Capitolo VII
MALOMBRA
Alle due
pomeridiane il commendatore e Silla lavoravano in biblioteca. Preparavano
lettere e telegrammi d'affari, liste di persone a cui mandare la partecipazione
di morte. Il Vezza aveva una parlantina inesauribile. Seduto al tavolo del
conte Cesare, di fronte a Silla, discorrendo, scrivendo, buttando da parte una
carta, pigliandone un'altra, non taceva che per guardare la punta della penna,
per rileggere con un tal brontolìo inarticolato quello che aveva scritto o per
spremersi con la sinistra dalle gote e dal mento qualche frase che non gli
veniva pronta come le altre. Ogni tanto, discorrendo, dava un'occhiata a Silla
e un tocco discretissimo nell'argomento della misteriosa comunicazione avuta da
Marina. Ma quegli rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. Pensava al
colloquio avuto lì col povero conte nell'agosto precedente, la sera dopo il suo
arrivo al Palazzo. Gli pareva udire ancora il vocione solenne e quel furibondo
pugno sul tavolo. Adesso il sole fendeva obliquo la sala dalle finestre verso
il lago, la empiva d'un chiaror verde dorato; e l'uomo giaceva in una camera
vicina, senza vita. Quale mutamento! Scriveva, scriveva, buttando egli pure una
carta per pigliarne un'altra, non rileggendo mai, trasalendo a ogni tratto
nell'accorgersi di una parola omessa o sbagliata. Richiamava i pensieri a
raccolta e tosto gli sfuggivano daccapo.
«I telegrammi son fatti» disse il Vezza.
«Adesso suoniamo per farli portare. Vuol favorire? Grazie. E le lettere per gli
agenti, per i fittabili? Almeno quelli là di Oleggio bisognerebbe informarli
subito. Chi ne sa il nome? Mi secca cercare i registri prima che venga il
pretore da C... E cosa fa quel benedetto uomo? Sa ch'è anche organista quel
pretore lì? Capace, se v'è per caso una funzione in chiesa, di non venire ad
apporre i sigilli prima di stasera. E verrà pescando, probabilmente, per
guadagnarsi la cena. Non Le pare, Silla, che vi sia un certo odore qui? No? Le
assicuro che non vedo l'ora di essere a Milano. E Lei, scusi, che progetti ha?»
Silla rimase un po' sorpreso.
Entrò il cameriere.
«Questi telegrammi» disse il Vezza.
«Mandare qualcuno subito.»
«Sa?» ripigliò parlando a Silla
«desideravo sapere se ha progetti, perché io avrei una proposta a farle.»
«Quale proposta?»
«Non si prenderebbe intanto una boccata
d'aria pura?»
Uscirono nel giardinetto pensile. Il
vento passava alto nel vigneto, scendeva a sfuriare nel cortile curvando in qua
e in là sulla ghiaia lo zampillo ondulante della fontana: lì taceva.
«Che bellezza e che allegria!» disse
il commendatore. «Mi dica un po' se pare che sia morto il padrone?»
«A me sì» rispose Silla.
«A me no. Fa niente, senta. Io ho
l'incarico di cercare un insegnante di storia e di letteratura italiana per un
eccellente istituto privato di Milano. Ventidue ore alla settimana, due mesi di
vacanze, duemila e duecento lire di stipendio. Ci va?»
Silla gli stese la mano, lo ringraziò
con effusione.
«Ma» diss'egli «non ho abilitazione.»
«Peuh! non è una difficoltà.
M'impegno io per questo. Che diavolo fanno quelli là?»
Quelli là erano il giardiniere
e Fanny affaccendati a cogliere fiori nelle aiuole di fronte all'arancera, che
di lì s'intravvedevano con una striscia di lago fra l'ala sinistra del palazzo
e la muraglia verde semicircolare del cortile.
Il Vezza accennò con la mano a Fanny,
che attraversò correndo il cortile e venne sotto la ringhiera del giardinetto.
«Cosa fate?» diss'egli.
«È la mia signora» rispose Fanny in
aria di mistero inarcando le sopracciglia e porgendo le labbra.
«Perché? Per il funerale?»
«Off! Sì che gliene importa del
funerale! Per il pranzo! Come, non lo sa? Non gliel'ha detto il signor Paolo,
che la ci ha ordinato un fior di pranzo, che anzi lui ha detto in cucina che
non avrebbe fatto niente senza un ordine suo, di Lei?»
«Signora Fanny?» chiamò il
giardiniere.
«Vengo! - E lo sa dove c'è l'ordine
di preparare il pranzo? In loggia. Dico io, con questo vento! E io devo star
qui a cogliere fiori, che patisco tanto il vento, io!»
«Signora Fanny!» gridò ancora il
giardiniere.
«Vengo! - Una bella roba anche
questa, neh! Io già a momenti pianto tutto. Non voglio mica diventar come lei,
con quest'ariaccia e questo demonio di sole sulla testa.»
«Signora Fanny!» chiamò il
giardiniere per la terza volta. «Viene o non viene?»
«Vengo, vengo! - L'è perché se non
faccio io, quell'altro là non sa far nulla con garbo. - Me lo diceva anche il
signor don Cecchino Pedrati che Lei già lo avrà inteso nominare, perché è una
casa grande quella...»
«Sì sì, vada pure» disse il Vezza.
Fanny andò via gridando al
giardiniere se non vedeva che i signori le parlavano.
Il commendatore si voltò a Silla.
«Voglio andar a sentire di questo
pranzo» diss'egli. «Quella bestia del cuoco che non viene a dirmi niente!»
«È una cosa impossibile» disse Silla.
«Lo credo bene. Non gliel'ho detto,
io, stamattina? Tutt'altro che guarita! E il dottore, quando viene.»
«Veramente dovrebb'essere qui a
momenti. È venuto stamattina, un minuto prima che la si svegliasse e ha detto
che non poteva tornare prima delle due. Adesso c'è a letto con la febbre anche
la Giovanna.»
«Signor Silla» disse il Rico dalla
porta della biblioteca «ha detto così la signora donna Marina di far piacere ad
andar su da lei un momento.»
<Ci siamo> pensò il
commendatore. <Bel dramma, però>.
Silla entrò in casa senza dir parola.
Il Rico lo accompagnò di sopra, gli
aperse l'uscio della camera dello stipo antico.
Marina era ritta in mezzo alla
camera, nella luce delle finestre spalancate.
«Lascia aperto» diss'ella al ragazzo,
prima di rivolgersi a Silla. «E adesso scendi in giardino, va ad aiutare tuo
padre e Fanny. Subito!»
Ella uscì nel corridoio, vi si
trattenne un momento ascoltando il ragazzo scender le scale; poi si voltò
rapidamente a guardar Silla.
Portava la stessa veste bianca a
ricami azzurri della sera precedente; aveva i capelli in disordine, il viso
livido.
Silla s'inchinò, ossequioso.
Rialzando il viso, la vide voltargli le spalle, muover lenta verso la finestra.
Ella tornò poi a furia sulla porta del corridoio, chiamando:
«Rico!»
Ma il ragazzo era già lontano e non
intese. Si fermò allora a guardar Silla per la seconda volta e disse:
«Nessuno. Non c'è nessuno.»
Egli non poté fraintendere il lungo
sguardo pieno di appassionate domande mute, sentì ch'ella aveva ingannato il
Vezza, ma rimase impassibile.
Tutto il fuoco degli occhi di lei si
spense a un tratto.
«Buon giorno» diss'ella.
Il saluto parve cader gelato dal terzo
cielo.
«Vezza Le ha parlato» soggiunse.
«Sarei partito subito, marchesina,
se...»
«Lo so, lo so.»
Silla tacque. Lo stipo d'ebano a
tarsie d'avorio, i fiori ancora sparsi per la camera gli ripetevano la
terribile storia della notte precedente.
«Lo so» ripeté Marina con voce
risoluta e sdegnosa «ma non basta.» E fece un passo verso Silla.
«Lo ha inteso, dunque» diss'ella «che
la mia fu una allucinazione?»
Silla accennò di sì. Era a qualche
distanza da lei, dall'altra parte del piano. Essa si rovesciò quasi bocconi sul
piano, alzando il viso a guardar l'uomo.
«E lo ha creduto?» disse. «Ed è
contento di andarsene?» Silla non rispose.
«Già» mormorò Marina, socchiudendo
gli occhi come una fiera blandita. «Una cosa naturale, una cosa semplice, una
cosa comoda! Va bene!» esclamò rialzandosi.
V'era sul piano un vaso con delle
rose e de' grappoli di glicine, sciolti. Ne strappò una manciata, li avventò
sul pavimento.
«Partire va bene» diss'ella «ma non
basta. Non si sente in dovere di fare altri sacrifici per me?»
La sua voce fremeva, così parlando,
d'ironia amara.
«Sono ai Suoi ordini, marchesina»
rispose Silla gravemente. «Qualunque sacrificio.»
«Grazie. Dunque sarebbe anche
disposto di scrivere al conte Salvador!»
«Al conte Salvador?» esclamò Silla
sorpreso. «Cosa dovrei scrivergli?»
«Ch'Ella parte di qua per sempre e
non cercherà mai di rivedermi.»
«Questo Le basta?»
«Com'è buono!» disse Marina
sottovoce.
«Posso esserlo col signor conte
Salvador» rispose Silla freddamente. «Mi sono posto stanotte a sua
disposizione, l'ho aspettato un'ora, ed egli non si è lasciato vedere.»
«Ah, lo odia, Lei?» esclamò Marina
con due occhi lampeggianti.
«Io? No.»
Ella si pose a camminare su e giù per
la camera, si fermò un tratto, dicendo:
«Ma iersera sì, eh, che lo odiava?
Iersera alle undici?»
Silla pensò un momento e rispose:
«Marchesina, è stata un'allucinazione
anche la mia.»
Ella rise forte, d'un riso che
strinse il cuore a Silla.
«Allora» disse «Le perdono tutto ed è
affare finito.»
«Dunque la marchesina non desidera
più nulla da me?»
«Grazie» rispose Marina sorridendo
amabilmente. «Nulla. Ci vedremo ancora a pranzo, non è vero? Lei pranza qui? Ne
La prego» soggiunse perché Silla esitava.
Egli sapeva che questo pranzo non si
farebbe, ma non credette prudente di entrare nell'argomento e s'inchinò
ringraziando.
Mentr'egli usciva, Marina batté con
la mano sullo stipo antico, e disse:
«Sa? Distrutto!»
Silla si voltò, vide la bella mano
bianca ch'esprimeva in aria, con un breve gesto, lo sparir di qualche cosa, la
bella testa che salutava ancora, sorridendo.
«Meglio» diss'egli.
Appena percorso il corridoio e posto
il piede sulla scala si udì, alle spalle, un grido acutissimo. Balzò indietro
alla porta ond'era uscito, vi stette in ascolto, trattenendo il respiro. Udì
accorrere un fruscìo d'abiti, la chiave girò nella toppa. Silla si allontanò,
discese le scale pieno d'inquietudini.
Era Marina che aveva gettato quel
grido e poi chiuso l'uscio a chiave. Si diede dei pugni nella fronte per
domarsi, aperse lo stipo, trasse il manoscritto sulla ribalta calata, e puntosi
il braccio sinistro scrisse col sangue sotto le ultime parole di Cecilia:
<C'est ceci qui a fait cela. 3
Mai 1865. Marquise de Malombra, jadis comtesse Varrega.>
Dopo di che aperse un cassetto dello
stipo e ne tolse un elegantissimo astuccio da pistole, in cuoio, con lo stemma
della famiglia di Malombra, uno scudo d'azzurro alla cometa d'argento, al
canton franco di nero, caricato d'un giglio d'argento.
«Sapete» diss'ella, parlando alle
armi «ha accettato di partire. Non ha inteso ch'era una prova.»
Silla trovò in biblioteca il
commendatore che lo aspettava frugando gli scaffali con il naso e con gli occhi
ghiotti. Gli raccontò il colloquio, le ultime parole cortesi di donna Marina,
il grido udito dal corridoio; disse che non aveva rifiutato espressamente
l'invito a pranzo perché vedeva una donna malata, verso la quale bisognava
procedere con le maggiori cautele. Secondo lui era necessario un sollecito
provvedimento medico. Suggerì di telegrafare a questi parenti di Milano che
procurassero di portarla via subito dal Palazzo, soggiorno pessimo per lei. Il
Vezza rispose che lo farebbe, che intanto aveva sospeso il pranzo e contava sul
medico onde persuadere donna Marina di rinunciarvi spontaneamente. Mentre
diceva questo, comparve il medico.
Questi ascoltò la relazione dello
stato di tranquillità relativa in cui s'era trovata la marchesina svegliandosi
e accettò di adoperarsi per farle abbandonare l'idea del pranzo. Promise che
sarebbe tornato a dar conto della sua missione.
Stette assente a lungo. Quando
ricomparve aveva la sua faccia de' sinistri presagi, la più scura.
«Dunque?» gli chiese il Vezza.
Il medico guardava Silla, esitava a
rispondere.
«Ella può parlare liberamente»
osservò il commendatore.
«Bene. Io, già, signori, parlo da
medico, senza riguardi personali, e dico: andiamo male, dipende da Loro che non
vada peggio.»
«Ma guardi!» disse il Vezza. «Pensare
che stamattina era tranquillissima!»
«Oh, anch'io l'ho trovata
tranquillissima. Al primo vederla mi sono consolato, meravigliato anzi; un
minuto dopo, la sua calma non mi piaceva più. Vedono, dopo il travaglio nervoso
di stanotte quella donna lì doveva essere a terra, oggi, sfasciata. Ma no; non
abbiamo che il pallore veramente straordinario e la cerchiatura livida degli
occhi. Manca ogni altro sintomo di stanchezza, di depressione. Abbiamo apiressi
completa e un polso di cento battute almeno. Qui, mi son detto subito,
l'accesso nervoso sussiste ancora, questa calma non è fisiologica, è una coazione
della volontà; e forse tale antagonismo esagera alcuni fenomeni nervosi, la
frequenza del polso, per esempio. Le ho parlato di quel tale argomento. La
presi pel verso della salute, le dissi che aveva bisogno di quiete, che farebbe
bene a restare tutto il giorno in assoluto riposo, e non uscire di camera
neppure pel pranzo. Ah!»
Qui il dottore agitò le braccia come
se la parola non bastasse più al racconto.
«Confesso che due occhi simili non li
ho mai visti. In un minuto secondo è cresciuta un palmo. Mi ha investito con
una veemenza! Anzi, se debbo dire il vero, si è scagliata più contro di lei,
signor commendatore, che contro di me, perché ha compreso subito, con l'acume
de' monomaniaci, che dovevo aver parlato con Lei. Si vede ch'era in sospetto
d'una opposizione. Ha detto che si vuole imporle, che non prende lezioni da
nessuno, che le rincresce non aver invitate cinquanta persone; e via di questo
passo con una irritazione che la soffocava, la faceva tremare come una foglia.
Io cercavo di chetarla. Oh, sì, non era possibile, si adirava sempre più.
Finalmente dovetti prometterle che tutto si sarebbe fatto secondo i suoi
desideri e che anzi mi sarei fermato a pranzo anch'io; e credano, signori,
bisogna finirla così. Non consiglierei a nessuno di contraddire una donna che
esce da una crisi come quella di stanotte e offre indizi così minacciosi di
ricadervi. Ecco.»
«Dunque?» domandò il commendator
Vezza.
«Dunque io, per parte mia» rispose il
dottore con fermezza «farei quello che desidera, benché non ci avrò davvero
tutti i gusti.»
«E se noi due ci astenessimo, Lei
crede...»
«Ma! Ripeto che non lo farei.»
Il commendatore consultò Silla con
gli occhi.
«Quanto a me» disse questi «non
c'interverrò in nessun caso. Si potrà dirle che non sentendomi bene non ho
voglia di pranzare e che sono ancora occupato in queste lettere. Meglio ancora;
potrò partir prima del pranzo. Del resto, dottore, supponga che donna Marina
abbia subìto sino a stanotte l'influenza di una forte scossa morale, e che
adesso, per una ragione o per l'altra, se ne sia liberata; non ammette Lei che
dei nervi tanto turbati, quantunque rimessi a posto, vibrino ancora per un po'
di tempo? Non ammette che, se la causa del male è distrutta, debba ritenersi
improbabile una recidiva?»
Il dottore considerò per qualche
tempo Silla, prima di rispondere.
«Badi, sa» diss'egli «che quand'anche
la causa del male fosse distrutta, non ne discenderebbe mica che adesso si
potesse impunemente irritare questa donna, i cui nervi, come dice Lei, vibrano
ancora tutti; una donna, noti, molto mal disposta inizialmente se ha potuto
accogliere certi fantasmi. Ma, domando io se n'è poi liberata?»
«Parrebbe di sì» rispose Silla «o
almeno c'è qualche ragione di sperarlo. Lei stessa lo dice, intanto.»
«E io» replicò il medico «mi perdoni,
ne dubito.»
Gli altri due lo guardarono
silenziosi, aspettando.
«Stavo per lasciarla» diss'egli «ero
già sulla soglia, quando mi richiamò <Dottore, venga qua.> Me le
avvicino, ella si scopre l'avambraccio sinistro, mi dice: <Vuol vedere delle
ferite profonde?>. Mi mostra due o tre punture di zanzara e soggiunge:
<Si può morire di questo?>. Io non capisco, eh; la guardo. <Non
crede> dice lei <che un'anima possa passare di lì? Pure le assicuro> dice
<che ha cominciato; un pensiero e un segreto ne sono già usciti.> Così mi
ha detto. Ma facciano grazia, signori, queste parole, nella loro assurdità, non
generano il sospetto che sussista sempre la forte preoccupazione morale di cui
parlava il signore? Del resto, a quella signora bisogna pensarci sul serio e
subito. Qui non può stare.»
«Provvederemo» rispose il Vezza.
«Adesso Lei va dalla Giovanna?»
«Vado dalla Giovanna.»
«E ci rivedremo alle cinque?»
«Alle cinque.»
«Oh sì, ho un gran piacere che allora
Lei si trovi qui.»
«Io partirò alle cinque» disse Silla.
Il commendatore parve poco contento.
«A che ora» diss'egli «passa da...
l'ultimo treno per Milano?»
«Alle nove e mezzo.»
«Oh, allora può partire anche dopo le
sei. Così vede come va questo pranzo.»
Il dottore uscì. Gli altri due
sedettero al tavolo e ricominciarono a lavorare.
Il vento durava a fischiare e urlare,
le onde schiamazzavano intorno al Palazzo, selvaggi spettatori accorsi a un
dramma che non cominciava mai, invasi dalle furie dell'impazienza. Era, intorno
alle vecchie mura impassibili uno scatenamento di passioni feroci che volevano
subito lo spettacolo, volevano veder soffrire, morire, se possibile, uno di
questi piccoli re superbi della terra. Che si aspettava? Le onde schiaffeggiavano,
insultavano l'edificio, balzavano sullo scoglio a piè della loggia,
tempestavano su tutte le rive, si rizzavan lontano, le une dietro le altre, con
un largo clamore di folla fremebonda. Il vento saltava a destra, a sinistra, in
alto, in basso, impazzito, furioso; passava e ripassava per la loggia
stridendo, ingiuriando gli attori invisibili. Anche i cipressi gravi dondolavan
la punta, le viti stormivano, i gelsi e i miti ulivi sparsi pe' campicelli si
contorcevano, si dimenavano, colti dalla stessa follìa. Le montagne guardavan
là, severe. Ma la scena taceva sempre: i personaggi si tenevano ancora
nascosti.
Dopo le tre, infuriando sempre il
vento, entrarono in loggia Fanny, il cameriere, il giardiniere e il Rico, si
affacciarono alle arcate verso il lago, guardando un po' il cielo, un po' i
monti, un po' le onde tumultuanti al basso, che urlavano <no, no, non
voi!>. Parvero consultarsi. Fanny uscì dalla porta di destra gittando col
braccio sinistro una imprecazione al cielo ed alla terra; gli altri rimasero.
Ella tornò subito, probabilmente con gli ordini della sua padrona, e i tre
colleghi le si raccolsero attorno. Uscirono poi tutti insieme da sinistra e
rientrarono con un gran tappeto scuro quasi nero, che stesero dalle tre arcate
posteriori della loggia a tre delle cinque anteriori, lasciando scoperti a
destra e a sinistra due spicchi di pavimento. Poi il giardiniere, aiutato da
suo figlio e da due garzoni, portò su dal giardino, con due barelle, moltissimi
vasi di camelie, d'azalee, di cinerarie e di calceolarie in fiore e quattro
grandi dracene australes. Si portarono pure due gradinate rustiche di
legno e si addossarono ai fianchi della loggia tra le due porte e la
balaustrata posteriore. Fanny e il cameriere portarono tre piccoli tavoli,
quattro poltrone cremisine e una elegantissima giardiniera di metallo dorato,
dono giunto a Marina due settimane prima dalla signora Giulia De Bella. Poi
donna Marina stessa, stretta nel suo scialletto bianco che le disegnava le
forme, entrò lentamente, negligentemente in loggia, si fermò davanti all'arcata
di mezzo e cominciò a dare degli ordini senza muovere un dito, indicando i
luoghi e le cose col girar della persona e del viso.
L'ombra della costa boscosa a ponente
del Palazzo avanzava rapida verso levante. Il vento si rabboniva, le onde si
azzittivano come se avessero visto Marina entrar in scena.
Ella vi si trattenne fino a che fu
bene avviata l'esecuzione de' suoi ordini, poi si ritirò accennando al Rico di
seguirla.
Una scena sontuosa, elegante apparve,
a opera finita, dentro dalle colonne austere, dal cornicione accigliato della
loggia. Agli angoli le dracene sprizzavan su come getti verdi dall'enormi
azalee in fiore aggruppate a' lor piedi, spandevano in alto una piova di
sottili foglie ondulate, ricadevano graziosamente. A destra e a sinistra le due
gradinate gremite di cinerarie e di calceolarie versavano dall'alto due cascate
di mille colori sul tappeto cupo. Sei grandi vasi di camelie, ritti sulla
balaustrata posteriore, chiudevano il fondo della scena. Il meno piccino dei
tavoli, con due posate, stava quasi addossato all'arco di mezzo; gli altri, a
una posata per ciascuno, posti per isghembo a' lati del primo, si fronteggiavano.
Tovaglie grigio giallognole di Fiandra li coprivano tutti e tre sino a terra,
mettevano in quella nervosa musica di colori tre note quiete e gravi su cui si
smorzavano anche i toni acuti dei cristalli e degli argenti. Sul davanti e nel
mezzo, la giardiniera dorata di donna Giulia posava sul fondo scuro del tappeto
una tenera nudità di giacinti delicati, spogli d'ogni verde, stretti nel
baglior del metallo, che tentavano, come un dolce odoroso, il palato,
promettendo squisitezze voluttuose, penetranti nel sangue.
«Ai signori e ai matti obbedisce
anche il vento» disse Fanny che aveva pensato veder tutto l'apparecchio
sossopra in un attimo.
Dopo le quattro e mezzo il
commendatore e Silla entrarono in loggia dalla biblioteca; quasi
contemporaneamente vi entrò dall'altra parte il medico. Tutti e tre si
fermarono attoniti, considerando l'ordine elegante della scena, la pompa dei
colori che spiccavano sul tappeto oscuro.
«Tutto lei, capite!» disse il Vezza,
ancora più sgomentato che sorpreso.
Era lei, sì, che aveva disposto tutto
e vi si vedeva l'immagine sua; un cuor nero, una fantasia accesa, una
intelligenza scossa ma non caduta.
«Io torno in biblioteca» disse Silla,
«finisco quegl'indirizzi, poi me ne vado dalla scaletta.»
«No, no, La prego!» esclamò il Vezza.
«Se assolutamente non vuol pranzare con noi, almeno ci stia vicino. Io Le
assicuro che ho la febbre addosso. Avremo fatto male, dottore, a essere
condiscendenti? Ho dovuto far avvertire i domestici, sa, ch'era ordine Suo di
accontentare donna Marina. Per carità, Silla, stia vicino, stia lì nel salotto,
almeno. Faccia questo favore a me.»
«Bene» rispose Silla «mi porterò là
da lavorare; ma si ricordi, appena finito il pranzo vado via.»
Il dottore era agitatissimo, si
giustificava del consiglio che aveva dato, adduceva una quantità di ragioni
buone e cattive. Si capiva che dubitava egli stesso di avere sbagliato.
«Non sapevo poi tutto, stamattina»
diss'egli «non avevo parlato con la Giovanna.»
Accennò agli altri due di
avvicinarglisi.
«Lo sanno Loro come la è stata del
povero conte?»
Sapevano e non sapevano. Il dialogo
continuò sottovoce.
Silla guardò l'orologio; mancava un
quarto alle cinque. Andò in biblioteca a pigliarsi le carte e passò poi nel
salotto a lavorare.
Gli altri due, discorrendo, videro
passare sotto la loggia il battello di casa condotto dal Rico.
«Dove vai?» gli gridò il Vezza.
«A R... Ordine della signora donna
Marina» rispose quegli.
«Doveva ben parlare con me, prima di
obbedire a lei» brontolò il commendatore, e riprese il suo discorso.
«Ecco» diss'egli «io lo avrei
preparato così, il telegramma. Noti che la persona cui lo dirigo ha molto cuore
e una coscienza scrupolosa, ma stenta un poco a muoversi, a pigliare
risoluzioni gravi. Dunque direi così: <Per espresso volere medico curante,
onde togliermi grandi responsabilità, avverto Lei più stretta parente signorina
di Malombra sua salute esige pronto allontanamento questa dimora>.»
«Metta prontissimo» disse il
dottore.
«Metterò prontissimo.»
«Metta anche...»
Il dottore non poté compir la frase,
perché donna Marina comparve sulla soglia.
Vestiva un abito ordinato da lei alla
sua antica sarta di Parigi che ne conosceva bene l'umor bizzarro, un ricco e
strano abito di moire azzurro cupo, a lungo strascico, da cui le saliva
sul fianco destro una grande cometa ricamata in argento. Sul davanti della vita
accollata, attillatissima, era inserto un alto e stretto scudo di velluto nero
arditamente traforato nel mezzo, in forma di giglio, sulla pelle bianca. Marina
non era più così pallida; un lieve rossor febbrile le macchiava le guance; gli
occhi brillavano come diamanti.
«Musica!» diss'ella sorridendo e
guardando il lago. «Quella che vuoi, lago mio! Non è vero, Vezza, che la musica
è ipocrita come un vecchio ebreo e ci dice sempre quello che il nostro cuore
desidera? Non è per questo che ha tanti amici?»
«Marchesina» rispose quegli cercando
di fare il disinvolto «fuori di noi non c'è musica, non c'è che un vento. Le
corde sono dentro di noi e suonano secondo il tempo che vi fa.»
«Da Lei ci deve far sempre sereno,
eh? Un sereno cattolico: e queste onde Le dicono: come è dolce ridere, come si
balla bene, qui! - Dov'è il signor Silla?»
«Ecco...» incominciò il Vezza
imbarazzato.
«Partito no!» esclamò donna Marina
fieramente, afferrandolo per un braccio e stringendoglielo forte.
«No, no, no, è qui» rispose colui in
fretta «ma debbo fare le sue scuse. Non si sente bene, non potrebbe pranzare; e
siccome ha avuto la gentilezza di offrirmi il suo aiuto per alcune faccende
urgenti, così adesso...»
Ella non lo lasciò finire, gli chiese
imperiosamente
«Dov'è?»
Le tremava la voce.
«Ma..» rispose il commendatore,
titubante. «Non so... poco fa era in biblioteca...»
«Vada e gli dica che lo aspettiamo.»
«È nel salotto» disse il medico. «È
occupato a scrivere. Accetti le sue scuse, marchesina, ne La prego.»
Ella rifletté un istante e poi
rispose con voce vibrata:
«La Sua parola, ch'è nel salotto!»
«La mia parola.»
«Bene» diss'ella pacatamente «verrà
più tardi senza esser chiamato. - Del resto, caro Vezza, da me ci fa nuvolo, un
tempo triste. Dica Lei, dottore, non è una malattia la tristezza? Non abbassa
la fiamma della vita? Ella mi darebbe dei cordiali se mi sentisse il sangue
scorrer più lento; qualche sinistro alcool mascherato. Ma se io prendo invece
gli spiriti vitali dei fiori, l'aria pura, la conversazione degli uomini sereni
come il nostro amico Vezza, degli uomini esperti del dolore come Lei, chi vorrà
censurarmi? Ecco sciolto, signori, l'enigma di questo pranzo, e pranziamo. Lei
qua, Vezza, presso a me; e Lei, dottore, lì, alla mia destra.»
Il pranzo incominciò.
I commensali di donna Marina
tacevano, gustavano appena delle vivande. Il commendatore deplorava in cuor suo
che il pranzo finissimo, servito con eleganza squisita, tra i fiori, da una
giovane e bella donna, gli fosse capitato in un momento disadatto e in
circostanze tali da non poterlo affatto gustare né con il palato né con lo
spirito. E accarezzava la sola idea piacevole che gli sorridesse in mente:
raccontar la scena nei salotti di Milano, con arte, a cuore placido. Si
guardava cautamente attorno, imparava a memoria le dracene e le azalee, le
cascate di cinerarie e di calceolarie, sbirciava il moire della sua
vicina, e per quanto poteva, il giglio bianco nello scudo di velluto. Ma gli
occhi curiosi dei fiori schierati sulle gradinate come in un teatro, gli
dicevano che lo spettacolo non era finito.
Il dottore studiava continuamente
Marina, temendo qualche accesso come quello della sera precedente o della notte
in cui era entrata la prima volta dal conte. Si teneva pronto, spiava, senza
parere, ogni movimento di lei. Egli comprendeva solo adesso l'importanza
attribuita da Marina a questo pranzo e si rimproverava di avervi acconsentito.
Non poteva difendersi da tristi presentimenti. Il luogo così aperto sul cortile
e sul lago gli metteva paura. E gli metteva paura il contegno sempre più inquieto
di Marina, che dopo un cucchiaio di zuppa non aveva mangiato punto.
«Che silenzio!» diss'ella finalmente.
«Mi par d'essere fra le ombre. Somiglio a Proserpina?»
«Oh!» rispose il commendatore
storditamente. «Lei farebbe risuscitare i morti.»
Subito gli venne in mente l'uomo
sfigurato che giaceva sotto un lenzuolo a pochi passi dalla loggia; gli corse
un brivido nelle ossa.
«Pure» replicò Marina «i miei ospiti
sono lugubri come giudici infernali. Versatemi del Bordeaux» diss'ella al
vecchio cameriere che serviva solo, più lugubre ancora dei convitati. «Anche a
questi signori.»
Il cameriere obbedì. Devoto al povero
conte da lui servito per ventidue anni, gli pareva d'essere alla tortura.
Versava con mano tremante, facendo tintinnare il collo della bottiglia
sull'orlo dei calici.
«Vi prego di assaggiar questo vino»
disse Marina.
«Pensatelo, adesso. Non vi trovate un
lontano sapore d'Acheronte?»
Il commendatore alzò il calice, lo
sperò, vi posò ancora le labbra e disse: «Ha qualche cosa d'insolito.»
«Supponga dunque, commendatore
Radamanto» disse Marina con voce commossa, contraendo nervosamente gli angoli
della bocca «che per certe mie ragioni io abbia pensato...»
Si lasciò cadere sulla spalliera
della poltrona, porgendo le labbra, facendo con la mano l'atto di chi butta via
sdegnosamente una cosa spregevole.
«Sa» diss'ella «questa vita è così
vile! Supponga dunque ch'io abbia pensato di aprir la porta e uscire quando
muore il sole, in mezzo ai fiori, portando meco alcuni amici di spirito pel
caso che il viaggio fosse troppo lungo. Supponga che in quel Bordeaux...»
Il Vezza trasalì, guardò il cameriere
ritto presso la porta di sinistra, impassibile.
«Oh!» esclamò Marina «come mi crede
subito!»
Si fe' versare dell'altro vino e si
recò il calice alla bocca.
«Sapore insolito?» diss'ella. «Se è
puro, questo Bordeaux, come un'Ave Maria! È stato uno scherzo di
Proserpina. - Bevete» proseguì concitata «cavalieri dalla triste figura.
Provvedetevi di cuore e di spirito.»
Il dottore non bevve. Sentiva venire
una tempesta. Il Vezza si accostò invece al consiglio di donna Marina e vuotò
il suo bicchiere.
«Bravo!» diss'ella facendosi pallida.
«Si ispiri per una risposta difficile.»
«Di Proserpina in Sfinge,
marchesina?»
«In Sfinge, sì, e vicina a diventar
di pietra o più fredda ancora! Ma che prima parlerà, dirà tutto. Dunque...»
Ell'era andata diventando sempre più
livida. A questo punto un tremito di tutta la persona le spezzò la voce. I due
uomini si alzarono in piedi. Ella strinse il coltello, ne ficcò rabbiosamente
la punta nel tavolo.
«Quieta, quieta» disse il medico
pigliandole una mano gelata, piegandosi sopra di lei. Ella si era già vinta,
respinse la mano del medico e si alzò.
«Aria!» diss'ella.
Passò con impeto fra il tavolo suo e
quello del dottore, e si slanciò alla balaustrata verso il lago.
Il dottore le fu addosso d'un salto
per afferrarla, trattenerla.
Ma ella si era già voltata e piantava
in viso al Vezza due occhi scintillanti.
«Dunque» esclamò affrettandosi di
parlare, di far dimenticare un momento di debolezza «crede Lei che un'anima
umana possa vivere sulla terra più di una volta?»
E perché il Vezza, smarrito,
sgomento, taceva, gli gridò:
«Risponda!»
«Ma no, ma no!» diss'egli.
«Sì, invece! Lo può!»
Nessuno fiatò. Il giardiniere, il
cuoco, Fanny, avvertiti dal cameriere, salirono frettolosi le scale per venire
ad origliare, a spiare. Il vento era caduto; le onde lente sussurravano a piè
dei muri: <Udite! udite! >.
E nel silenzio vibrò da capo la voce
di Marina.
«Sessant'anni or sono, il padre di
quel morto là» (ell'appuntò l'indice all'ala del Palazzo) «ha chiuso qui dentro
come un lupo idrofobo la sua prima moglie, l'ha fatta morire fibra a fibra.
Questa donna è tornata dal sepolcro a vendicarsi della maledetta razza che ha
comandato qui fino a stanotte!»
Teneva gli occhi fissi sulla porta a
destra, ch'era aperta perché avean disposto la credenza nella sala vicina.
«Marchesina!» le disse il dottore con
accento di blando rimprovero. «Ma no! Perché dice queste cose?»
In pari tempo le pigliò il braccio
sinistro con la sua mano di ferro.
«Là c'è gente!» gridò Marina.
«Avanti, avanti tutti.»
Fanny e gli altri fuggirono, per
tornar poi subito in punta di piedi a spiare, nascondendosi da lei.
Silla venne sulla porta del salotto.
Di là non poteva veder Marina, ma la intendeva benissimo. Adesso diceva:
«Avanti! egli non viene perché la sa,
la storia. Ma non la sa tutta, non la sa tutta; bisogna che gli racconti la
fine. Tornata dal sepolcro, e questo è il mio banchetto di vittoria!»
La voce, subitamente, le si affiochì.
Ell'abbracciò la colonna presso cui stava, vi appoggiò la fronte scotendola con
veemenza come se volesse cacciarvela dentro, mise un lungo gemito rauco,
appassionato, da far gelare il sangue a chi l'udiva.
«L'infermiera, la donna di stanotte!»
disse forte il medico verso la porta, e si voltò poi a Marina, di cui teneva
sempre il braccio.
«Andiamo, marchesina» diss'egli
dolcemente «ha ragione, ma sia buona, venga via, non dica queste cose che Le
fanno male.»
Ell'alzò il viso, si ravviò con la
destra i capelli arruffati sulla fronte, trapassando ancora con l'occhio avido
la porta e la sala semioscura. Sul suo petto ansante il giglio scendeva e
saliva, pareva lottar per aprirsi. La moglie del giardiniere si affacciò alla
porta. Ella le accennò violentemente, con il braccio libero, di farsi da banda,
e disse al medico parlando più con un gesto che con la voce:
«Sì, andiamo via, andiamo nel
salotto.»
«E nella Sua camera non sarebbe
meglio?»
«No, no, nel salotto. Ma mi lasci!»
Ella disse quest'ultime parole in
atto così dignitoso e fiero che il dottore obbedì, e si accontentò di seguirla.
A lui premeva sopra tutto, in quel momento, allontanarla dalla balaustrata.
Marina s'incamminò lentamente,
tenendo la mano destra nella tasca dell'abito. Il Vezza e il cameriere la
guardarono passare, allibiti. Il dottore che la seguiva, si fermò un momento
per dar un ordine all'infermiera. Intanto Marina arrivò alla porta.
Fanny, il cuoco e il giardiniere
s'erano tirati da banda per lasciarla passare senza esserne visti. In sala le
imposte erano chiuse a mezzo e le tende calate.
Silla stava sulla soglia del salotto.
Vide Marina venire ed ebbe un momento d'incertezza. Non sapeva se farsi avanti
o da parte o ritirarsi nel salotto. Ella fece due passi rapidi verso di lui,
disse «Oh, buon viaggio» e alzò la mano destra. Un colpo di pistola brillò e
tuonò. Silla cadde. Fanny scappò urlando, il dottore saltò in sala, gridò agli
uomini - tenerla! - e si precipitò sul caduto. Il Vezza, il cameriere, l'altra
donna corsero dentro gridando a veder chi fosse. Il giardiniere e il cuoco
vociferavano, si eccitavano l'un l'altro a trattener Marina, che voltasi
indietro, passò in mezzo a tutti, con la pistola fumante in pugno, senza che
alcuno osasse toccarle un dito, attraversò la loggia, ne uscì per la porta
opposta, la chiuse a chiave dietro di sé. Tutto questo accadde in meno di due
minuti.
Il giardiniere e il cameriere, vergognandosi
di sé irruppero sulla porta, la sfondarono a colpi di spalla. Il corridoio era
vuoto. Si fermarono incerti, aspettando un colpo, una palla nel petto, forse.
«Avanti, vili!» urlò il dottore
slanciandosi in mezzo ad essi. Si fermò nel corridoio, stette in orecchi.
Nessun rumore.
«Fermi lì, voi» diss'egli e saltò
nella camera del conte.
Vuota. Le candele vi ardevano quiete.
Entrarono, egli nella camera da letto,
gli altri due in quella dello stipo.
Vuote.
Il dottore si cacciò le mani nei
capelli, esclamò rabbiosamente:
«Maledetti vili!»
«In biblioteca!» disse il
giardiniere.
Saltarono giù per le scale, il
dottore primo. Toccato il corridoio, udì un urlìo, distinse la voce del
commendatore che gridava:
«La barca! la barca!» Corse in
loggia, s'affacciò al lago.
Marina, sola nella lancia, passava lì
sotto, pigliava il largo piegando a levante. Sul sedile di poppa si vedeva la
pistola.
«Al battello!» disse il dottore.
Il Vezza gli gridò dietro:
«Per la scaletta segreta!»
Scesero per la scaletta segreta. Il
dottore cadde e ruzzolò sino al fondo; ma fu tosto in piedi, a tempo di udire
una imprecazione del giardiniere che si fermò di botto sulla scala.
«Il battello non c'è» diss'egli.
«L'ha mandato via col Rico prima di pranzo.»
«Sarà tornato!» disse il dottore e
spinse palpitando l'uscio della darsena.
Vuota. Le catene del battello e della
lancia pendevano sull'acqua.
Fu per stramazzare a terra. Lì
vicino, lo sapeva bene, non vi erano altre barche.
«Giardiniere!» diss'egli. «Al paese!
Una barca e degli uomini.»
Il giardiniere sparve per la
porticina del cortile.
«Dio, Dio, Dio!» esclamò il dottore
alzando le braccia.
Gli altri continuavano a gridare
dalla loggia «Presto! Presto!»
Ed ecco il giardiniere tornare di
corsa.
«Occorre anche il prete?» diss'egli.
Il dottore gli mise i pugni al viso.
«Stupido, non vedi che sono venuto
via io?»
Colui non capì bene, ma tornò via, e
il dottore corse di sopra.
Una finestra dell'ultimo piano si
aperse, una voce debole domandò:
«Cosa c'è? Cos'è accaduto?»
Era la Giovanna.
Qualcuno rispose dal cortile:
«È succeduto che hanno ammazzato il
signor Silla.»
«Oh Madonna Santa!» diss'ella.
Si udì il giardiniere gridare da
lontano. Altre voci gli rispondevano. Il passo d'un contadino che scendeva a
salti suonò sulla scalinata; lo seguì un altro. Venivan curiosi, avvertiti da
una scintilla elettrica. Il padrone era morto; entrarono in casa arditamente.
De' ragazzi passarono il cancello del cortile, scivolarono in casa essi pure,
saliron le scale. Volevano entrare nel salotto, sapevano che l'uomo era là. Ne
uscì il dottore entratovi un momento prima.
«Via» diss'egli con voce terribile.
I ragazzi fuggirono.
Quegli parlò a qualcuno ch'era
rimasto dentro.
«Fino a che non venga il pretore,
nessuno!»
Poi chiuse l'uscio.
Il Vezza e gli altri si strinsero
attorno affannati.
«Euh?» diss'egli. «Non ve l'ho detto
prima? Passato il cuore.»
Una finestra della sala era stata
spalancata. Egli vi accorse e dietro a lui, in silenzio angoscioso, tutti: il
Vezza, la gente di servizio, i due contadini. Fu aperta anche l'altra finestra.
Saetta era già lontana a capo d'una lunga scia obliqua sul lago quasi
tranquillo. Marina si vedeva bene, si vedeva l'interrotto luccicar dei remi. Il
Vezza, ch'era miope, disse:
«È ferma.»
Infatti non pareva avanzasse.
«No, no» risposero gli altri.
Uno dei contadini, soldato in
congedo, ch'era salito sopra una sedia per veder meglio, disse:
«Con una carabina la butterei giù.»
Fanny andò via singhiozzando, poi
tornò a guardare.
«Ma, per Dio, dove va?» esclamò il
dottore.
Nessuno rispose.
Un minuto dopo, il contadino ch'era
in piedi sulla sedia, disse:
«Va in Val Malombra. È dritta in mira
alla valle.»
Fanny ricominciò a strillare. Il
dottore l'abbrancò per un braccio, la trascinò via e le impose di star zitta.
«Perché in Val Malombra?» diss'egli.
«C'è un sentiero che passa la
montagna» rispose l'altro «e mena poi giù sulla strada grossa.»
«Non si può prenderlo quel sentiero
dalla riva di Val Malombra» osservò il secondo contadino.
«Si può sì. Basta andar su al Pozzo
dell'Acquafonda. È un affare di cinque minuti.»
«Eccoli!» gridò la moglie del
giardiniere.
Un battello a quattro remi usciva
rapidamente dal seno di R... per gettarsi di fianco sulla lancia.
Il dottore si accostò le palme alla
bocca, urlò a quella volta: «Presto!»
«La prenderanno?» chiese il
commendatore.
«In acqua, no» si rispose. «La lancia
in quattro colpi è a terra; per quelli là ci vogliono dieci minuti.»
Saetta si avvicinava al
piccolo golfo scuro di Val Malombra. Il battello era in faccia al Palazzo. Ad
un tratto due uomini lasciarono i remi e saltarono a prora gridando, non
s'intendeva che.
«Una barca!» esclamò il dottore.
«Ferma!» urlò con quanto fiato aveva.
«Ferma la lancia!»
Poi si volse ai due contadini.
«È il pretore. In fondo al giardino
voialtri! E gridate!»
Urlò ancora, spiccando le sillabe:
«Assassinio! Ferma la lancia!»
Infatti un'altra barca veniva da
levante verso il Palazzo, passava allora a un tiro di fucile da Saetta.
Malgrado il vociar disperato dal battello e dal Palazzo, quella barca seguiva
sempre, tranquillamente, la sua via.
«Non sentono» disse il dottore.
«Gridate tutti, per Dio!»
Egli stesso fece uno sforzo supremo.
Il Vezza, i domestici, le donne
gridarono con voce strozzata, impotente:
«Ferma la lancia!»
La barca veniva sempre avanti.
Saetta scomparve.
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