Capitolo VIII
FINALMENTE AMATO
Un'ombra nera
comparve sulla porta aperta del salotto di don Innocenzo, nascondendo il cielo
stellato; una voce disse:
«Niente.»
Il curato non la riconobbe, alzò il
paralume della lucerna.
«Ah! Niente?» diss'egli.
«Niente?» ripeté Steinegge.
Si alzarono ambedue in fretta, si
accostarono al nuovo venuto.
«C'erano sei uomini» disse costui, il
sindaco, con la sua soffice e solida placidità lombarda. «Quattro guardie
nazionali e due carabinieri. Han girato tutto il bosco. Già, se ci fosse stata,
l'avrebbero trovata anche i primi quattro del battello che sono arrivati a
terra un dieci o dodici minuti dopo di lei. È bell'e da vedere dov'è quella
lì.»
Steinegge gli accennò, con una faccia
supplichevole, di tacere, di uscire. Il sindaco non capiva, ma seguì nell'orto
gli altri due che, fuori, gli sussurravano una parola.
«Ah!» diss'egli.
Non aveva veduto nel salotto un'altra
persona seduta in un angolo tra il canapè e la parete. Ella non aveva dato
segno di vita all'apparir del sindaco né durante il suo discorso, ma si alzò
poi che il salotto rimase vuoto e venne sulla porta dell'orto dove il lume
della modesta lucernetta moriva nelle grandi ombre chiare della notte serena
senza luna.
«C'è chi vuol sostenere» diceva il
sindaco dilungandosi con il curato e Steinegge verso il cancello «che abbia
preso i monti. Ma s'immagini un po' una donna come quella se vuol prendere i
monti! Per andar dove, poi? Io non ci metto nessun dubbio. Lei, è giù, quieta
come un olio, nel Pozzo dell'Acquafonda, sa bene, quel buco che c'è là in Val
Malombra.»
Edith non poté udire altro, perché
coloro svoltarono il canto della casa e in cucina c'era crocchio, si parlava
forte. Ell'andò a sedere sul muricciuolo in faccia alla porticina chiara che
gittava tante chiacchiere nella notte solenne.
Erano tutte donne là in cucina,
vecchie comari linguacciute, amiche di Marta.
«Maledette zucche» diceva una voce
rude, soverchiando le altre «non capite che la è sempre stata matta, peggio,
quasi, di quella d'una volta? Lui era il suo amoroso, che anche l'estate
passato, quando fu qui, si trovarono insieme di notte fuori di casa, e questo
lo ha raccontato anche il pitòr se vi ricordate bene. Adesso lui voleva
piantarla e lei non ha detto né uno né due, e ha fatto il colpo. Eh! Ce ne sono
bene tutti i giorni, sulle gazzette di quei fatti lì!»
«Oh anima!» disse un'altra comare. «E
come faceva ad averci le pistole?»
«Ce l'ha sempre avute le pistole.
Almeno questo agosto ce le aveva di sicuro, perché il giardiniere lo raccontava
che la sua padroncina si divertiva a sparare addosso alle statue.»
«E il signor dottore» saltò su una
terza «dice che aveva paura che la si volesse ammazzar lei; ma che non ci è mai
venuto in mente che volesse ammazzar quell'altro.»
«Non avrà saputo bene la storia. Sì
che si voleva ammazzare quella lì! Dicono ch'è giù nel Pozzo dell'Acquafonda.
Credeteci voialtre. So anch'io che non l'hanno trovata. Una gamba di quella
sorta! L'ho incontrata io due o tre volte su per i boschi. Bisognava vedere che
demonio! Chi sa dove l'è a quest'ora. Guardate, se ha incontrato quella
compagnia di zingari che c'è intorno, non mi stupirei niente che si fosse messa
con loro. E non son mica io sola che la pensi così.»
Le altre non credevano, dicevano che
bisognerebbe scandagliare il Pozzo dell'Acquafonda. Ma questo non era possibile
per la profondità grande e perché il Pozzo era tutto a gomiti.
Intanto il sindaco, il curato e
Steinegge ritornarono, sempre discorrendo, sui propri passi. Essi dovettero
vedere bene Edith sul muricciuolo, perché dalla porta della cucina un poco di
chiarore giungeva sino a lei.
«Credano pure» diceva il sindaco «qui
la è una voce sola; se lei era matta, lui era un poco di buono anche lui.
Perché già è stata una gran figura quella di venir qua a far l'amore con la
signora donna Marina intanto che il povero signor conte era in punto di morte,
e proprio quando lei doveva sposarsi con un altro. Ci pare? Diceva giusto il
pretore stasera che la ci sta bene d'aver fatto quella fine.»
Steinegge avea visto Edith, ma pensò
che fosse meglio per lei udire queste cose, poiché il curato gli aveva fatto
sperare che non si trattasse di una passione profonda.
«Mi sono ingannato anch'io» diss'egli
«ed era facile ingannarsi su quest'uomo, perché era simpatico, assai simpatico.
Io credo che era infinitamente meglio in parole che in fatti. Non ha mai avuto
sentimento vero né per la marchesina di Malombra né per altra persona, io
direi. Vedete, ho conosciuto molti di questi letterati. Sono tutti così.
Sentono l'amore ora qui ora lì come un male nervoso che non è mai serio.
L'altro giorno è corso al Palazzo, oggi andava via, chi sa domani dove si
sarebbe attaccato!»
«Bene» disse don Innocenzo «parce
sepulto.»
«E ha sentito della lettera?» disse
il sindaco.
«No. Che lettera?»
«Questo è il bello. Quel signor
commendatore ha come frugato nella roba del signor Silla e ci ha trovato dentro
una lettera incominciata. Non c'è su nomi, non c'è su che <caro zio> e
poi una pagina di scritto che somiglia a un testamento. Pare proprio che
sapesse di esser vicino a fare la fine che ha fatta. Come la spiegano loro?»
«Lo avrà minacciato di ammazzarlo»
disse don Innocenzo.
«Gran brutte cose» concluse il sindaco
«gran brutti pasticci! Anche viver da galantuomini è una bella roba, non è
vero, signor curato? Di quegli affari lì non ne capitano.»
«Non giudichiamo nessuno» rispose il
curato.
Dopo un breve silenzio il sindaco
tolse congedo. Gli altri due lo accompagnarono sino al cancello. Quando egli si
fu allontanato, Steinegge cinse col braccio la vita di don Innocenzo, gli posò
la fronte sopra una spalla.
«Povera Edith, povera Edith»
diss'egli.
«Non tema, è forte la Sua Edith, e ha
poi in sé un'altra forza che vince tutto, anche la morte.»
«Sì, ma soffrirà, soffrirà! Non Le
pareva però che gli fosse molto attaccata, non è vero? Me lo ha già detto, ma
me lo dica ancora, mi dica proprio sinceramente quel che pare a Lei.»
Era scuro, per fortuna, e Steinegge
non poteva vedere sul viso sincero di don Innocenzo i suoi veri convincimenti,
il dolore d'aver incoraggiato esso pure l'affetto di Edith per quell'infelice.
«Mi pare di no» rispose strascicando
le parole. «Spero di no. Era una conoscenza molto recente. Spero che potrà
dimenticare presto ogni cosa come un brutto sogno. Ha pensato bene Lei, di
partire domattina. Me ne dispiace, ma è necessario. Là a Milano bisogna non
parlarne più, mai più. E adesso zitto.»
Si avvicinarono a Edith camminando
adagio, senza parlare. Quando arrivarono a lei, ella si alzò, si unì ad essi.
Tornarono insieme, lungo il muricciuolo, sino in faccia alla porta del salotto.
Steinegge piegò a quella volta, Edith sedette sul muricciuolo.
«Ah» diss'egli fermandosi «io
credeva...»
«Non qui, papà?»
«Mi pare che per te fosse meglio
entrare.»
Ella si alzò, abbracciò
silenziosamente suo padre e rientrò in salotto con lui, andò a sedere
nell'angolo di prima. Steinegge e il curato sedettero anch'essi muti, guardando
oscillar l'ombra intorno al piedestallo della lucerna. Le voci della cucina si
spensero. Una dopo l'altra le amiche di Marta passarono nell'orto, come ombre
di lanterna magica, davanti al salotto, sussurrandovi dentro un riverisco.
Si udì il canto dei grilli e delle rane giù per le bassure dei prati.
«A che ora gli hai detto, papà, al
vetturino?» chiese Edith.
«Alle cinque e mezzo, cara, per il
treno delle otto e mezzo.»
«E adesso che ore sono?»
«Le dieci.»
Non parlarono più. Un quarto d'ora
dopo entrò Marta per vedere se vi fossero disposizioni di andare a letto.
Guardò un momento, esitante, il suo padrone e si ritirò in punta di piedi come
sarebbe uscita di chiesa in un momento solenne. Poco dopo rimise dentro la
testa e domandò se doveva chiudere le imposte.
«No no» rispose Edith.
«Non è un poco umido?» disse
Steinegge volgendosi a don Innocenzo.
«Oh no, a quest'altezza no» rispose
il curato.
Ma Edith, si curava ella se fosse o
non fosse umido? Per quella porta si vedeva un arco di cielo azzurro, tutto
occhi scintillanti.
Stelle, soggiorno di pace, come siete
lontane, dolcezza e speranza nostra! Come si sente, guardandovi quando il cuore
è puro, la piccina vanità odiosa di tante cose che paiono grandi al sole, la
bellezza sublime della morte! Indefinita via delle anime che salgono
eternamente di vita in vita, di splendore in splendore, come si sospira, nella
tristezza, che la notte veridica tolga via dagli occhi nostri il chiarore cieco
che nasconde te e le tue case lucenti! Allora lo spirito vien meno di
desiderio, si figura essere atteso lassù, esser compianto, esser guardato con
dolcezza grave da gente che ci ama, conosce il mistero che ci condanna qui al
dolore, conosce i nostri pensieri e vede i nostri errori tacendo, perché
un'alta potenza inflessibile lo vuole.
Marta girava per la cucina, sprangava
gli usci, tossiva, preparava i lumi, battendoli sulla tavola. Allora Edith
ruppe il silenzio.
«Sarai stanco, papà» diss'ella «e
domani devi svegliarti per tempo.»
Steinegge fu lievemente commosso di
udir così calma la dolce voce.
«Io credo che andrò a letto, sì»
diss'egli. «Domattina prima di partire debbo stare anche un poco qui col signor
curato.»
Questi chiamò Marta, le disse di
portare un lume e di porre le chiavi della chiesa in salotto, sul tavolo, prima
di andare a coricarsi.
Edith non si moveva.
«E tu» disse Steinegge «non vieni?»
Ella rispose che non aveva sonno, lo
pregò di lasciarla ancora un pochino con don Innocenzo, per quest'ultima sera.
Suo padre si dolse affettuosamente
che lo mandasse a letto lui.
«Ma tu ne hai bisogno» diss'ella.
Lo abbracciò, gli sussurrò all'orecchio
un saluto commosso. Egli balbettò poche parole incomprensibili, prese il lume e
salì le scale come se andasse, colla sciabola in pugno, al nemico.
Marta recò un altro lume pel suo
padrone; ma don Innocenzo, a un cenno di Edith, congedò la domestica, le disse
di andare pure a letto.
Appena si dileguò su per le scale il
rumore de' passi di costei, Edith giunse le mani e guardò il curato.
«Dio L'ha esaudita» diss'egli. «Ha
accettato il Suo sacrificio.»
Ella lo guardava sempre, a mani
giunte, e non parlava; ma le si vedevano lagrime negli occhi. Don Innocenzo,
guadagnato, oppresso da quel dolore intenso, tacque.
Edith piegò la fronte sul braccio del
canapé e disse piano, con voce soffocata:
«Non poterlo difendere!»
Riprese dopo un momento di silenzio:
«Anche mio padre! Tanto ingiusto!»
«Ma no, ingiusto» si provò a dire don
Innocenzo.
Ella alzò una mano senza rispondere,
indi la posò sul legno, lo strinse nervosamente, mordendosi le labbra e, vinto
il singhiozzo che l'assaliva, disse:
«Venga qua.»
Il curato, stretto egli pure alla
gola dall'emozione, sedette sul canapé, vicino a lei.
«Vengo» diss'egli «ma non parliamo di
questo, parliamo dell'altra buona notizia che Suo padre Le ha dato e che ha
dato anche a me. Tutto il resto è stato un cattivo sogno di cui non abbiamo
colpa; dimentichiamolo.»
«No» rispose Edith con passione «non
me l'ha detto Lei ieri sera che dovevo portarlo nel cuore? E adesso che tutti
lo accusano, lo insultano, ed egli non può dire una sola parola di difesa,
avendone tante, io, don Innocenzo, lo dimenticherò, lo abbandonerò anche col
pensiero? Mai fin che avrò vita, e spero che lo potrà sapere nel mondo più
giusto in cui si trova. Lui senza sentimento? Ascolti.»
Il curato piegò il fianco e il capo
verso di lei che sempre china sul braccio del canapé, parlava con un fil di
voce.
«Vorrei che lo avesse conosciuto come
l'ho conosciuto io. Aveva un sentimento vero, sa, più delicato di quello di una
donna. Ed è stata la sua sventura, perché così non poteva riuscire nel mondo né
intendersi con la gente solita. E si è chiuso in sé, nelle sue amarezze. Quando
poi gli è mancato un ultimo appoggio, è caduto. Io credo che avesse religione;
ho inteso da lui discorsi pieni di sentimento religioso. Quando parlava di Dio
e dello spirito, si esaltava. Aveva capito, egli, i miei segreti pensieri circa
mio padre e li approvava nel suo cuore. Me ne sono accorta un giorno dal modo
che mi guardò incontrandoci mentre uscivamo dal Duomo, mio padre ed io. Veniva
da noi quasi tutti i giorni e non ho mai udita una parola che fosse da
riprendere. Era scrupoloso in questo. Noi in Germania non siamo educate come le
giovani italiane e conosciamo più il mondo; ma egli aveva un tal rispetto per
me, una tal prudenza in tutti i suoi discorsi, come se io fossi una bambina di
dieci anni. Anche nella sera al passeggio mi parlò con effusione di cuore,
senza una parola sola diretta che potesse turbarmi e farmi arrossire. E adesso
sentir quel sindaco fare quei discorsi orribili!»
«No... non mi pare...» balbettò don
Innocenzo.
«Ho udito tutto, tutto, signor
curato. Io sono sicura che se egli è ritornato al Palazzo, vi fu richiamato da
lei, chi sa in che modo, con quali istanze! Mi ricordo troppo i discorsi che mi
ha fatto andando all'Orrido. Le dico che sono sicura come se avessi veduta la
lettera o il telegramma. E lui allora era negletto o respinto da tutti. Chi sa,
chi sa, don Innocenzo, che cattivi pensieri avrà avuto, povero giovane,
vedendosi trattar così bruscamente da me, con tutti i miei principii religiosi!
Lui che domandava aiuto per non affondare! Potevo ben fare diversamente, esser
sincera, parlargli allora come gli ho scritto dopo; ma ho creduto...»
Non poté continuare.
«No, signora Edith» rispose don
Innocenzo «non bisogna mettersi in mente queste cose. Come poteva Ella
prevedere un caso simile? Volendo compiere un sacrificio tanto nobile, si è
comportata nel modo più saggio, con lo scopo di non favorire illusioni, di
lasciare il giovane interamente libero. La sua coscienza è purissima e
dev'essere tranquilla.»
Dopo qualche tempo Edith levò il
viso.
«E non esser qui domani!» diss'ella.
«È meglio, creda. Non potrebbe
dissimulare con Suo padre; e chi sa quanto soffrirebbe di vederla così.»
«Almeno» sussurrò Edith «guardi che
qualche pietosa creatura lo segua anche lui. Preghi anche dopo» soggiunse «e
faccia pregare.»
Don Innocenzo glielo promise, ma ella
non era contenta ancora, aveva qualche penosa parola da aggiungere.
«Hanno scritto a' suoi parenti?»
«Non lo so.»
«Già non lo amavano neppur essi.
Vorrei pensare io per una memoria, come posso. Bisognerebbe che mi aiutasse Lei
perché nessuno ha da saper niente e mio padre meno di tutti.»
Don Innocenzo le prese una mano,
gliela strinse silenziosamente.
«Le manderò un piccolo disegno da
Milano» disse ella. «Per questa cosa Lei mi scriverà ferma in posta.»
«Farò tutto» rispose il prete «come
per un fratello.» L'olio della lucerna veniva meno, la notte entrava nella
camera.
Don Innocenzo si alzò.
«Adesso vada a riposare» diss'egli.
Ma Edith chiese di aspettare un poco onde ricomporsi pel caso che suo padre non
dormisse ancora e la chiamasse.
«Guardi» disse affacciandosi alla
soglia «che pace!»
S'appoggiò allo stipite contemplando
il cielo che si veniva coprendo di nubi. Però molte stelle scintillavano ancora
in mezzo a grandi finestre azzurre. L'orologio della chiesa suonò le undici.
«Un'ora» disse Edith «e poi è finito
anche questo giorno. Mi pare che domani il sole nascerà di un altro colore e
che lo vedrò poi sempre così. Quanti anni ancora?»
«Oh molti, molti. Glielo auguro con
tutto il cuore.»
«Non so. Penso a mia madre.»
«Perché a Sua madre?»
Edith non rispose, prese un bastone
ch'era lì fuori appoggiato al muro e tracciò con la punta dei segni sulla
ghiaia.
«Cosa fa?» chiese il curato.
«Nulla» diss'ella e colla punta
stessa diede di frego a quei segni.
La finestra di suo padre fu aperta in
quel momento. Lo si udì esclamare:
«Cosa è questo? Ancora alzati?...»
«Ancora, papà. Non senti che notte
dolce? Non abbiamo sonno.»
«Si fa scuro verso i monti, eh? Io ho
paura che avremo acqua domattina. Sai, Edith, ho pensato che a Milano bisogna
ricordarsi della lezione in casa Pedulli-Ripa poiché siamo
partiti senza avvertire la signora.»
«Sì, papà.»
«Sarebbe bene anche andare dalla
signora M..., che riceve domani.»
«Volentieri, papà.»
«Scusa, avresti per caso veduto il
mio bastone?»
«È qui.»
«Vuoi essere così buona di portarmelo
su per unirlo all'ombrello e di portarmi anche il portasigari che ho
dimenticato in salotto?»
«Vengo subito, papà.»
Ella entrò nel salotto e fece a don
Innocenzo un saluto silenzioso con la mano. Quegli raccolse il portasigari
lasciato da Steinegge sopra una sedia e lo porse a lei che, conoscendone
l'origine, lo prese senza guardarlo.
Il curato, rimasto solo, pensò:
<Cos'avrà scritto?>
Spense la lucerna, aspettò che Steinegge
chiudesse la finestra e che tacessero i passi sul soffitto del salotto; quindi
tolse il suo lumicino, andò fuori e si curvò, inchinandolo sulla ghiaia a
guardare.
Certo era stata tracciata una parola
nella ghiaia, ma non si poteva decifrarla perché la prima metà n'era
cancellata. Ne rimanevano intatte le quattro ultime lettere, rigide lettere
straniere che il curato, dopo molto studio, lesse così:
... mweh.
Il resto era illeggibile.
«Weh deve significare male
in tedesco» disse tra sé don Innocenzo. «Ma l'm?»
Finì di cancellare la parola e
rientrò, pensoso, in salotto.
Intanto nell'ombre sinistre del
Palazzo, l'angelo del Guercino pregava senza posa per l'uomo gettato d'un
colpo, a tradimento, nell'eternità. La sua vita era stata breve, povera di
opere, macchiata di molte segrete miserie e, sulla fine, di errori già misurati
dal duro giudizio umano. Tuttavia, egli aveva sostenute virilmente le battaglie
dello spirito, cadendo a ogni tratto, ma rialzandosi, ferito, per combattere
ancora; aveva amato sino alla febbre e alle lagrime divini fantasmi che non ha
la terra, ideali di una vita sublime che intravvedeva, tribolato e solo, nel
futuro; era passato più volte con amaro cuore ma con fermo viso tra la
noncuranza degli uomini e il silenzio di Dio, sentendosi sulla testa l'ombra di
un nemico derisore; peggio ancora, sentendosi mal connesso nell'intima sua
essenza, afflitto da dolorose contraddizioni, inetto alle opere grandi che
vagheggiava, alle piccole che lo premevano, a farsi amare, a vivere; sospinto
quindi ogni giorno un passo, dalla violenta malignità delle cose e dalle
infermità della propria natura, a qualche paurosa rovina.
Scoprendogli il volto lo si sarebbe
veduto placido. Forse lo spirito, deposti gli uffici del moto e del senso,
sciolto da ogni legame vitale, vi posava ancora tranquillo; come chi è sul
punto di lasciar per sempre, dopo lungo soggiorno, una casa onde pur desiderava
partirsi, che sta sulla soglia contento, ma senza rancori ormai né impazienze,
anzi con un'ombra di pietà per le camere chiuse, abbandonate al silenzio.
Sapeva di andare alla pace, al sospirato riposo; e sapeva pure, nella chiara
visione appena incominciata per esso, di essere finalmente amato, secondo i
suoi sogni della vita terrestre, da un cuore tenero e forte che gli sarebbe
fedele senza fine. Sulla faccia opposta di tante cose che guardate da questo
nostro lato della morte gli eran parse iniquamente scure, ammirava un ordinato
disegno, una luce di bontà e di sapienza.
Ma le fontane, discorrendo tra loro
nella notte quieta, dicevano che Marina era passata come Cecilia, il conte
Cesare come i suoi avi, che nuovi signori verrebbero per passare alla loro
volta e non valeva la pena di turbarsene. Quando, presso l'alba, uscì la luna e
si posò sul pavimento della loggia, sulla pompa delle dracene e delle azalee
che nessuno avea pensato a rimuovere, ella parve cercar là dentro, col suo
sorriso voluttuoso, ciò che non si trovava ancora, quella notte, nel Palazzo,
ma che la vicenda delle cose umane vi ha quindi portato: degli altri occhi da
empir di chimere, degli altri cuori da muovere alla passione, invece di quelli
che se n'erano appena liberati per sempre.
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