Capitolo II
UN MISTERO
Il pranzo fu
triste. Il padre Tosi si alzò da tavola subito dopo la minestra per andare dal
conte, e non ritornò più. La contessa e Nepo mangiavano compunti. Il signor
Vezza aveva voglia di chiacchierare, temendo che quel silenzio malinconico gli
preparasse una digestione laboriosa. Scelse a interlocutore l'avvocato Mirovich
e gli parlò di Venezia, de' suoi amici di colà, del caffè e pannera in gelo,
dell'Istituto Veneto e delle gondole, tirando in mezzo Virgilio per amore o per
forza: Convolsum remis, rostrisque tridentibus aequor.
L'avvocato si seccava e rispondeva
corto, ma il commendatore tirava via a ronzare, fra un boccone e l'altro,
arrischiando qualche sorriso, tanto sano a pranzo. Silla taceva come i
Salvador. La contessa lo squadrò ben bene fin dalla minestra, nel chinarsi sul
cucchiaio, e poi ogni volta che il cameriere gli presentava le vivande. Ella
soffriva evidentemente di dover tacere, gittava a Nepo delle occhiate
espressive, che dicevano «parlo, non ne posso più» ma Nepo la fissava con i
suoi grossi occhi miopi, le chiudeva la bocca.
Alla fine del pranzo venne la
Giovanna, le disse all'orecchio che il padre Tosi si disponeva a partire e
desiderava avere prima un colloquio colle persone di famiglia, com'era inteso
col signor avvocato.
«Avvertite la marchesina» rispose
Fosca.
«L'ho già avvertita, ma dice che non
può venire.»
«Ditele che si andrà noi da lei.»
«Oh, ha già detto che non vuol
nessuno.»
Silla si levò subito da tavola e,
fatto un tacito saluto, se n'andò.
«L'ha capita» disse Nepo. «Potete
dirci voi, Giovanna, come è venuto quel signore lì e chi gli ha detto di
fermarsi?»
«Come sia venuto non lo so. Di
fermarsi, magari l'ho pregato anch'io, perché so che al signor padrone gli è
tanto rincresciuto quando è andato via e ho idea che se lo potrà riconoscere,
gli farà tanto bene di vederlo. Mi aveva fin detto il signor padrone di
tenergli la stanza sempre pronta pel caso che avesse a ritornare.»
«Voi non dovete pregarlo niente
affatto» disse Nepo. «In questa circostanza dovevate prendere gli ordini dalla
marchesina e quasi anche i miei, posso dire. E adesso avvertite il padre che
noi lo aspettiamo nella camera della contessa Salvador. - Anche Lei, sa,
commendator Vezza, come amico di mio zio. Intendiamoci, amico vero; perché
certi altri amici non li pareggerei davvero alle persone di famiglia.»
Il commendator Vezza, felice nella
sua curiosità, fece un cenno di gradimento.
Il frate entrò subito dopo gli altri
nella camera della contessa e, toccandosi la calotta, sedette, senza aspettare
invito, sopra un seggiolone a fianco del canapè dove la contessa Fosca,
irrequieta, sgomentata, batteva nervosamente sulle ginocchia il suo gran
ventaglio chiuso. L'avvocato Mirovich, imbarazzato, guardando ora il frate, ora
il pavimento, cominciò a dire:
«A spiegazione delle parole... delle
parole... non chiare, ecco, delle parole non chiare che il padre ha pronunciato
stamattina in presenza del conte, della contessa e... sì, infatti, di altre
persone... egli desidera fare alcune comunicazioni, non è vero? alcune
comunicazioni circa la malattia per la quale venne invitato a consulto.»
«Cioè» disse il frate «desidero!
Niente affatto, desidero. È mio dovere. Io vado per le corte, signori, e chiamo
le cose col loro nome. Il mio dovere è d'informare Loro signori, che, a mio
avviso, il conte D'Ormengo è stato...» Prima ch'egli compiesse la frase la
contessa Fosca lasciò cadere il ventaglio. Nepo si alzò in piedi. Gli altri due
non si mossero.
«Assassinato» disse lentamente il
frate, dopo un istante di esitazione, levando gli occhi a Nepo con il pugno
sinistro sopra una coscia e l'avambraccio destro attraversato all'altra.
«Oh Dio, oh Dio, oh Dio!» gemé la
contessa spalancando tanto d'occhi spaventati. Nepo alzò le braccia, mise
un'esclamazione d'incredulità sdegnosa. L'avvocato procurava di chetarli con
gran gesti, diceva con le mani e il capo che non si spaventassero, che
aspettassero. Nepo cedette; ma la contessa ripeteva «oh Dio, oh Dio!» sempre
più forte e scoppiò in lagrime.
«Ella poteva essere più prudente,
padre» osservò bruscamente il Mirovich accostandosi alla contessa per
sostenerla e farle animo.
«Santo Dio benedetto» singhiozzava
costei. «Questi orrori... di parole!... Dopo pranzo anche!»
«Signora mia» disse il frate
«l'interesse dell'ammalato vuole che si parli chiaro e presto. Io poi ho
l'abitudine di dire la verità anche dopo pranzo.»
«Continui, continui!» esclamò
l'avvocato. «Si spieghi presto.»
«Lo avrei già fatto se il signore e
la signora fossero più pazienti. Non intendo dire che si sieno adoperati armi o
veleno. Un ragazzo conosce l'apoplessia; nel nostro caso si tratta veramente di
apoplessia. Dico "assassinato" perché sono convinto che vi è
nell'origine di questo male l'azione violenta d'una persona.»
«Questo è assurdo!» gridò Nepo.
«Lei è assurdo, signor mio bello»
riprese il frate, battendo le sillabe ad una ad una e guardandolo tra ironico e
serio. «Lei è assurdo. Io, per esempio, sono malato di cuore e non Lei, ma le
persone che amo possono uccidermi senza veleno né armi.»
«Dunque Lei dice...» suggerì il Vezza
per tagliar corto alla discussione irritante.
«Io dico» rispose il frate «che
l'ammalato fu colpito d'apoplessia durante un'emozione violenta, terribile.»
«Ma cosa? ma come?» chiese la
contessa tutta lagrimosa. «In nome di Dio, come? Non la ci tenga qua sulla
corda per tanto tempo! La parli, che Dio la benedica. Ci vuol Ella far morire a
once?»
«Prima di proseguire» disse il frate
«vorrei sapere se tutte le persone della famiglia sono presenti.»
Nessuno parlò.
«Ci sono tutti?» ripeté il frate.
Qualcuno disse piano:
«Manca la marchesina.»
«La marchesina, mia promessa sposa»
disse Nepo enfaticamente «è indisposta.»
«Come si chiama questa marchesina?»
chiese il frate.
«Marchesina Crusnelli di Malombra.»
«Il nome, il nome di battesimo!»
«Marchesina Marina» disse Nepo.
Il frate tacque un momento, poi
soggiunse:
«Marina. Non ha altri nomi?»
«Sì. È Marina Vittoria. Ma che
importa?»
«Importa molto, signor conte.
Moltissimo, importa. Come si chiamano le donne di servizio che sono in casa,
oltre a Giovanna?»
«Catte, intanto» rispose la contessa.
«Fanny» suggerì il commendator Vezza.
Nessun altro nome fu pronunciato.
«Dunque» continuò il frate «non v'è
donna in casa che abbia nome Cecilia?»
«No» risposero tutti, uno dopo
l'altro.
«Ebbene, io sono convinto che l'altra
notte una donna, una Cecilia, è entrata nella stanza del conte Cesare e lo ha
spaventato, lo ha irritato a morte.»
Nessuno fiatò. I Salvador, il Vezza
guardavano il frate a bocca aperta; il Mirovich teneva gli occhi bassi, il
mento sul petto; pareva sapesse già da prima quello che il frate veniva
dicendo. Questi si alzò e andò a piantarsi in mezzo alla camera.
«Ecco» diss'egli accennando alla
parete sinistra «quello è il letto; il conte fu trovato qui in camicia, bocconi
sul pavimento, con le braccia distese verso l'uscio. Questo lo sanno anche Loro
signori. Ma vi sono delle altre cose che non sanno. L'uscio del corridoio, che
il conte chiude sempre quando va a letto, era aperto. Sul letto fu trovato da
Giovanna un guanto, questo.»
Egli trasse di tasca un guanto
piccolissimo. Il Vezza e Nepo lo afferrarono insieme, corsero alla finestra per
esaminarlo bene. Nepo esclamò subito:
«Buon Dio, non è un guanto. Fu, chi
sa quando, un guanto 5 1/4 o 5 1/2, a un sol bottone; un guanto da ragazzina di
dodici anni: adesso è un cencio scolorato, ammuffito.»
«Bene, quel cencio, che non può
appartenere al conte, non cadde sul suo letto, ma vi fu gettato, perché il
letto è assai largo e il guanto si trovò confitto fra il capezzale e la parete.
Il candeliere del conte, lo smoccolatoio, la tazza che egli è solito tenere sul
tavolino da notte, si trovarono sparsi a terra, presso l'uscio. Deve averli
scagliati lui in un impeto d'ira dopo aver cercato invano, a tastoni, gli
zolfanelli che dovette rovesciare dal tavolino perché si trovarono disseminati
a piè del letto. La tazza fu certo scagliata, ed era piena d'acqua, perché se
ne trovarono spruzzi sul pavimento, se ne trovò bagnata la manica destra della
camicia del conte. Io poi vado avanti, e siccome la tazza era tuttavia intera,
dico che percosse un corpo molle e cedevole, tale da spegnere il colpo e da
render possibile ch'essa cadesse a terra senza spezzarsi. Cosa poté essere? Ma
è evidente cosa poté, cosa dovette essere. Dovette essere l'abito a cui
apparteneva questo bottone.»
Nepo afferrò il bottone che il frate
gli tendeva. Era un grosso bottone coperto di stoffa azzurra e bianca. Nepo lo
riconobbe subito. Apparteneva a una veste da camera di Marina.
«Hum! Non lo conosco» diss'egli
guardandolo attentamente.
«La signora forse potrebbe dircene
qualche cosa. Faccia vedere alla signora.»
«La contessa, vuol dire? Oh non lo
conosce certo. Non è vero, mamma, che di queste cose io m'intendo più di te?
Non è vero che se avessi veduti anche una volta sola bottoni simili addosso a
qualche persona di casa, adesso riconoscerei questo?»
La contessa Fosca ardeva di vederlo e
leggeva in pari tempo negli occhi di Nepo un divieto. Non sapeva risolversi.
«Oh Dio» diss'ella «questo sì, sei
famoso. Ma... in due... ah? Un'occhiata ce la posso dare anch'io, no?»
«Figurati» rispose Nepo, e le parlò
con gli occhi fissi. «To'» diss'egli «guarda pure. È inutile, già.» La contessa
prese il bottone, si alzò dal canapè, e andò alla finestra dove s'indugiò
qualche tempo, toccando quasi con la fronte i vetri, voltando le spalle agli
altri che tacevano e aspettavano tutti in piedi, immobili.
Ella si voltò, finalmente, porse il
bottone a Nepo, disse al frate, che la guardava col capo chino e le mani sui
fianchi:
«Niente.»
Il frate non parlò né si mosse. La
guardava sempre. Osservava come ogni curiosità fosse interamente scomparsa da
quel volto mentre la bocca diceva: «Non ho inteso».
«Proprio niente» ripeté la contessa
con voce tranquilla.
«Dove fu trovato?» chiese
frettolosamente Nepo.
Il frate durò a girar gli occhi,
tacendo, sulla contessa che tornava al canapè. Quindi si scosse e rispose a
Nepo:
«Fu trovato nel pugno chiuso del
conte, nel pugno sinistro. Avranno veduto un piccolo brandello di stoffa
attaccato al bottone? È chiaro che fu strappato dall'abito a forza.»
«Eh, sì» disse l'avvocato.
Il Vezza gli lanciò un'occhiata
ironica. Il sagace commendatore sospettava che il bottone fosse stato
riconosciuto e giudicava quindi prudente non interporli in quel momento fra il
Salvador e il frate.
«La Giovanna» proseguì costui «che è
entrata per la prima nella camera, ha osservato parte di queste cose, senza
capire. Prima ha creduto a un ladro, cosa inverosimile; poi ha trovato chiavi,
danari, portafogli intatti sul cassettone dove sono ancora adesso; dunque,
ladri no. Allora ha pensato che il conte, sentendosi male, avesse voluto
chiamare, uscire in cerca d'aiuto; cosa assurda perché non si spiegano,
lasciando stare il guanto, neppure la tazza e il candeliere gittati lontano:
non si spiega sopra tutto che il conte non abbia suonato il campanello. A ogni
modo la Giovanna ha inteso, così confusamente, che c'era del mistero. Non ha
parlato a nessuno per non sparger inutilmente sospetti temerari, ma si è
confidata a me, forse per l'abito che porto. Io allora ho fatto questo.»
La contessa, Nepo, il Vezza pendevano
dal suo labbro; non respiravano neppure.
«L'intelligenza dell'ammalato è
oscurata, moltissimo oscurata; tuttavia qualche barlume, da ieri a sera in poi,
mi dice il medico curante, ne appare ancora. Quando io ho saputo queste cose,
ho esaminato bene bene la Giovanna, ho fatto le mie induzioni e mi sono formato
il mio convincimento. Poi ho interrogato l'ammalato.»
Il gran ventaglio della contessa
Fosca le uscì di mano, le cadde dalle ginocchia. Né lei si piegò né altri si
mosse a raccattarlo.
«Ho dovuto interrogarlo, per la sua
condizione, a più riprese. Già non si poteva pretendere che rispondesse più di sì
e no. Ho cominciato con domandargli se qualcuno era stato in camera
durante la notte. Niente. Ho ripetuto la domanda. Era forse troppo lunga; mi
guardava e non tentava neppure di rispondere, né con le labbra né col capo.
Allora ho provato a dirgli addirittura: <Un uomo?>. Non risponde ancora.
<Una donna?> Oh! L'occhio e le labbra si muovono, qualche cosa vogliono
dire. Lo lascio quieto un'ora. Intanto ci fu progresso nelle condizioni della
intelligenza e della lingua. Domandò alla Giovanna da bere. Appena partito il
medico, tornai alla prova. Dico: <Il nome di quella donna!>. Non mi
risponde, ma un momento dopo, mentre mi chinavo sopra lui con un cerino per
esaminare la cute, si mette a fissarmi e a tartagliare. Gli accosto l'orecchio
alle labbra, mi par di capire: <famiglia>; io suppongo che desideri veder
loro, gli rispondo qualche cosa, gli dico di star tranquillo. Egli seguita; io
ascolto ancora, credo intendere un'altra parola, provo a dirgli:
<Cecilia?>. Tace subito, e vorrei, signori, che aveste veduti quegli
occhi come si dilatarono, come mi riguardarono, quale espressione prese il viso
sfigurato di quell'uomo. Adesso un'altra cosa. Chi dorme nell'ala destra del
palazzo, oltre il conte?»
«Perché domanda questo?» disse Nepo.
«Posto che una persona, oltre
l'ammalato, dorma nell'ala destra del palazzo, questa persona...» (il frate
alzò la voce ed aggrottò le sopracciglia) «molto più se indisposta, deve avere
udito, deve sapere qualche cosa. Consiglio Loro signori d'interrogarla bene.»
«Io ho l'onore di assicurarla, padre»
disse Nepo acceso in volto, parlando ex cathedra «che s'Ella intende con
tali parole insinuare sospetti poco leciti e niente affatto convenienti a
carico di una dama che sta per appartenermi strettamente, Ella s'inganna a
partito e offende le stesse persone alle quali parla.»
«Lei non sa quello che si dice, mio
caro signore» rispose il frate, a voce bassa e con forzata calma, «non sa che
io sono avvezzo a cercar la verità, magari frugando con il coltello nelle carni
e nelle ossa della gente, tanto d'una gran dama, quanto d'un facchino, colla
stessa freddezza. Taglio e squarcio per trovarla e la trovo quasi sempre, sa,
impassibile come un dio; poco m'importa, mentre cerco, che mi scongiurino o che
mi bestemmino. E Lei pretende ch'io mi guardi dall'accennare anche da lontano a
quello che può essere il vero, per non offendere una signora, i suoi parenti e
i suoi amici, quando sono convinto che c'è di mezzo l'interesse di un ammalato
che assisto? Ma Lei mi fa ridere, per Dio! Del resto, adesso, loro signori
conoscono i fatti. Si ricordino che se l'ammalato si ricupera, una nuova
emozione simile alla passata lo ucciderà sul colpo. Il padre Tosi ha fatto il
suo dovere e se ne va.»
Egli si alzò e guardò l'orologio. Il
suo legnetto doveva già trovarsi sulla strada provinciale, allo sbocco del
viottolo del Palazzo.
«S'intende» disse l'avvocato «che il
padre non farà parola fuori di qui...»
«È il primo consiglio di questo
genere che mi si dà» rispose il frate «e non lo ricevo. Buona sera a Lor
signori.»
«Chi lo paga?» sussurrò il Mirovich a
Nepo dopo che quegli fu uscito.
«Cosa ci è mai venuto in mente al
medico di suggerir quel cialtrone lì!» disse Nepo evitando di rispondere. «Se
avessi saputo che doveva poi anche tardar un giorno, avrei fatto venire io
Namias da Venezia! Adesso tu starai male, mamma.»
«Altro che male, altro che male!»
gemette la contessa.
«Già; matto villano! Avrai bisogno di
quiete» disse Nepo con un accento nuovo di premura filiale. «Andiamo, andiamo,
lasciamola sola. Vi dico la verità che anch'io non ne posso più di prendere un
po' d'aria. Mi fa piacere Lei, avvocato, di andar a vedere dello zio. Io vado a
prendere il mio cappello e passo dal cortile. Lei mi dirà dalla loggia se le
cose vanno in ordine, come spero.»
Dopo le dieci di sera i Salvador, il
Vezza, l'avvocato e Silla erano aggruppati, in piedi, presso al tavolo del
salotto. Ascoltavano il dottore che rendeva conto dello stato dell'infermo
prima di andarsene a casa. Costui, vestito di nero alla moda di vent'anni
indietro, ragionava sulla malattia, gittando in viso a quei diffidenti signori
di città parecchi nomi greci e barbari, parecchie citazioni di autori e di
giornali scientifici. La lucerna posata in mezzo alla tavola, col suo gran
paralume scuro, lasciava nella penombra le persone e la camera, metteva sul
tappeto una macchia luminosa circolare dov'entravano le grosse mani rubiconde
del dottore che parlava. A suo avviso le cose procedevano in modo abbastanza
soddisfacente. La gamba destra aveva riacquistati, in parte, alcuni movimenti e
anche il braccio non era più completamente inerte. Nell'intelligenza e nella
favella i progressi erano, per verità, meno sensibili, ma si poteva, anzi si
doveva ritenere che col tempo si sarebbe ottenuto molto; se non la guarigione
completa, almeno...
Colui era giunto a questa svolta
promettente della sua prognosi quando si fermò alzando il mento e guardando con
gli occhi socchiusi oltre alla cerchia dei suoi uditori. Fece quindi un cenno
rispettoso di saluto. Tutti si voltarono; era donna Marina.
Il gruppo allora si agitò e si
scompose in movimenti diversi.
La contessa Fosca e Nepo si
avvicinarono a Marina, gli altri fecero posto; tutto questo lentamente e senza
parole. Nepo guardava la sua fidanzata con due grossi occhi stupidi, sgomenti.
«Buona sera» sussurrò Marina. Poiché
il medico taceva, gli disse un po' più forte con la sua voce noncurante:
«Prego».
Ell'era vestita di nero o di azzurro
carico; non si poteva distinguer bene. Appena si vedeano le linee eleganti
della bella persona, i grandi occhi, il pallore uniforme del viso e del collo.
Si guardò un momento alle spalle, quasi cercando una sedia. Nepo insistette
perché sedesse sul canapè, ma ella scelse una poltrona proprio in faccia al
medico.
«Almeno» proseguì costui, incerto,
magnetizzato dagli occhi grandi che lo fissavano «l'uso delle gambe...
fors'anche, in parte, l'uso del braccio... dico in parte, in parte... si
potranno ricuperare... e anche l'intelligenza... però, per l'intelligenza, è
difficile, molto difficile.»
Pareva pigliar involontariamente la
intonazione dagli occhi di donna Marina.
Il commendatore Vezza li studiava da
vicino quegli occhi, procurando di non farsi scorgere dai Salvador. Aveano un
fuoco vago e febbrile, una espressione di curiosità intensa, qualche cosa di
nuovo che colpì il commendatore.
Qualcuno entra; il signor parroco che
viene a prender notizie. Il povero don Innocenzo, miope, imbarazzato, non
riconosceva nessuno, salutava a sproposito, si scusava, suggeva l'aria con le
labbra serrate come se il pavimento gli scottasse. Intanto il dottore si
congedò. V'era un ghiaccio nella stanza; nessuno parlava forte. Nepo, curvo
sulla spalliera della poltrona di Marina, le chiedeva sottovoce della sua
salute, si doleva di non averla mai potuta vedere in quei due giorni. La
contessa Fosca dall'altra parte tentennava. Si piegava verso Marina, le sussurrava
una frase; si ritraeva per non porsi troppo avanti fra lei e Nepo; quindi
cedeva da capo alla tentazione. Il parroco prendeva le notizie del conte
dall'avvocato Mirovich, in disparte. Silla non s'era mosso mai. Marina
nell'entrare lo aveva guardato un momento, lo aveva confitto, quasi impietrito
al suo posto.
Ella si alzò.
«Amerei dire una parola al signor
Silla» disse.
Questi, pallidissimo, s'inchinò.
La contessa, Nepo, il Vezza,
stupefatti, guardavano Marina, aspettando uno scoppio, una scena come quella
dell'anno prima. L'avvocato interruppe la sua relazione; Don Innocenzo non
capiva; gli diceva: «E dunque?»
«Non qui» disse Marina.
Il Vezza e il Mirovich fecero atto,
un po' tardi, di ritirarsi. I Salvador non si mossero
«Restino pure» soggiunse Marina. «Ho
bisogno di prendere aria. Scende in giardino, signor Silla?»
Questi s'inchinò daccapo.
«In giardino?» esclamò la contessa
Fosca con uno scatto di malcontento.
«Con questo fresco?» soggiunse poi.
«Non mi pare...»
«Con questo umido?» disse Nepo.
«Piuttosto in loggia.»
«Buona sera» disse Marina. «Faccio un
giro e poi rientro nelle mie camere.»
Nepo volle replicare qualche cosa,
s'imbarazzò, balbettò poche parole. Donna Marina fece un passo verso l'uscio e
guardò fisso Silla, che venne ad aprirglielo. «Buona sera» diss'ella ancora,
uscendo.
Nessuno le rispose.
Marina discese lentamente, con piedi
silenziosi di fata, in mezzo alla larga scala semioscura. Silla le teneva
dietro, stretto alla gola da commozioni inesprimibili, quasi cieco. Ancora un
momento e sarebbe stato solo con lei, nella notte.
La porta a vetri che mette in
giardino era spalancata. Il lume del vestibolo, oscillando all'aria notturna,
mostrava di fuori un lembo di ghiaia rosea; presso all'uscio, sopra una sedia,
lo scialle bianco di Marina. Ella lo porse a Silla, si fermò perché glielo
posasse sulle spalle. Le loro mani si incontrarono; eran gelate.
«Fa freddo» disse Marina,
stringendosi lo scialle sul petto. Pareva un'altra voce; quasi tremante. Silla
non rispose; credeva ch'ella gli sentisse il cuore a battere. Le posò un
momento le mani alle braccia quasi per ravviarle lo scialle. Ella trasalì; le
spalle, il seno le si sollevarono. Uscì senza dire parola, fece una cinquantina
di passi nel viale e s'appoggiò alla balaustrata, guardando il lago.
La notte era oscura. Poche stelle
lucevano nel cielo nebbioso fra le enormi montagne nere che affondavano l'ombre
nel lago. Il gorgoglìo delle fontane, il canto lontano dei grilli nelle
praterie, andavano e venivano col vento.
Silla non vedeva che la elegante
figura bianca, curva sulla balaustrata presso a lui.
«Cecilia» disse piano accostandosele.
Ell'appoggiava il mento alle mani
congiunte. Ne stese una a Silla senza voltar la testa, e gli disse
appassionatamente:
«Sì, mi chiami sempre così. Si
ricorda?»
Egli strinse con ambedue le proprie
quella mano di raso odoroso. Temeva di esser freddo, di non aver neppur sensi
in quel momento. Se la recò alle labbra, ve le impresse, veementi, sul polso.
«Mi dica: si ricorda?» ripeté Marina.
«Oh Cecilia!» diss'egli.
Le voltò la mano, vi abbassò
rapidamente il viso sul palmo, se la serrò sugli occhi, parlò convulso:
«Non v'è più mondo, se sapesse, per
me! non vi son parenti, né amici, né passato, né avvenire: niente, niente; non
v'è che Lei, mi prenda, mi prenda tutto!»
Voleva esaltarsi e vi riusciva. Si
trasse quel piccolo palmo sulla bocca; pensò alla propria vita amara, al mondo
ingiusto, vi soffocò uno spasimo di passione che dovette entrar nel sangue di
lei, attraversandolo sino al cuore.
«No, no» diceva ella con voce
interrotta, mancante, «adesso no.» Avevan la febbre tutti e due.
«Quando si è ricordato?» disse
Marina.
Ella era fissa nell'idea di Cecilia
Varrega, che avrebbe ritrovato, nella seconda esistenza terrena, il suo primo
amante.
«Iersera» diss'egli credendo aver
intesa la domanda. «Iersera, dalla signora De Bella, che mi parlò di Lei; dopo
hanno fatto una musica che mi ha rotto il cuore, me ne ha tratto fuori tante
cose. Esco di là mezzo pazzo, trovo il Suo telegramma. Allora mi si è
illuminato tutto, ho sentito il destino prendermi, portarmi qua. Mi lasci
questa mano, questa dolcezza infinita. Lei non sa che passione è la mia. Mi par
di morire a non spiegarmi e non posso parlare. Vorrei esser tratto giù per
sempre, con Lei, in quest'acqua che mi chiama.»
Egli tirò a sé la inerte mano prigioniera,
il braccio, la persona.
«Domani» sussurrò Marina, resistendo
«domani sera dopo le undici, sulla scaletta della darsena.»
Egli non voleva lasciar quella mano,
vi figgeva le labbra insaziabili.
«Venga» diss'ella a un tratto
concitata «mi segua, discosto, non mi parli e, sulla porta, mi lasci. Lo
sapevo.»
Silla comprese e obbedì. Fatti due
passi, vide qualcuno nell'ombra. Era Catte.
«Ah, è qui, marchesina. L'ho cercata
dappertutto. Sua Eccellenza mi aveva dato questo scialle per Lei.»
Marina non degnò rispondere né
tampoco guardar la cameriera; fece dalla porta un saluto freddo a Silla e
sparve nel vestibolo.
Silla attraversò il cortile, salì la
scalinata ed escitone di fianco sedette sull'erba sotto un cipresso, vi rimase
un pezzo bevendo il forte odore dell'albero, ascendendo con gli occhi per
l'alta colonna nera sino alle stelle.
Più tardi la contessa Fosca, chiusa
con Nepo nella sua camera da letto, smaniava, singhiozzava, esclamava contro il
frate che aveva raccontato quelle cose orribili, contro la dama milanese che le
aveva date le prime informazioni di Marina; si domandava cosa mai vi potesse
essere fra Marina e suo zio, cosa mai ella avesse detto, cosa mai avesse fatto
quella notte; protestava di perder la testa, di volerne uscire, di volerne far
uscire Nepo a ogni costo, di voler piantare quella maledetta casa e il suo
padrone e la sua padrona, e i denari e tutto. Quando aveva finito,
ricominciava. Nepo taceva sempre, ingrugnato; solamente, se sua madre alzava
troppo la voce, le faceva un gesto iracondo. Ella resisteva, sulle prime; gli
diceva: «E cosa fai tu col tuo tacere?» Ma Nepo s'inviperiva. Allora la povera
donna diventava umile, piagnolosa; ripeteva: «Nepo, la è matta! Nepo, la è
matta!»
Voleva chiamar l'avvocato,
consultarlo. Nepo si oppose tanto risolutamente ch'ella credette leggergli in
viso un proposito, un piano bell'e pronto. Gli domandò che intendesse fare.
«Aspettare» diss'egli «non
comprometter niente.»
«Per la donazione, caro, ho paura.
Adesso la va peggio.»
«Aspettare» ripeté Nepo.
«Bel discorso!»
Egli scosse via l'occhialetto, prese
sua madre per le braccia, le immerse gli occhi negli occhi e disse con voce
soffocata:
«Se non c'è testamento?»
La contessa pensò un poco,
guardandolo.
«Resta tutto suo?» diss'ella. «Tutto
di Marina?»
Nepo si tirò indietro, allargò le
braccia.
«Eh!» diss'egli: e soggiunse: «Allora
ci penseremo.»
Seguì un lungo silenzio.
«Perdi un bottone, viscere» disse la
contessa piano con dolcezza.
Nepo si guardò il bottone che gli
penzolava dall'abito, rispose nello stesso tono:
«Momolo che non guarda mai. Vado a
vedere del conte.»
«E il tiro di stasera?» disse la
contessa mentre egli se ne andava. «Bello, sai!»
«Per quello non ho nessun pensiero»
disse Nepo. «Intanto hai sentito Catte, come li ha visti tornare a casa. Credo
poi, anche a giudicare dalle parole di Marina, che né scuse né complimenti
gliene abbia fatti certo. Vedrai che domattina, per non dire stanotte, l'uomo
se ne va. Cosa vuoi pensare? Dopo che è partito l'altra volta a quel modo e per
quella cagione! Lui lo ha detto a Mirovich come è venuto; ha detto che ha
saputo in un paese qui vicino della malattia del conte. - Dunque vado.»
Nepo trovò in galleria Catte a
chiacchierare con l'avvocato e col Vezza che fumavano. Catte, veduto il
padrone, se la svignò; gli altri due non avevano notizie precise dell'ammalato,
dopo la partenza del dottore. Nepo si avviò in punta di piedi a pigliarne, e
coloro ripresero il loro dialogo. Parlavano degli strani casi cui assistevano:
il Vezza con l'interesse d'un egoista curioso; il Mirovich con qualche pena per
la devozione che portava alla contessa Fosca. Facevano mille supposizioni
diverse, ricadevano sempre a dire, come la contessa Fosca, di non capirci
nulla. Il Mirovich concluse:
«È proprio il caso di dire come i
chioggiotti: Co se ga rasonao se ga falao.»
Il Vezza disse qualche cosa, dopo un
lungo silenzio, sulla pace profonda della notte; e il suo compagno, pensando a
Venezia, a' tempi passati, mormorò la prima strofa della canzonetta che
comincia:
Stanote de Nina...
«Bella, bella, bella! Avanti,
avanti!» disse il commendatore. Nepo rientrò in loggia.
«Come va?» gli chiese l'avvocato.
«Peggio, peggio assai, pur troppo»
rispose Nepo e passò oltre.
«Che brutto affare» sospirò
l'avvocato.
«Ma!»
Lo zampillo del cortile parlò solo per
un momento dietro a loro.
«Era malandato, già, in salute» disse
il commendatore.
«Eh, sì.»
«Adesso restava anche solo» tornò a
dire il Vezza.
«Eh, questo sì.»
«Quasi, quasi...»
«Oh, lo credo anch'io.»
Parlò ancora solo la voce blanda. Il
Vezza gittò il suo sigaro.
«Che veleno!» diss'egli.
«Dunque?» soggiunse dopo una breve
pausa.
«Cosa, dunque?»
«La canzonetta?»
«Ah, ecco - Stanote de Nina...»
L'avvocato abbassò la voce, e la tramontana leggera che attraversava gli archi,
sciolse, portò via le parole voluttuose.
Nella sua stanza, dove un fioco
lumicino posato a terra spandeva nell'aria calda e greve certo chiarore
sepolcrale, il conte Cesare supino, immobile, non vedeva la Giovanna seduta
presso il letto con le mani sfiduciate sulle ginocchia, e gli occhi fissi in
lui. Credeva invece veder la figura di sua nipote ritta in mezzo alla camera.
Era sua nipote e un'altra persona nello stesso tempo, ciò gli pareva naturale.
Si moveva, parlava, guardava con due occhi pieni di delirio; come mai se quella
persona era morta e sepolta da lungo tempo? Egli lo sapeva bene ch'era stata
sepolta, ricordava d'averlo inteso da suo padre; ma dove, dove? Tormentosa
dimenticanza! C'era pure nella sua memoria quel luogo, quel nome; ve lo sentiva
muoversi, salire, salire finché ne scattò su, in lettere visibili.
Credette allora cavar di sotto le
lenzuola il braccio destro, stenderlo, appuntar l'indice a colei, dirle ch'ella
mentiva e ch'era ben sepolta ad Oleggio, nella cappella di famiglia. Ma la
donna lo minacciava ancora, lo sfidava, gli gettava un guanto; pareva Marina ed
era la prima moglie di suo padre, la contessa Cecilia Varrega. Ella lo sentiva,
parlava di antiche colpe, di una vendetta da compiere. Allora egli immaginava
lanciarsi smanioso d'ira dal letto, e tutto si confondeva nella sua mente in
una torbida visione a cui intendeva ansando, come se sulla porta della morte
gli apparisse, al di là, un pauroso dramma sovrumano.
C'era un peggioramento improvviso, la
paralisi minacciava il polmone.
Il Palazzo non era parso mai così
cupo come quella notte, malgrado i lumi che vi vegliarono fino all'alba.
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