39. L'ASINO
L'asino... Parmi
adesso: era una sera
d'ottobre, nella strada di Sogliano.
Cigolava per l'erta la corriera.
E io guardavo dietro me, nel piano,
dove San Mauro mio già non appare
- oh! mio nido di lodola tra il grano! -
dove tra il verde luccica, e tra chiare
brecce di ville borghi città, drago
addormentato dal cantar del mare,
la Marecchia argentina. E quando pago
fui della vista, mi rivolsi e, nero
come uno scoglio per un roseo lago,
nero sopra un trascolorar leggiero
di tutto il cielo, come un'ombra netta,
nero e fermo lassù come un mistero,
l'asino vidi con la sua carretta.
Non altro? No. Da non so qual pendice
veniva un canto di vendemmiatore,
veniva un canto di vendemmiatrice:
veniva or sì, or no, tra lo stridore
delle ruote. Sentii queste parole:
- E m'hanno detto ch'è morto l'amore... -
Io, sole queste; ma non queste sole
l'asino che lassù stava, annerando
dentro il morire fulgido del sole.
Pur non vibrava, vidi, a quando a quando
l'orecchie della lunga ombra per quello
stornellamento così lungo e blando;
sì le volgeva appena a un ritornello
or chiaro come d'anelante piva,
or aspro come d'avido succhiello...
Su la carretta il carrettier dormiva.
Russava nella strada solitaria
Schiuma, lo scalzo e rauco pesciaiolo,
tuo figlio, o di marruche irta Bellaria.
Lo prese e vinse il vino di Bagnolo
nel suo ritorno; e l'altro, a poco a poco
per non più fare la sua via da solo
(senza il bastone!), si fermò tra il
fuoco
del vespro. Dietro, delle ondanti gote
egli ascoltava il buffar grande e roco.
L'uno dormiva su le ceste vuote,
vidi passando: e l'asino, St! dorme!
parve accennare alle sonore ruote.
L'un su le ceste, e su le sue quattro
orme
l'altro, non meno immobile del primo.
Soltanto l'ombra sua, lunga e deforme,
pasceva al greppo un vago odor di timo.
E l'uomo, con la cara anima invasa
d'oblìo, dormiva nella via maestra;
ma già la moglie l'attendeva in casa.
Fosse andato pur là dove è maestra
gente in far teglie, sotto cui bel bello
scoppietti il pungitopo e la ginestra;
a Montetiffi; o dove, a Montebello,
passero solitario, ancor per uso
torni nel solitario tuo castello;
già l'attendeva; e la capanna al Luso
più non udiva dell'industre moglie
il fremebondo vortice del fuso;
ch'ella destava il fuoco già, con foglie
secche, e stacciava, e poi metteva il piede
fuori, e le donne assise su le soglie
interrogava ad or ad or: Si vede?
Ma l'uomo era lassù, lungi dal mare,
sul monte azzurro; e nol sapea: pian piano
credea seguire il suo tranquillo andare.
Anzi, calava d'un buon passo al piano:
già balzellando si sentì di sotto
le tue selci sonanti, o Savignano.
Anzi, a San Mauro s'era già condotto;
e sentiva sonar l'Avemaria,
grave e soave, tra il fragor del trotto.
Anzi, alla Torre: e nella nera ombrìa
del parco udiva un ultimo fringuello,
mentre al galoppo egli svoltò la via.
Anzi, era giunto: urlava: Arri! mio
bello.
L'aria marina gli pungea la fronte,
e la rena legava: Arri!... Ma quello
era là, fermo, su l'azzurro monte.
- Schiuma, la rena lega! Uomo, la
rena
lega le ruote! Il po' di via che resta,
si farà certo con un po' di pena;
ma è l'ultimo! l'ultimo! ma questa
è la mèta, è il riposo! Odi: col canto
delle mille onde il mare ti fa festa.
Avanti! Si va piano, ora; ma quanto
s'è corso prima! O Schiuma, ecco Bellaria!
Avanti! ecco la gioia, uomo! - Frattanto
l'asino è fermo, e l'uomo sogna. Svaria
quel gruppo nero sul purpureo cielo.
I pipistrelli sbalzano per l'aria.
Viene un suon di campane dietro un velo
di lontananza; e tutto si scolora.
Laggiù chiede una donna al mare anelo,
all'ombra muta: Non si vede ancora?
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