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Giovanni Pascoli
Primi poemetti

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  • 11. IL VISCHIO
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11. IL VISCHIO

 

    Non li ricordi più, dunque, i mattini
meravigliosi? Nuvole a' nostri occhi,
rosee di peschi, bianche di susini,
    parvero: un'aria pendula di fiocchi,
o bianchi o rosa, o l'uno e l'altro: meli,
floridi peri, gracili albicocchi.
    Tale quell'orto ci apparì tra i veli
del nostro pianto, e tenne in sé riflessa
per giorni un'improvvisa alba dei cieli.
    Era, sai, la speranza e la promessa,
quella; ma l'ape da' suoi bugni uscita
pasceva già l'illusione; ond'essa
    fa, come io faccio, il miele di sua vita.
    Una nube, una pioggia... a poco a poco
tornò l'inverno; e noi sentimmo, chiusi
per lunghi giorni, brontolare il fuoco.
    Sparvero i bianchi e rossi alberi, infusi
dentro il nebbione; e per il cielo smorto
era un assiduo sibilo di fusi;
    e piovve e piovve. Il sole (onde mai sorto?)
brillò di nuovo al suon delle campane:
tutto era verde, verde era quell'orto.
    Dove le branche pari a filigrane?
Tutti i petali a terra. E su l'aurora
noi calpestammo le memorie vane
    ognuna con la sua lagrima ancora.
    Ricordi? Io dissi: «O anima sorella,
vivono! E tu saprai che per la vita
si getta qualche cosa anche più bella
    della vita: la sua lieve fiorita
d'ali. La pianta che a' suoi rami vede
i mille pomi sizienti, addita
    per terra i fiori che all'oblio già diede...
Non però questa (io m'interruppi), questa
che non ha frutti ai rami e fiori al piede».
    Stava senza timore e senza festa,
e senza inverni e senza primavere,
quella; cui non avrebbe la tempesta
    tolto che foglie, nate per cadere.
    Albero ignoto! (io dissi: non ricordi?)
albero strano, che nel tuo fogliame
mostri due verdi e un gialleggiar discordi;
    albero tristo, ch'hai diverse rame,
foglie diverse, ottuse queste, acute
quelle, e non so che rei glomi e che trame;
    albero infermo della tua salute,
albero che non hai gemme fiorite,
albero che non vedi ali cadute;
    albero morto, che non curi il mite
soffio che reca il polline, né il fischio
del nembo che flagella aspro la vite...
    ah! sono in te le radiche del vischio!
    Qual vento d'odio ti portò, qual forza
cieca o nemica t'inserì quel molle
piccolo seme nella dura scorza?
    Tu non sapevi o non credevi: ei volle:
ti solcò tutto con sue verdi vene,
fimo si fece delle tue midolle!
    E tu languivi; e la bellezza e il bene
t'uscìa di mente, né pulsar più fuori
gemme sentivi di tra il tuo lichene.
    E crebbe e vinse; e tutti i tuoi colori,
tutte le tue soavità, col suco
de' tuoi pomi e il profumo de' tuoi fiori,
    sono una perla pallida di muco.
    Due anime in te sono, albero. Senti
più la lor pugna, quando mai t'affisi
nell'ozioso mormorio dei venti?
    Quella che aveva lagrime e sorrisi,
che ti ridea col labbro de' bocciuoli,
che ti piangea dai palmiti recisi,
    e che d'amore abbrividiva ai voli
d'api villose, già sé stessa ignora.
Tu vivi l'altra, e sempre più t'involi
    da te, fuggendo immobilmente; ed ora
l'ombra straniera è già di te più forte,
più te. Sei tu, checché gemmasti allora,
    ch'ora distilli il glutine di morte.




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