di Cesare, ma!... A Parigi o a
Milano o nel mondo della luna ci deve essere un ma con un cilindro
etereo e dei calzoni ideali. Sarà biondo, sarà bruno, sarà quel diavolo che
vuoi: c'e sicuramente. Dunque, niente combinazione; guerra! Non è chiaro?»
«Non sai niente, caro mio. Che si
possa arrischiare un sigaro?» Qui il commendator Vezza si divertì ad accendere
il sigaro, sciupandovi silenziosamente una mezza dozzina di fiammiferi. «Sì, la
Mina Pernetti Silla, bella donna, bellissima donna! è stata veramente amica di
Cesare, ma una amica!...»
Il commendatore gittò in alto una
boccata di fumo, l'accompagnò su con l'occhio e con la mano disegnando in aria
degli zeri allegorici.
«Lei» proseguì «era figlia di un
consigliere d'appello tirolese. Sai che Cesare fu espulso di Lombardia nel
1831? Credo che volesse liberar l'Italia per potersi sposare poi senza scrupoli
quella tirolesina bionda. Ell'avrà avuto un ventidue anni. Il papà l'avrebbe
arrostita piuttosto che darla a un liberale. Lei tenne saldo, povera ragazza, a
non volersi maritare, fino a ventisei anni. Suo padre, un mastino, credo che la
mordesse. Un bel giorno piegò il capo e prese un figuro, un austriacante marcio
che fece denari con le imprese e poi se li mangiò tutti, andò via con i
tedeschi nel 59 e dev'esser morto a Leibach, credo. La Mina e Cesare non si
videro mai più, ma si scrissero sempre non d'amore, veh! neppur per sogno.
Quello lì? Quello lì è un giansenista che non va a messa. Ella non gli scriveva
che di suo figlio, lo consultava. È morta nel 58, e tutto questo io l'ho saputo
dopo, da un'amica sua. Ora domando io se è chiaro. Domando io cos'ha da temere
la marchesina di Malombra, che ragioni aveva...»
«Sì, sì, sarà tutto vero, vuol dire
che lei non sa le cose a questo modo. Ma poi, come mi parli di ragioni in una
testolina così bella? Non vedi, perdio! che occhi? Lì dentro ci sono tutte le
ragioni e tutte le follie. Averla per un'ora, una donna così bella e così
insolente. Si deve impazzire di piacere.»
«Peuh!» disse il letterato «è troppo
magra.»
Ma l'onorevole deputato fece di
questa censura una confutazione così scientifica che non può trovar posto in un
lavoro d'arte.
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