7. LA CINCIA
Sorrise, e disse che
una volta c'era
un re piccino; e s'egli era piccino,
la sua reggia era grande e nera nera.
E un aio aveva questo reattino
nero, e l'aio era lì sempre a gracchiare,
e più, quando vedea torbo il mattino.
Il re veniva alle finestre a mare,
il re veniva alle finestre a monte:
«Avessi l'ale! Potessi volare!»
Nitrir sentiva alla sua voce pronte
le sue pulledre sparse alla pastura
nel grande prato ch'era dopo il ponte.
E quel nitrito, per le antiche mura,
per gl'infiniti muti colonnati,
destava i cani; e nella reggia oscura
rimbombavano in tanto alti latrati.
Or una fata l'ode. Ecco, sia fatto!
La gran reggia doventa una gran macchia
a colonne di pino e d'albogatto.
Nera tra i lecci vola una cornacchia.
È l'aio. Vola su brentoli e mortelle,
libero, il recacchino, il redimacchia.
E il curvo collo svincolano snelle
quelle pulledre scalpitando, ed ecco
ch'elle frullano azzurre cinciarelle.
Tengono l'osso ancora (od uno stecco?)
le cinciallegre, piccoli mastini,
sotto le zampe, e picchiano col becco.
Dunque, dagli albigatti esse e da' pini
fanno la guardia, e il re ne' suoi sambuchi,
tra molta signoria di fiorrancini,
regna, e si svaga con la caccia ai
bruchi.
Così, vedete, il cacciator che gira,
vede calare un branco. Egli bel bello
s'appressa, egli già mira, egli già tira...
suona un nitrito tremulo d'uccello,
come starnuto, suona un bau bau chiaro,
come doppio squillar di campanello;
e il branco fugge prima dello sparo.
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