Capitolo II
QUID ME PERSEQUERIS?
Egli dormì poco quella
notte. Da S. Ambrogio la gran voce solenne delle ore gli riempiva la stanza, si
confondeva al suo sopore inquieto, mettendovi l'aspettazione del domani
sconosciuto. Verso l'alba si addormentò profondamente e non si svegliò che a
giorno inoltrato. Una luce grigia entrava dalla finestra. Pioveva.
Silla si sentiva rotta la persona
come se avesse fatto quella notte venti leghe a piedi per domare un'agitazione
febbrile, cresciuta invece con la spossatezza del corpo. Gli venne l'idea di
uscire per una lunga corsa sui bastioni ma poi non ne fece nulla. Rimase un
pezzo seduto sul letto a guardar dalla finestra il cielo freddo, uggioso come
di febbraio, i tetti lucidi, e contro le scure finestre opposte, i fili tremoli
della piova che sussurravano sulle tegole come uno strascico di veli leggeri e
schiamazzavano nel cortile sotto i canali.
Guardava, si può dire senza pensare
o, almeno, pensando senza il governo della volontà, disordinatamente. Era la
penombra di un sogno in cui le idee duravano a muoversi a caso come ospiti
stupefatti di stanze signorili dove il padrone non compare. Egli sentiva però
nel cuore qualche cosa che la sera precedente non c'era ancora, un misto di
stanchezza e di eccitazione, una sorda sofferenza che si ravvivava quando negli
occhi intenti alla piova gli entrava lo sguardo immaginato di Edith. Era un
triste dubbio che gli faceva male. Le nuvole grigie lo sapevano, la piova lo
diceva e lo ripeteva:
«Piangi, piangi, non ti ama, non ti
ama.»
Egli durava fatica a difendersi dallo
stolto sospetto che anche Edith avesse cangiato dalla sera precedente, come il
cielo; che la notte, il sonno, altri pensieri avessero spenta la sua
inclinazione nascente, se pure questa inclinazione non era un abbaglio
visionario. Sarebbe andato da lei quel giorno stesso a portarle Un sogno;
gliel'aveva promesso. Come ne sarebbe accolto?
Teneva presso di sé quasi tutta
l'edizione del suo libro, un gran fascio di copie, polverose al di fuori,
candide, intatte al di dentro, come vecchie monachelle innocenti. Ne tolse una
e pensò alla dedica che avrebbe dovuto scrivere. Ne preparò otto o dieci. Quale
gli pareva fredda, quale pretensiosa. Finalmente scrisse sulla guardia del
libro:
Alla Primavera blanda
C.S.
Subito dopo ne fu malcontento,
sentì che bisognava dire di più, farle intendere quel che sentiva. Sul libro
stesso? No, non era conveniente. Perché? Non trovò un perché abbastanza
imperioso e scrisse sotto la dedica: «La Primavera blanda è amata da uno
scrittore oscuro cui nessuno ama. Per lei, per lei sola egli potrà esser grande
e forte, vincer la fortuna e l'oblio. Se n'è respinto, si lascerà cadere a
fondo».
Appena scritto volle troncare con un
lavoro pacato quell'agitazione che lo spossava. Ricorse a un vecchio
manoscritto, suo fedele compagno, che gli cresceva sotto lentamente, fra gli
altri lavori, nutriti in parte con la meditazione astratta, in parte con la esperienza
quotidiana degli uomini e della vita. Erano studi morali dal vero. Pareva a
Silla che la letteratura moderna fosse soverchiamente scarsa di questi libri,
in cui parecchi grandi scrittori del passato hanno ritratto l'uomo interno con
tranquillità scientifica e con arte squisita di stile. E gli pareva che in tale
studio i fatti e le osservazioni contemporanee dovessero raffrontarsi a fatti e
osservazioni antiche, onde misurare il valore morale, relativo e assoluto,
della nostra generazione. Per lui il valore delle trasformazioni religiose e
politiche, degli stessi progressi scientifici e materiali si risolveva nella
somma, non di verità o di prosperità, ma di bene e di male morale che ne
discende; perché se il bene in generale è lo scopo a cui tutta la molteplice
attività umana intende, il bene morale è la sua legge stessa, la condizione
della sua potenza durevole; senza dire che per mezzo di esso, termine d'una
equazione misteriosa, l'uomo si accosta alla essenza della verità e della
bellezza assai più che per mezzo della scienza e dell'arte. La quale arte egli
giudicava a questa stregua medesima, pure disprezzando, come puerile e falsa,
la teoria dell'insegnamento morale diretto. Teneva ch'esatte cifre misuratrici
del valore morale esistessero veramente, ma fossero impenetrabili in questa
vita allo spirito umano; non pregiava come elemento di ricerca quelle delle
statistiche, in cui le unità vengono aggregate arbitrariamente per certi
caratteri comuni, affatto esterni e propri, per alcuni rami di statistica, più
della legge che dei fatti umani; tutti più o meno disformi tra loro
nell'aspetto, e di cui non si può cogliere la vera misura morale che là dove si
generano, dove la statistica non sa entrare, dove la osservazione psicologica
può trovare argomento di classificarli in modo affatto nuovo, affatto
impensato, da sconvolgere molte tabelle e molte opinioni. Preferiva perciò a
grossolani indizi aritmetici l'opera degli osservatori morali, attenti a
cogliere negli atti, nelle parole umane i motivi interni; l'opera di pensatori
acuti nel coordinare queste osservazioni praticate da molti in ogni campo della
vita, nel dedurre giudizi quasi scientifici. Voleva che le osservazioni si
facessero e si esponessero con la massima precisione possibile; attribuiva perciò
poco valore a quelle che sono nei romanzi. Ingegno non lucido, mistico di
tendenze, potente per certe intuizioni fugaci piuttosto che per nerbo suo
proprio e costante, egli aveva idee poco definite, poco pratiche; ardente
spiritualista e perciò proclive a considerare di preferenza, nell'umanità, la
origine e il fine; amava, anche in tenue materia, appoggiarsi a qualche grande
principio generale. Era quindi male atto alla fredda osservazione scientifica,
se pure ella è completamente possibile in tali argomenti e se il solo vero
frutto da sperarne non è la conoscenza dell'osservatore stesso.
Ma egli non obbediva soltanto a un
concetto filosofico; cercava pure in quel lavoro certa consolazione delle
offese recategli dal mondo. Tenuto in poca stima dai suoi congiunti che
l'avevano per un sognatore ozioso; negletto dagli amici che si dilungavano da
lui, amico inutile, seguendo la propria fortuna o le cure domestiche; ferito da
inciviltà disdegnose di critici, di letterati, di editori, si compiaceva di
studiare questi tipi familiari, sine ira et studio, con equa temperanza.
Era il suo conforto orgoglioso tenerli sotto la penna e perdonar loro.
Stava ora lavorando a un saggio
sull'ipocrisia. Inconscio seguace d'idee preconcette e assolute, voleva
dimostrarvi che la menzogna e la debolezza morale sono caratteristiche di
questo tempo, salvo a dedurne in seguito che discendono dalle sue tendenze
positiviste, ossia dall'essersi oscurato nelle anime il principio metafisico del
vero; e che le verità conquistate nell'ordine fisico, infinitesimali raggi di
quel principio, non hanno né possono avere il menomo valore di sostituirlo
quale generatore di salute morale. Molto più grave gli pareva questo prosperare
della menzogna in tanta libertà di parola e d'azione. Perché ne trovava infetta
la vita sociale e politica, come le arti, le lettere e le industrie stesse,
nelle quali discende a complice abbietta d'inganno persino la scienza.
Osservava ne' suoi conoscenti il fenomeno frequentissimo dell'ipocrisia a
rovescio, ossia la dissimulazione dei sentimenti più retti e più nobili, delle
opinioni più ragionevoli; l'opposto linguaggio che erano usi tenere sulle
persone e le cose, secondo il numero e la qualità degli uditori. Ne induceva che
se le vere opinioni umane avessero improvvisamente a scoprirsi, il mondo
sbigottirebbe di trovarsi tanto diverso da quello che crede. Una sì larga
infusione di falsità volontaria, corrompendo interamente le parole e le azioni
umane, deve generare il falso, che è quanto dire il male, nell'organismo della
società, poiché questo si modifica senza posa per le parole, per le azioni
umane. Silla preferiva la sincerità, anche nell'errore, a qualunque men
disonesta ipocrisia. Citava esempi in appoggio al suo assunto, e aveva ora per
le mani il suo amico Steinegge.
Steinegge era un esempio singolare di
rettitudine morale accoppiata alle opinioni più false in ogni argomento.
V'erano nei suoi errori un candore, una sincerità leale senza pari. Egli non
poteva neppur credere, in fatto, alla menzogna né alla disonestà negli altri
benché dicesse male, in astratto, di mezzo mondo. Parlava da scettico e sarebbe
caduto in ogni trappola di briccone volgare. Il suo calor generoso si
apprendeva altrui, la sua schiettezza provocava schiettezza; e le opinioni,
violente e zoppe, lungi dal nuocere, non si reggevano in piedi. Pareva a Silla
che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come
altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe
raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo,
ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso,
vantatore, malato d'umori vaganti che lo molestano sempre a fior di pelle e
talvolta gli minacciano i visceri. Steinegge era molto migliore di questo tipo.
Sotto il suo cerimonioso abito nero del secolo decimonono v'era un gran cuore
barbaro, pieno di idee sbagliate e di sangue sano. Silla pensava a lui con la
penna inerte sulla carta e lo sguardo a' fili tremoli della piova. Non poteva
continuare la sua tranquilla analisi psicologica; gli pareva di offendere
quell'uomo ingenuo che gli voleva tanto bene, e certo non avrebbe sospettato
mai che l'amico suo gli volesse praticare una vivisezione sul cervello e sul
cuore. Se lo vedeva là ritto davanti col suo onesto viso cherusco e gli
occhietti scintillanti, gli udiva dire con impeto soffocato: <La meritate
voi?>.
E lui, Silla, si alzava in piedi, gli
rispondeva: <La meriterò. Sarò il suo sostegno, la sua difesa e il suo
orgoglio. Non si troverà in me un atomo di falsità mai, non un pensiero
ond'ella sia esclusa. Combatterò per le alte cose ch'ella ama, sotto gli occhi
suoi, virilmente>.
Poi quella voce gli faceva delle
altre domande. Egli si commosse nel pensiero di tante fredde difficoltà amare,
pronte per lui da ogni parte. Immaginò un altro colloquio intimo con la propria
madre. Ella gli diceva con indulgente calma tante cose savie che a lui non sarebbero
mai venute in mente; lo sgomentava e lo rincorava insieme con la sua pacata
scienza della vita, con l'elevato concetto del dovere e la ferma fede nella
volontà umana e nella provvidenza. No, non era facile l'avvenire. Dai suoi
parenti materni non poteva attendere appoggio se non lasciando gli studi per il
commercio. Gli avevano già detto chiaro che non sperasse essere incoraggiato da
loro a vivere ozioso, a leggicchiare e scribacchiare senza costrutto. Gli
pagavano il modico assegno di cui viveva stentatamente, frutto di una somma di
ragione di sua madre che essi avevano trattenuto presso di sé salvandola dal
naufragio di Silla. Più di così non era da aspettarsi da costoro che avevano
edificato del proprio la canonica e le scuole comunali del paese dove filavano
seta e villeggiavano. Ceder loro? Si sentiva portare in aria dallo sdegno, solo
a pensarvi. Avrebbe dovuto, accasandosi, trarre denaro dal proprio ingegno.
Come? I suoi libri non gli avevano ancora fruttato un soldo, e il loro successo
non lasciava presagire migliore fortuna per l'avvenire. Avrebbe tradotto
qualche ora al giorno, dal francese e dall'inglese, a un tanto la pagina; ma
era poi sicuro di trovar lavoro? Come correva la sua fantasia! E la grigia
piova tremola gli ripeteva in fondo al cortile, per le grondaie, sui tetti
lucidi:
<Piangi, piangi, non ti ama, non
ti ama.>
Si alzò e uscì di casa.
Più tardi egli non seppe ricordar
bene che avesse fatto durante le lunghe ore trascorse da questo punto al
momento in cui pose piede in casa Steinegge. Camminò trasognato sui bastioni
deserti, sotto i platani grondanti e per vie remote della città, senza
riconoscerle; attraversò quartieri opposti a quello abitato dagli Steinegge. Si
trattenne lungamente in un piccolo caffè tetro, dove due vecchi giuocavano al domino
e la padrona, seduta accanto ad essi con un grosso gatto grigio sulle
ginocchia, guardava piovere nella via stretta. Dietro il banco un orologio
scandeva col suo tic-tac minuti interminabili.
Questi minuti eterni venivano sempre
accelerando il passo; all'accostarsi del momento prestabilito battevano via a
precipizio come il suo cuore.
Giunto, per la più lunga via
possibile, alla nota porta, non vi entrò né si fermò. Gli parve che il suo
destino l'attendesse là dentro. Andò avanti per qualche centinaio di passi,
poi, bruscamente, tornò indietro, passò la soglia disprezzandosi, paragonandosi
a un fanciullo ridicolo che desidera da lontano la donna amata e la teme da
presso. Si volse alla portinaia senza parlare. Ella lo conosceva e disse
alzando la testa dal lavoro: «In casa».
Salì le scale adagio, aggrappandosi
nervosamente alla branca. Suonato il campanello si sentì chetare i nervi, si
meravigliò seco stesso d'essersi lasciato tanto turbare dalla fantasia.
«Oh! Oh! Caro amico! Date! Oh! questa
è una grande fortuna con questo tempo tedesco. Date!» vociferò Steinegge, che
gli aveva aperto e gli toglieva di mano a forza l'ombrello e il cappello.
«Buon giorno, signor Silla» disse
Edith quietamente. Ella era seduta presso la finestra e lavorava. Aveva alzato
il viso, né roseo, né pallido, per il breve saluto e s'era volta quindi a
guardar dalla finestra il <tempo tedesco>.
Entrava lassù dallo sterminato cielo
bianco una gran luce quasi nervosa. Sul tavolo, spoglio del suo bel tappeto
azzurro e nero, posavano due o tre grossi volumi, un calamaio e un manoscritto
aggruppati presso la sedia da dove s'era alzato Steinegge.
«Voi vedete» disse Steinegge «questo
Gneist è un grande uomo, grandemente stimato in Germania. Bisogna leggere un
articolo di questa Rivista Unsere Zeit. Voi sapete? Oh, ff! Ma io sono
un piccolo uomo, e quando ho tradotto cinque o sei pagine, non è possibile
andare avanti; è questo. Voi, Voi dovreste imparar presto il tedesco e tradurre
il Self-Government per la Vostra nazione. Io lavoro
per il signor conte perché io devo mangiare, ma io getto questa fatica in un
pozzo, e poi io traduco in francese molto male. Io credo che guadagnereste
molti denari perché tutti gl'italiani comprerebbero. No? Voi non credete? Voi
non credete? Ooh! Questo mi meraviglia molto, caro amico. Se avessi denari,
farei tradurre per speculazione a mie spese. No? Ah, no. Questo mi meraviglia
molto. Sedete. Voi avete un libro?»
«È un libro che mi permetto di
offrire alla signorina Edith» rispose Silla, posando il volume sullo
scaffaletto accanto al busto di Schiller, e guardando Edith.
«Oh, molte grazie, caro amico» disse
Steinegge.
Edith posò le mani sul lavoro e volse
il capo a Silla.
«Grazie» diss'ella, tra attonita e
curiosa. «Che libro è?»
«Il libro di cui Le ho parlato
iersera.»
«Iersera?»
«Guardalo dunque!» disse Steinegge
porgendole il volumetto con un leggero atto d'impazienza, il primo forse che
gli sfuggisse parlando con sua figlia.
«Ah, il suo libro Un sogno! Lo
leggerò volentieri, certo. Lo leggeremo insieme, papà, per riposarti del tuo
Gneist. Ti prego.»
Gli rese il libro, senza sfogliarlo,
non senza però aver intravvisto la dedica e le quattro righe scrittevi sotto, e
si ripose al lavoro.
«Io sono sicuro che sarà bellissimo e
che ci troveremo grande piacere» disse Steinegge, rosso rosso, per cercare di
supplire alla freddezza di sua figlia. «Versi?»
«No.»
«No? Io credeva che Voi foste poeta.»
«Perché?»
«Scusate, mio caro.» Steinegge prese
con ambo le mani, ridendo, il braccio del suo interlocutore. «Per la Vostra
cravatta che è sempre fuori di posto. Io ho dato lezione in Torino a un
giovane, il quale diceva che i poeti in Italia si conoscono dalla cravatta non
in prosa, non a posto. Non fate versi Voi?»
«Mai.»
«Questo è un racconto?»
«Sì.»
«Sarà stato molto lodato, io credo,
dal pubblico e dai giornali, non è vero? Avrà fatto rumore?»
«Sì, il rumore di un sasso che cade
in un pozzo. È stato accolto gelidamente. Non ha trovato una sola persona,
neppure tra le poche a cui l'offersi, che l'abbia accolto come si accoglie un
forestiere raccomandato da qualche amico, un visitatore onesto, civile, senza
ingegno forse, ma non senza cuore, posso dirlo, il quale vi domanda solo di
essere udito quando vorrete Voi.»
«Come mai? Questa sarà invidia, io
credo.»
«No, no, no. Ci sono uomini e libri
sfortunati che spirano antipatia persino a' cuori più gentili.»
«Questo è vero, mio caro amico,
questo è vero sempre.»
«Mi pare che un autore non lo
dovrebbe credere» osservò Edith senza alzare il capo dal lavoro.
Silla tacque.
«Perché, Edith?» chiese Steinegge.
«Perché questa opinione gli deve
togliere la fede, la forza; gli deve impedire di studiare bene i difetti delle
sue opere.»
«No» disse Silla. «Per un pezzo si
dura saldi, anzi, più la fortuna ci combatte, più la si disprezza, più si
lavora, più si cerca di appagare noi stessi, la nostra coscienza. Le ferite
stimolano quasi, danno vigore; ma poi ne capita una inaspettata nel fianco, e
allora non c'è più che da cader bene, a fronte alta, senza chieder pietà.»
«Sarà vero, ma direi che bisogna
diffidar molto della nostra fantasia, e badar bene di non attribuire alla
fortuna quello che non le va attribuito. Non Le pare? Non è più virile di
crederci poco alla fortuna?»
«Oh» esclamò Steinegge «come non vuoi
credere alla fortuna? Saresti tu esule, quasi povera, e sola con un vecchio
poltrone se non ci fosse la fortuna?»
Gli occhi di Edith scintillarono.
«Papà!» diss'ella.
Egli non ebbe il coraggio di
confermar colla voce, ma confermò col capo, ridendo silenziosamente, quello che
aveva detto.
Edith si alzò e gli si avvicinò.
«Scusi, signor Silla» diss'ella
appassionatamente. «Lei è nostro amico e mi permette di dire una parola a papà.
Puoi tu ignorare» soggiunse rivolta a quest'ultimo «che non v'ha per me
felicità maggiore di vivere con te, sempre con te solo, amar te, servir te,
sentirmi protetta da te, sapere che tu mi vuoi bene?» Ella disse questo in
italiano e poi continuò in tedesco la sua effusione affettuosa. Intanto suo
padre la interrompeva con esclamazioni e gesti, batteva con le mani su Gneist e
sul tavolo; ogni muscolo del suo viso grinzoso lottava con la commozione. Stava
per essere vinto. Trarre l'orologio, esclamare «Oh, C... che mi aspetta»,
correre a pigliarsi il cappello, fare un gran gesto di saluto a Silla e infilar
la porta, fu un punto solo. Edith lo chiamò; non le rispose; corse per
trattenerlo, egli era già in fondo alle scale, senza ombrello. Ella rimase
sospesa un momento pallidissima; si compose tuttavia subito e invece d'avviarsi
alla sua sedia presso la finestra, s'indugiò a disporre meglio le lucernine e i
fiori sul piano del caminetto.
«Signorina Edith» cominciò Silla con
voce alterata.
Ella si voltò, gli tese la mano e
disse:
«Buon giorno.»
Silla tacque un momento, poi
soggiunse:
«Scusi. Le rubo un minuto di più.
Volevo dirle che solo adesso, dopo molte incertezze e ripugnanze, comincio a
credere alla fortuna.»
Edith tacque.
«Può intendermi, signorina Edith?»
«Signor Silla, Lei è amico di mio
padre e quindi è amico mio. Io non capisco perché Lei mi faccia tali discorsi.
Non conosco bene la Sua lingua, ma se Lei vuole far dire alle parole più del
dovere, questo non è bene e io non voglio.»
Ella disse «non voglio» con altera
energia, con agitazione. Non parve comandare a Silla soltanto.
Silla s'inchinò.
«Non intendo» rispose «far dire alle
parole più del dovere e non me ne rimprovero una sola. Del resto, ero venuto
per dire a Suo padre che domani non posso pigliar lezione. Vorrebbe Lei avere
la estrema bontà di avvertirnelo?»
«Lo farò certo.»
«Mille grazie. Buon giorno,
signorina.»
Egli andò e riprese il suo povero
libro sullo scaffaletto.
«Perché?» disse Edith.
Egli sorrise scotendo la testa come
per dire «che Le ne importa?»
«Mio padre l'ha veduto» diss'ella,
quasi timidamente, ma senza emozione. Silla posò il libro sul tavolo e, fatto
un saluto profondo, a cui ella rispose appena, uscì.
Edith, rimasta sola, tornò a sedere
presso alla finestra e riprese sulle ginocchia il fazzoletto che stava orlando
per suo padre. L'ago era caduto a terra e n'era uscito il filo. Ella volle
infilarlo di nuovo. Le tremavano le mani; era impossibile venirne a capo.
Allora chinò il viso come se lavorasse, e andò poco che due grosse lagrime
caddero sulla tela. Si alzò, depose il fazzoletto, andò a pigliare Un sogno,
aperse stando in piedi presso il tavolo e, tosto vista la dedica manoscritta,
voltò senza leggere, alcune pagine. Quindi, sfogliando pagina per pagina, tornò
alla dedica, vi si fermò. Per quanto tempo!
Finalmente chiuse il libro con
violenza, andò a metterlo sullo scaffaletto dietro il busto di Schiller. Se ne
pentì, lo riprese, lo pose accanto al busto dove l'aveva messo prima suo padre.
Aperse il balcone e si appoggiò alla ringhiera.
Pioveva sempre e tirava vento. I
ciuffi verdognoli degli alberi che rizzavano il capo tra casa e casa, lontano,
si dondolavano malinconicamente. Una cortina biancastra chiudeva l'orizzonte
tutto all'ingiro; dal lembo inferiore trasparivano le campagne fosche. Era un
grande spettacolo di tristezza appassionata. Ma Edith non guardava né vedeva.
Era venuta a cercar l'aria libera, viva, rinnovatrice di tutto, gradiva il
battere delle fitte punterelline fredde. Si tolse di là dopo lungo tempo e andò
a scrivere la lettera seguente a don Innocenzo.
«Milano, 30 aprile 1865.
Onoratissimo signore ed amico,
Accetteremo la cara amichevole
offerta di venir qualche giorno in casa Sua. Le siamo tanto tanto grati! Mi
pare che il signor conte non potrà offendersi se non andiamo al Palazzo; avrà
bisogno di riposo dopo tanta confusione, tanta gente in casa per il matrimonio.
E mio padre e io abbiamo pure bisogno subito di quiete e di verde. Scusi il
cattivo italiano; non so come esprimere il mio concetto. Voglio dire che
abbiamo bisogno di quel silenzio e riposo che si trova nei campi verdi, atto a
quietare certi pensieri non del tutto sani e farne nascere altri così freschi e
semplici, così vogliosi di aria pura come le foglie degli alberi e dell'erba. È
quasi certo che partiremo posdomani.
Da qualche tempo mio padre non ha
progredito come speravo e io sono in sospetto doloroso di me stessa. Io temo di
non aver scelta la buona via e di non avere adoperato bene il grande amore di
mio padre per me; mi viene nel pensiero che sarebbe forse stato meglio entrare
risolutamente su quel terreno sino da principio, richiamare, pregare, esigere,
e che non avrei perduto parte della mia influenza, come dubito averla perduta
ora con le mie cautele forse troppo mondane, con mostrargli che sono tranquilla
e contenta come se non avessi nessuna nube nell'anima.
Ho creduto, onoratissimo e caro
signore, di domandare consiglio a un buon vecchio prete dal quale sono andata a
Pasqua. Egli mi ha consigliato di fare speciali divozioni alla Vergine e a
molti santi. Credo umilmente che questo è buono; ma io ho bisogno di sapere
come fare, come parlare con mio padre tutti i momenti e non può essere poco
importante se commetto errore o no. Non mi pare di poter avere aiuto superiore
se non adopero anche, il meglio che posso, la mia ragione.
Dio mi ha molto concesso perché mio
padre ora viene in chiesa e so che sicuramente prega; ma questo è stato
ottenuto assai presto, in principio. Egli ascolta molto volentieri parlare di
cose religiose, come cerco io qualche volta, e pare allora disposto alla fede;
ma se si tocca di quelle pratiche in cui entra necessariamente il sacerdote, io
vedo quanto egli soffre di non esprimere la sua ripugnanza violenta. Forse nei
primi tempi e forse ancora adesso egli vincerebbe, se io lo pregassi, questa
ripugnanza: ma debbo io pregarlo? Posso io mettere alla tortura il mio spirito?
Può esser mai questo il mio dovere filiale? E ne verrebbe un frutto buono,
accetto a Dio? Quando penso le grandi sventure che ha sofferto mio padre e il
suo lungo vivere fra uomini che non curano le cose dell'anima e penso la sua
onestà di ferro, il tenerissimo amore ch'egli ha per mia madre ancora adesso,
e per me, la fede in Dio che gli è tornata, io sento di riverire mio padre come
una persona santa, benché non pratica come io e tanta piccola gente che io
conosco; e mi pare male costringerlo ad atti che il suo cuore non desidera.
Questi sono i miei intimi combattimenti.
Ho bisogno, onoratissimo signore,
della Sua parola viva, nella quale è un grande lume, una forza. E sovra tutto
desidero che mio padre si trovi con Lei qualche tempo. Mio padre ha veramente
simpatia per Lei, sentimento impossibile a conciliarsi con altri suoi. Questo è
per me come un muto indice scolpito al principio di una via.
Credo che vi sarebbe poca sincerità
in me se non Le dicessi ora che io ho bisogno del Suo aiuto pure per me stessa.
Lei sa come io comprendo il mio
dovere verso mio padre. Sono convinta che, comprendendolo io così, così è. Io
devo essere intera per mio padre, il quale non ha nessun'altra persona al
mondo. Per lunghi anni egli ha vagato tutto solo sulla terra, soffrendo
fatiche, ingiurie e fame, mentre io vivevo a Nassau come una damigella ricca,
senza mandargli neppure un saluto. È poca cosa, per compensarlo di questo,
tutto l'affetto umano ch'è nel mio cuore. Io non mi esprimo qui come vorrei; Le
spiegherò meglio tutto questo a voce nella Sua casetta solinga tra i prati
innocenti.
Le dirò ch'io sono stata per un
momento un misero cuore fragile, aperto alla sorpresa, e che il mio spirito,
rialzatosi con violenza, è ancor intorbidato di dolore, di paura e anche di
alcuna dolcezza, di alcuna compiacenza nel soffrire almeno una piccolissima
cosa per il mio povero vecchio padre. È una confessione affatto non religiosa
che io farò a Lei, onoratissimo signore, per trovarvi gradevole umiliazione e
sollievo, ombre del divino che sono, io credo, anche nelle confessioni umane; e
altresì per sciogliermi dalla poesia bruciante del segreto. Mi perdoni questa
lunga lettera. Mi pare, scrivendo a Lei, acquistare maggior fede e maggiore
speranza. Quello che io sento e vedo della religione in Italia non è spesso
secondo il mio cuore, forse perché io sono un freddo carattere tedesco; se v'è
qui dentro fumo d'orgoglio, me lo dica, è la mia mala inclinazione; certo io
trovo nella Sua parola un raro suono d'intimo argento, a cui tutta l'anima mia
si apre.
Preghi Dio per noi e ci voglia bene.
E. S.»
Silla discese le scale con amara
calma, gonfia di ironia verso se stesso, come se godesse ad ogni scalino
calcare qualcuna delle stolide illusioni, delle folli fantasie portate lassù
pochi momenti prima; calcarle con orgoglio virile, alzando fronte e cuore
contro al nemico invisibile. Anche lì in quel cortile la perpetua piova
ripeteva <piangi>, ma non egli era inclinato a piangere. Per la terza
volta gli falliva la speranza di un amore in cui, placato l'angoscioso grido
dell'anima, sentirsi forte, sentirsi puro, sicuramente e per sempre, non
vedersi più davanti nella veglia e nei sogni il sinistro fantasma di un'ultima
caduta senza rimedio nel buio. Per la terza volta Dio gli diceva: <Vedi come
è bello? Non l'avrai>. Ma avrebb'egli pianto come un bambino, come un vile?
No, mai. Il suo orgoglio e i cupi presentimenti non gli permettevano neppure di
pensare quello che altri si sarebbe proposto; combattere, vincere Edith con
lunga guerra. Che Edith potesse dissimulare non sospettò neppure un istante.
Essere amato, lui? Impossibile, lo sapeva bene.
Nella via, a pochi passi dalla porta
degli Steinegge incontrò un editore di seconda riga, a cui era stato presentato
e raccomandato, come autore, pochi giorni prima. Colui guardò da un'altra
parte, passò senza salutarlo. Che importava mai a Silla di questo, adesso? Si
strinse nelle spalle. Poteva ben resistere anche a questo, poteva ben
disprezzare quel signore che si credeva lecito d'essere incivile con gli autori
di cui non voleva pubblicare gli scritti. Lotterebbe finché avesse sangue nel
cervello e nel cuore. E ne aveva ancor molto, ricco di vigorosi pensieri, di
dolcezza e di collera. Egli sentiva d'avere molte cose a dire in servizio del
vero, molte belle e forti pagine di cose, prima di scendere ignorato e
sdegnoso, alla fine della sua giornata, nel sepolcro, con l'altera coscienza di
essersi serbato equo a un Dio ingiusto.
Concetto fiero e superbo che, sorto
nella solitudine del suo spirito, metteva stupore in lui stesso, gl'infondeva
una forza demoniaca. N'era stato tentato altre volte, ma lo aveva respinto
sempre. Adesso gli cedeva, se ne ubbriacava. Passando presso il Duomo volle
entrarvi, come soleva fare talvolta nelle sue battaglie interne.
Andò a sedere nella navata di mezzo,
presso alla croce. Due o tre vecchie signore vestite di nero pregavano allo
Scurolo nella luce piovosa delle alte finestre; il passo frettoloso di un
chierico si udiva da lontano verso la porta di fianco nelle tenebre; qualche
figura esotica si moveva lentamente nel chiarore caldo dei finestroni
dell'abside. Silla, raumiliato a un tratto, appoggiò sul banco le braccia e
sulle braccia il capo, chiese dal profondo del cuore al Re degli spiriti: Quid
me persequeris?
Allora si fece dentro a lui un gran
silenzio freddo come quello della cattedrale e più nero. Pareva che l'ombra
delle colonne formidabili fosse penetrata a schiacciarvi ogni pensiero. Quello
stesso interno del Duomo, quella mente colossale nel poema di granito che si
effonde magnifico al sole, mente ordinata, solida e misteriosa come la mente
della Divina Commedia, divenne allora del tutto muta per lui. Un senso
di uggia pesante l'oppresse. La sua volontà resistette inutilmente; non poteva
scuotere quel mantello di piombo. Cercò ricordarsi del tempo passato, quando,
fanciullo, veniva in Duomo con sua madre, immaginando al suono dell'organo i
deserti di oriente, le palme, il mare, la vita contemplativa. Niente, niente,
niente; la memoria era intorpidita, il cuore vuoto e senza eco. Qualcuno
gliel'aveva percosso col fuoco, disseccato. Egli seguiva con l'occhio assopito
i pochi forestieri che venivano dall'abside col cappello in mano, lenti,
guardando in alto. Le colonne accigliate spiravano tedio, vapori di sonno
salivano dal pavimento, le porte, tratto tratto, sbadigliavano. Era come una
plumbea calma in fondo ad acque morte, che non sentono il passar dei secoli.
Silla non ripeté la sua domanda, poiché non gli si voleva rispondere. Cercò
deliberatamente nella memoria qualche profana imagine voluttuosa. Si rivide
nella lancia Saetta, fra le grandi onde accorrenti, in faccia a Marina
che gli piegava incontro il viso, disegnandosi sul chiarore abbagliante del
lago sfolgorato dietro a lei dai lampi. Ne sentì i piccoli piedi appoggiati a'
suoi. La fredda chiesa piena di tedio s'intepidiva, si ravvivava; era un acre
piacere fissare le pietre ascetiche, trarne questa luce, questo calore dei
sensi, conoscer la voce dolce e forte del tentatore; abbandonarsi a lei. La
fantasia correva ad altre imagini febbrili. Marina era con lui, non più fra le
onde, ma nella sua stanza del Palazzo, gli diceva <finalmente!>, gli
prendeva la mano, lo traeva a sé sorridendo con un dito alle labbra, nella
notte profonda... Si alzò e uscì di chiesa, vacillando. Dio gli aveva risposto.
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