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Giovanni Pascoli
Primi poemetti

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  • 15. LA CALANDRA
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15. LA CALANDRA

 

    Galleggia in alto un cinguettìo canoro.
È la calandra, immobile nel sole
meridiano, come un punto d'oro.
    E le sue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, quando è per tacere
la romanella delle risaiole;
    e non più tintinnìo di sonagliere
s'ode passare per le vie lontane;
ché già desina all'ombra il carrettiere.
    Né più cicale, né più rauche rane,
non un fil d'aria, non un frullo d'ale:
unica, in tutto il cielo, essa rimane.
    Rimane e canta; ed il suo canto è quale
di tutto un bosco, di tutto un mattino;
vario così com'iride d'opale.
    Canta; e tu n'odi il lungo mattutino
grido del merlo; e tu senti un odore
acuto di ginepro e di sapino,
    senti un odore d'ombra e d'umidore,
di foglie, di corteccia e di rugiada;
un fragrar di corbezzole e di more.
    Vai per un bosco e senti, ove tu vada,
quei fischi uscir più liquidi e più ricchi;
poi, come colpi da remota strada
    di spaccapietre, il martellar de' picchi.
    Ma no: dib dib: è il passero. Ricopre
la nebbia i campi, dove è dall'aurora
de' bovi il muglio e il viavai dell'opre.
    Fuma la terra, fuma il cielo; ancora
fuma il camino e, tra le tamerici,
fuma il letame e grave oggi vapora.
    Vaniscono laggiù le zappatrici;
di qua l'aratro emerge per incanto,
tra un pigolìo di passeri mendici.
    Ma donde viene chiaro e dolce il canto
or della quaglia? È in fior lo spigo; tondo
s'apre nei campi il fior dell'elianto.
    È sera forse? e dentro il ciel profondo
il crepuscolo indugia? e nel sereno
canta la quaglia di tra il grano biondo?
    E pieno il prato è già di trilli, e pieno
il grano è già di lucciole, e su l'aie
bianche s'esala il buon odor del fieno.
    E no, ch'è l'alba: è sotto le grondaie
tutto un ciarlare. Sono intorno al nido
le rondinelle garrule massaie.
    La casa dorme. Niuno ancor nel fido
bricco il caffè, nemico al sonno, infuse.
Vola e rivola il mattutino strido
    lungo le verdi persiane chiuse.
    Un torvo strillo di poiana... muta
solitudine... roccie irte, malvage...
qualche cesto d'assenzio e di cicuta...
    Il cielo sfuma in un rossor di brage.
Solo un torrente urlare odo: russare
d'un ebbro in mezzo una sua muta strage.
    E la poiana strilla. Ecco mi appare
una rovina, una deserta chiesa,
da cui te, solitario, odo cantare.
    Canti come una dolce anima presa
da' suoi ricordi, tu, dalla rovina
dove è già la pietosa edera ascesa,
    passero azzurro! O donde mai, vicina
cincia, m'inviti in vano a te? Da un orto
rosso, cui cinge il bosso e l'albaspina.
    Pendono rosse tra il fogliame smorto
le dolci mele, e ingiallano le pere.
Nel mezzo un fico, nudo già, contorto.
    E vi cantano cincie e capinere...
Ma no, sei tu che, immobile nel sole,
canti, o calandra, sopra le brughiere.
    E le tue voci pullulano sole
dal cielo azzurro, con virtù segreta,
come veggenti limpide parole,
    o grande su le brevi ali poeta!




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