22. L'ALLORO
«Ecco l'orbaco:» disse
Dore, entrando
con un ramo d'alloro umido in mano:
«prendete: io devo ritornar da Nando».
«A che fare?» la madre gridò. «Piano
con le mie scarpe! So che il babbo è stanco:
ci vuole mezzo per calzarli il grano:
andranno scalzi! due siete ed un branco
parete!» L'uscio era socchiuso. Fuori
era per tutto un gran barbaglio bianco.
La neve nascondea tutti i colori.
Su, v'appariva qualche fila nera
delle grandi orme degli agricoltori:
dove scendeva per veder se c'era
la terra più, dal tetto e dalla scala,
il passero: egli che avea messo a sera
tranquillamente il capo sotto l'ala.
«L'orbaco...» ripeté Dore, voltando
all'uscio aperto il suo nasetto rosso:
«devo aiutarlo: l'ho promesso, a Nando».
«A che fare? io lo so, mamma, e lo posso
dir io» fece Rosina: «hanno gli archetti
per pigliar qualche cincia e pettirosso!
Povere cincie! poveri uccelletti!
non hanno ove posare le zampine
nude! coperti i campi, alberi, tetti!
Non hanno che beccar, queste mattine:
né un pippolo né un becio: ecco, e costoro
tendono... Oh! babbo è troppo buono, infine!»
Parlava, ed attendeva al suo lavoro,
stacciando su la conca alta la lieve
cenere. E Dore le porgea l'alloro
di su l'uscio, tra un gran bianco di
neve.
«L'orbaco...». «Dà». Lei prese il
ramoscello,
e lui sparì. Ma non pensava a loro
più Rosa bionda. Era il suo giorno, quello.
Poco era il giorno e molto era il lavoro:
la falce è grande, ma più grande il prato.
E su la conca ella sfogliò l'alloro,
perché sapesse odore il suo bucato.
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