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Giovanni Pascoli
Primi poemetti

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  • 43. LE ARMI
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43. LE ARMI

 

    «Nando!» al su' omo disse il babbo «Nando!
Di tuo tu devi aver già l'armi, nuove,
ben fatte. Dunque va dove ti mando.
    Il ponte sai, della Corsonna, dove
entra nel Serchio. C'è un fruscìo di polle,
in quel contorno, che fa dir: Qui piove!
    fa dire al cieco che vien giù dal colle
col suo canetto, e, fosse il solleone,
sente un frastuono, sente un fresco, un molle...
    Già gli par che di dosso il can barbone
sgrolli le grosse gocciole, e la strada
odori forte sotto l'acquazzone.
    Basta: se rumor d'acqua odi, che cada
senza nuvole in cielo, ecco Aladino
che farà la tua lancia e la tua spada.
    Forse t'aspetta all'ombra d'un gran pino
bevendo vino. O è forse al lavoro
col suo gran maglio dentro lo stendino.
    Tutto vestito d'ellera e d'alloro
è lo stendino. Dentro, alla catena,
è il gran maglio dal capo come toro
    Ed ecco il fabbro che l'avvia, lo frena,
lo sferra, arresta, mentre soffia il vento
e l'acqua stroscia e il focolar balena.
    E il maglio picchia, ora veloce, or lento
lento, sul rosso ferro, come pare
all'uomo: un uomo! ma che vale i cento.
    E dunque l'armi tu ne avrai, più care,
figlio, più tue: ruvide e nere in prima,
ma è il lavoro che le fa lustrare.
    Ma fa, il lavoro, come fa la lima:
pulisce e rode: l'armi e l'uomo... Ebbene?
Se il calcio è verde, secchi pur la cima!
    Fate armi nuove per ognun che viene
nuovo nel mondo. Ed abbia ognuno in mano
il suo marrello e il suo po' po' di bene».
    Così diceva. E Nando scese al piano
di Castelvecchio. Nelle porche uguali,
come un velluto verdicava il grano.
    Faceva l'unghia già qualcuno ai pali
per le sue viti. Sui forconi vecchi
cantavano, spiando, i pinzampali.
    Altri potava. Si sentian gli azzecchi,
gli schiocchi delle forbici. Sui pioppi
dava il pennato fitti colpi secchi.
    Oh! quanti olivi sul pendìo! Sin troppi.
Erano un bosco. E ne cadean già nere
le olive, e l'olio avrebbe empito i coppi.
    Castagne, grano, vino, olio... un podere,
, gli garbava. C'era anche la fonte
a cui menare le sue bestie a bere.
    Oh! c'era bello, tra piano e monte,
tra il fiume il torrente il torrentello,
e con la Pania cerula di fronte!
    Bello, sì, ma il suo nido era più bello.
Bevve alla fonte e seguitò la strada,
e vide il fiume e il ponte lungo e snello.
    Non lo passò: svoltò per la contrada
dell'Arsenale e di Mologno, dove
si facea la sua lancia e la sua spada.
    Era ancora prestino, eran le nove
forse, e il mattino era di rose e d'oro,
quando in suo cuore esclamò Nando: Piove!
    E non pioveva; ma s'udìa sonoro
un cader d'acqua. Un casolare basso
c'era, coperto d'ellera e d'alloro.
    Vi scese, udendo ad or ad or fracasso
di ferro in mezzo al murmure incessante
dell'acqua, e il maglio rimbombar sul tasso.
    Parea soffiare il vento tra le piante
d'una foresta. Entrò guardando al fioco
lume. E rosso gli apparve, ecco, un gigante
    tra un improvviso sgretolìo di fuoco.
    S'appoggiò su l'incudine col mazzo.
Sopra la fronte si strusciò due dita.
Le sgrollò. Disse: «So chi sei, ragazzo.
    E so cosa tu vuoi dall'eremita
fabbro ferraio: l'armi nuove e belle,
l'armi che dànno anche al tuo re la vita.
    Sono sei: tre fratelli e tre sorelle.
Tienle con te da quando sorge a quando
cade lo stormo delle Gallinelle».
    Disse, e comandò l'acqua. Essa al comando
rimbombò cupa, e mosse il vento, e il vento
sul rosso fuoco si gettò fischiando.
    Nella spelonca il biondo fabbro, attento,
movea, tra l'invisibile acqua e il rosso
fuoco, due braccia che battean per cento.
    Ché la Corsonna a lui correa pel fosso
perennemente, ad un suo cenno presta,
quando accennava: Ora da me non posso.
    Ella, scendendo come la tempesta,
movea la ruota, essa lo stile, e tu,
maglio, sul ferro e su l'acciaio la testa
    alzavi e la lasciavi piombar giù.
    E prima il fabbro fabbricò la vanga
dalle due ali, l'arma che le zolle
tagli e le franga: ed anche te ti franga;
    ma poi t'acconcia, per il ben che volle
a te, che tu volesti a lei, fratello
lavoratore, un letto molle molle...
    Bollì ferro ed acciaio, indi il massello
fatto bianco afferrò con le tanaglie;
e lo domò col maglio e col martello.
    Nasceva l'arma, tra un raggiar di scaglie
rosse e turchine. L'acqua, il vento, il fuoco
faceano l'arma delle tue battaglie.
    Saldo faggio lo stile sia. Tra poco
la vangatura ti comincia. È giunta
la rondinella ed è fiorito il croco.
    A tutto ferro! E il ferro poi ripunta,
e tira su la bricia che rimane.
La vanga ha d'oro, come sai, la punta.
    Oh! il campo pare un altro, ora. Stamane
spioviscolava, e riè bello già.
La zolla già lièvita come il pane,
    al solicello, e screpola e si sfa.
    E poi fece il piccone, arma che dure
chiede le braccia, e forte vuole il forte,
d'acciaio, di qua zappa, di scure.
    Con l'una taglia le radici torte,
con l'altra scava. Ed esso vien secondo
dopo la vanga e fruga anche la morte.
    Anche più della vanga esso va fondo,
il buon piccone, e cerca le memorie
che in fondo al cuore ha seppellite il mondo.
    Nasceva l'arma tra un raggiar di scorie
azzurre azzurre. L'acqua, il fuoco, il vento
faceano l'arma delle tue vittorie.
    Lavoratore, il manico sia lento
frassino; e forte picchia pur sul vivo
sasso che gli risuona come argento!
    E va! Per quella macchia aspra, a solivo,
folta di stipe, fa venir filari
di verde vite o di canuto olivo!
    Fa, col piccone, dov'è monte, pari,
dov'acqua, terra, dove notte, ,
fa vie sotterra, un mare di due mari,
    o migratore che il tuo verso è il sì!
    Poi fece anche la falce, arma che appare
anche nel cielo, quando l'aria imbruna,
bianca, poi d'oro, sul monte o sul mare.
    Guardando la falciola della luna,
la volle anch'esso per le sue figliuole
il primo contadino, una per una.
    D'allora in poi son le fanciulle sole
che con la loro falce e la crinella
vanno a far l'erba sul cader del sole.
    Vanno, appuntata al fianco la gonnella,
a tagliare una fetta d'erba sulla,
a fare un quadro d'erba lupinella.
    E non si vede, nel campetto, nulla,
altro che fiori; ma tra i fiori rossi
è inginocchiata a terra una fanciulla.
    Tra i lunghi steli lievemente mossi
stride la falce. Tra i giunchi e la sala
già qualche rana gracida nei fossi.
    E, quando appar la stella, quando cala
l'ombra dei monti, ella si leva su,
cantando, e inzeppa l'erba, onde s'esala
    odor di fresco e verde e gioventù.
    Poi, la frullana: quella che lavora
come quell'altra che disfà le vite:
lavora all'ombra, prima dell'aurora.
    Cade la guazza allora, cade il mite
sonno dal cielo. Un sibilo si sente
correre per le praterie fiorite.
    Dormite il sonnellino d'oro! È gente
che falcia; taglia tutto, paleino,
loglio, trifoglio, veccie, timi, mente.
    Tre volte il prato parve un altro, insino
che fu segato: tutto rosso a gli occhi
e tutto giallo e tutto gridellino.
    Poi mise fuori ciuffi code fiocchi
spighe rappe, la nebbia esile e vana,
pendule nappe, tremuli balocchi.
    Ora tutto ha falciato la frullana.
Su la sericcia s'è ammucchiato il fieno,
ché dai fossi chiamava acqua la rana.
    E spesso dalle Panie ora un baleno,
come una bocca aperta, alita, e fa
vedere i mucchi: ed ogni volta un treno,
    lontano, un po' rotola sordo, e sta.
    E poi fece il pennato, arma ch'ha il becco
aguzzo e curvo il petto e il taglio fino
e grave il colpo, per il verde e il secco.
    Fuor che di festa, portalo all'uncino
sempre, quando esci; ch'egli t'asseconda
in ogni tua faccenda, o contadino.
    Egli pota, egli innesta, egli rimonda;
per le tue viti taglia i torchi al salcio,
per i tuoi bachi al gelso fa la fronda.
    Fa sui castagni i bei rami di calcio
pel verno. Nell'asprure dell'estate,
la falce sciopra, ed esso dice: Io falcio!
    E falcia pioppi, gelsi, olmi. Mangiate,
o vaccherelle! E quando invìa la pioggia,
appezza legna per le tue fiammate.
    E fa con te valletti e ceste, o foggia
un giogo, o squadra un erpice d'avorno,
od una scala, sotto la tua loggia.
    O crea da un olmo che vedesti un giorno
aver nel tronco una sua gran virtù,
l'aratro che, quando lavora, ha intorno,
    piccoli e grandi, tutta la tribù.
    E poi fece il marrello, arma che scopre
e che ricopre, zappa e, in un, badile,
buona quant'altra, ma men grave all'opre.
    Egli comincia nel piovoso aprile:
ritira il solco sopra il formentone,
ma un poco prima egli zappò le file.
    Lo ronca, lo dirada, gli ripone
la terra al calcio, perché faccia il costo,
nel dolce maggio, dopo un acquazzone.
    Al sessantino pensa poi d'agosto;
e lo smuove e lo svelge e lo rincalza:
e poi riposa, quando bolle il mosto.
    Poi quando il sole pallido s'inalza
sopra la nebbia, e ingiallano le spoglie
del sessantino, e rossa appar la balza,
    e grigio il piano, e cadono le foglie,
e viene il freddo, e cupo il vento geme;
ecco, il solco novello esso ricoglie.
    Suonano a onde le campane treme-
bonde sopra i villaggi e le città...
ed il marrello seppellisce il seme,
    che nasce e poi... si riseminerà.
    E cessò il vento e il fragor d'acqua e il lampo
del fuoco. Disse ch'era morto il giorno
una campana di San Piero in Campo.
    Nando uscì co' suoi ferri. E gli era intorno
quella campana che soave e piana
gli diceva che tardi era il ritorno!
    Via via soave e piana altra campana
gli ripeteva ch'era ancora in basso!
Poi solo udì, nella sua via lontana,
    squillargli l'armi sulle spalle al passo.




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