[I]
Usciti dalla
trattoria i cuochi e i camerieri, Domenico Rosi, il padrone, rimase a contare
in fretta, al lume di una candela che sgocciolava fitto, il denaro della giornata.
Gli si strinsero le dita toccando due biglietti da cinquanta lire; e, prima di
metterli nel portafogli di cuoio giallo, li guardò un'altra volta, piegati; e
soffiò su la fiammella avvicinandocisi con la bocca. Se la candela non si fosse
consumata troppo, avrebbe contato anche l'altro denaro nel cassetto della
moglie; ma chiuse la porta, dandoci poi una ginocchiata forte per essere sicuro
che aveva girato bene la chiave. Di casa stava dall'altra parte della strada,
quasi dirimpetto.
Ormai erano trent'anni di
questa vita; ma ricordava sempre i primi guadagni, e gli piaceva alla fine
d'ogni giorno sentire in fondo all'anima la carezza del passato: era come un
bell'incasso.
La sua trattoria! Qualche
volta, parlandone, batteva su le pareti le mani aperte; per soddisfazione e per
vanto.
Restato contadino, benché
avesse presto mutato mestiere, era capace di pigliare a pugni uno che non
avesse avuto fede alla sua sincerità. E credeva che Dio, quasi per
accontentarlo, avesse pensato, insieme con lui, alla sua fortuna. Del resto,
sentiva la necessità di arricchire di più; per paura delle invidie. Quanti
avrebbero fatto di tutto per rivederlo senza un soldo!
Le sue quattro sorelle e i suoi
tre fratelli erano rimasti poveri al loro paese di maremma, a Civitella, tra le
boscaglie piene di cinghiali; nella casa di pietre scheggiate, con la scala che
si muoveva sotto i piedi, fatta con i sassi presi dal fiume, con le finestre in
faccia a una montagna di galestro tanto a ridosso e ripida che pareva di
rimanerci sotto, quasi avesse dovuto un giorno o l'altro precipitare. E il Rosi
pensava al suo paese troppo angusto, come ad una cosa che non esistesse più, o
almeno soltanto per gli altri: i ricordi della giovinezza avevano la stessa
importanza dei teatri e delle figure dei giornali, che egli odiava con
disprezzo: stupidaggini piacevoli per gli sfaccendati, che avevano soldi da
buttar via. Lo stesso pensava per chi fumava. E nessuno, perciò, poteva dire
d'averlo visto mai al teatro; o, peggio, con il sigaro in bocca! Egli era
troppo astuto!
A pena stabilitosi a Siena, a
vent'anni, sposò Anna, una bastarda senza dote, piuttosto bella e più giovine
di lui; aprendo un'osteria che con l'andar del tempo divenne una delle migliori
trattorie della città: Il Pesce Azzurro.
Ora avevano un figliolo che
ormai terminava tredici anni, Pietro; ma prima di quello n'erano nati sette
altri, morti l'uno dopo l'altro a pena tolti da balia. Pietro, molto tardi per
riguardo alla sua salute, lo mandavano al seminario, ch'era la scuola più
vicina; tra gli alunni chiamati esterni; cioè tra quelli che prendevano le
lezioni con i seminaristi, e poi tornavano a casa senza aver l'obbligo però di
vestire come loro. Il penultimo parto aveva lasciato le convulsioni ad Anna;
che, del resto, era stata sempre soggetta a qualche sintomo isterico: una
malattia che faceva ridere Domenico, una specie di facezia ch'egli non capiva.
E se ne irritava come se l'offendesse quando il ridere non portava nessun
rimedio; e c'era alla farmacia il conto da pagare.
Anna, remissiva e fanatica per
lui, accortasi, alla fine, dopo tanti anni di matrimonio, che la tradiva, aveva
creduto più di una volta che le tirassero giù il cuore con tutte e due le mani;
e si sentiva invecchiare e imbruttire prima del tempo. Quando ci pensava, gli
occhi le si bagnavano; ma non ne parlava mai con nessuno: perché, per quanto
fosse molto buona con tutti, non voleva amicizie. Però, si sentiva come
soffocata, con una bontà quasi rabbiosa; e, odorando il suo aceto aromatico, le
lacrime le andavano fin su le labbra.
Con il volto un poco rotondo,
di donna ingrassata, non si capivano le sue collere repentine, che rivelavano
un fondo nervoso per quanto innocuo: come certe rivolte di animali tormentati.
Si ride, in fatti, che una gallina scannata annaspi o se un coniglio stride e
cava l'unghie!
Accanto a Domenico, siccome
desideravano un erede, i figli morti doventavano anche per lei simili soltanto
a tentativi astratti e dovuti abbandonare, certo a fine di bene; se il destino
aveva voluto così. Perciò ella amava Pietro con un affetto superstizioso. Ma era
incapace, per indole, di mostrargli una grande tenerezza; sebbene le piacesse
d'averlo sempre vicino. Quando le si addormentava sopra una spalla, non si
sarebbe mai decisa a farlo portare a letto da Rebecca; che era stata la sua
balia e ora faceva da serva e da cantiniera.
Ma Domenico, tutto in faccende
ed eccitato, senza smettere di lavorare, gridava dalla cucina:
«Tieni codesto peso addosso?».
Ed ella, perché non venisse da
sé ad alzarlo con quelle sue braccia scamiciate, lo svegliava e lo mandava a
letto. E la sera dopo gli diceva, sottovoce e stizzita d'obbedire:
«Mi dài fastidio: non ti
avvicinare».
Ma Pietro non le dava retta, e
si ficcava tra lei e un bracciale della poltrona tenendole una mano; e
chiudendo gli occhi con il sonno. Anna, allora, svincolava la mano perché aveva
da rendere i resti ai camerieri; e anche da salutare gli avventori che
entravano e uscivano. La trattoria seguitava fino a tardi ad esser piena. Il
lavoro eccitava anche lei; ma, verso la mezzanotte, erano tutti stanchi e
impazienti di riposare. Se restava ancora qualcuno a tavola, spengevano l'uno
dopo l'altro tutti i lumi delle altre stanze. I camerieri si toglievano le
giacche da lavoro; i cuochi si cambiavano le giubbe. In questi momenti di
attesa e di sosta, Anna ne approfittava per finire tutti i suoi lavori di
biancheria e anche per fare qualche ricamo dei più semplici: per non spendere
troppo e per non saperli fare meglio. Ella, da ragazza, era stata cameriera; e
non aveva avuto tempo d'imparare niente. Sapeva scrivere, però; e ci aveva
preso così pratica, che non sbagliava mai le somme dei conti agli avventori.
Faceva tenere bene in ordine
tutto: i piatti e le scodelle sopra una vecchia madia, il pane e i fiaschi del
vino dentro la dispensa. E sapeva trattare con i fornitori. I limoni se li
sceglieva da sé, però con la sorveglianza e l'approvazione di Domenico, e con
una meticolosità che la inorgogliva e che faceva piacere. Se il fruttivendolo
era riuscito a dargliene uno di buccia grossa o sciupata, Domenico se lo faceva
cambiare dopo averglielo battuto sotto il naso.
Anna, per lo più, andava a
letto, se le era possibile, qualche mezz'ora prima di lui. Una notte, Domenico
afferrò dalla sedia, portandolo nella strada, un macchinista briaco che
s'ostinava a non uscir di bottega. Quegli allora aprì il coltello e gli si
slanciò addosso. Ma Domenico si scansò, e i camerieri si misero di mezzo. Anna,
ch'era lì, con la testa avvolta in uno scialle di lana, come teneva sempre,
s'impressionò tanto che, in seguito, le sue convulsioni si fecero più frequenti
e più forti. Per curarsi, il medico le disse di stare più che poteva a Poggio
a' Meli, al podere comprato da poco. Il sabato tornava a Siena perché, essendo
giorno di mercato, non avrebbe potuto lasciare la trattoria. Con lei andavano
Pietro e Rebecca. Domenico dormiva in città; ma, ogni sera, per il giorno dopo,
portava alla moglie una sporta di vivande, nel suo legnetto a due posti;
stringendola con le gambe, perché non cadesse.
Poggio a' Meli si trovava fuori
di Porta Camollia per quella strada piuttosto solitaria che dal Palazzo dei
Diavoli va a finire poco più in là del convento di Poggio al Vento. C'era una
vecchia casetta rintonacata di rosso, a un piano solo; e congiunta al tinaio e
alle abitazioni degli assalariati, fatte sopra le stalle. Il rosso pareva molto
bello a Domenico; mentre Anna, come le aveva anche detto qualche conoscente,
avrebbe voluto scegliere o un celeste o un giallo canarino.
Si entrava subito nell'aia; con
il pozzo da una parte e un pergolato a cerchio, sotto il quale Domenico teneva,
a stagione buona, una dozzina di conche con le piante di limone: il solo lusso
invece del giardino. Egli ne faceva un gran conto però, benché fosse stata una
spesa che gli rendeva poco. Molte volte, secondo l'umore, non voleva né meno
che Pietro le toccasse.
Il podere era di qualche
ettaro, con la siepe di marruche e di biancospini su la strada: un piccolissimo
appezzamento pianeggiante e coltivato bene; il resto a pendice, fino al fosso
di un'altra collinetta che regge le mura della Porta Camollia.
Lungo i confini, querci grosse
e nere, con qualche noce alto alto; e, nei fondi, salci e orti, perché c'era
l'acqua. Dall'aia si vedeva Siena.
Ogni domenica, a fin di mese,
gli assalariati andavano, dopo la messa, alla trattoria; e il Rosi li pagava,
facendosi fare da ognuno una croce, alla meglio, sopra le marche da bollo.
Allora spiegava le sue intenzioni e discuteva dei lavori. Era sempre poco
contento; e li minacciava, immancabilmente, di mandarli via. Poi, ripetuti
sempre a voce più forte gli ordini da eseguirsi il giorno dopo, diceva che se
ne potevano tornare a casa; ed egli, perché era già l'ora che gli avventori
andavano a mangiare, si tirava su subito le maniche della camicia ed entrava in
cucina. Per solito, mentre pagava, faceva colazione.
Il podere, benché piccolo e con
le case in quel modo, era bello: ci si trovava una dolcezza che invogliava a
starci: cinque cipressi, in fila, dietro il muricciolo dell'aia; e poi tutto
pieno d'olivi e di frutti. Qualcuno, dopo aver due o tre volte girato gli occhi
attorno, diceva: «se fosse più grande, piacerebbe meno!». L'appezzamento
pianeggiante era di una terra scura e rossiccia; il resto di tufo asciutto e
sodo, quasi giallo. A primavera, meno il lavorato con l'aratro o con la vanga,
doventava di cento verdi; e l'autunno ci metteva un bel pezzo a scolorirli.
Per la strada passavano, di
solito, a seconda delle ore, qualche cappuccino la mattina, i contadini e i
loro carri sempre; tutti i giovedì, verso mezzogiorno, i mendicanti che
andavano a mangiare la zuppa del convento. In autunno c'erano anche parecchie
famiglie di villeggianti, e i forestieri d'una pensione: e questi stavano fuori
la sera. Le domeniche, a tempo bello, qualche comitiva che cantava; dopo aver
bevuto alle trattorie e alle bettole del borgo fuori porta.
La strada è quasi da per tutto
piana e stretta, con parecchie ville e altri poderi; e poi lecci, querci,
castagni, cancelli di legno, siepi potate. Mentre si vedono le altre ville,
molto più belle, che vanno alla chiesa di Marciano; e un ammasso di colline
verso la parte di maremma e il Monte Amiata.
Quando un podere passa nelle
mani di un altro proprietario che non sia uno sciocco, comincia presto a
modificarsi in un modo visibile agli occhi di coloro che se n'intendono e poi
di tutti. E il Rosi cambiò addirittura Poggio a' Meli. Egli fermava il cavallo
quando fin nel mezzo della strada il vento aveva portato i fiori dei peschi e
dei mandorli nuovi, fatti piantare da lui. Bestemmiando alzava gli occhi alle
fronde restate con le foglie sole; e pigliava a frustate Toppa, che abbaiava e
saltava dalla contentezza per il suo arrivo. Per ore intere andava lungo i filari,
a vedere se c'era entrata la malattia. Qualcuno degli assalariati lo seguiva; e
dovevano sempre assicurarlo che non era colpa di loro. Se gli pareva che una
vite fosse stata legata male o se il suo palo non stava forte, si faceva
portare un altro salcio e lì in presenza sua faceva rifare il lavoro.
Per la potatura degli olivi
succedevano discussioni che non finivano più. Metteva da sé la scala dove
giudicava meglio; ma non ci saliva perché era troppo grave: giù da terra, diceva
quali erano i rami che dovevano esser tolti.
Oppure insegnava anche come
dovevano tenere la vanga, per arrivare più a fondo.
Durante le svinature, puliva e
sciacquava da sé le botti e i barili; e non si muoveva mai dalla cannella del
tino.
Siccome Anna s'era affezionata
a Rebecca, che il suo seduttore non aveva voluto sposare benché l'avesse resa
madre, e a Domenico piaceva, avevano messo tra gli assalariati di Poggio a'
Meli i suoi vecchi genitori Giacco e Masa. Erano poveri e avevano altre
figliole che se n'erano andate a marito. Dopo qualche anno, perciò, si
raccomandarono al padrone perché fosse contento di tenere Ghìsola, una loro
nipote nata a Radda, figliola di una delle sorelle di Rebecca.
Giacco e Masa non buttavano via
né meno un mezzo chiodo arrugginito. Giacco aveva i calzoni di frustagno verde
così sparsi di toppe che della prima stoffa rimaneva solamente qualche
strisciolina qua e là. Il fazzoletto che Masa portava in capo l'aveva comprato
da giovine.
Siccome ella non riusciva mai a
far da mangiare a tempo, Giacco s'impazientiva; e cominciava a imprecarla
seguendo con gli occhi ogni passo di lei, che si confondeva e ci metteva di più.
Bisognava vederla! Versava da un'ampolla di latta un filo d'olio, un filo così
sottile come la punta di un ago. Sgocciolato bene il forellino, prima di
richiudere l'ampolla dentro la madia, vi passava sopra la lingua più di una
volta. La padellina bolliva, ed ella vi buttava aglio e cipolla tritata. Quando
l'aglio era doventato giallo ed abbrustolito, metteva il soffritto nella
pentola piena d'acqua salata; la riaccostava al fuoco ed intanto affettava un
pane, appoggiandoselo al petto e spingendo il coltello con ambedue le mani. Il
cane da guardia, Toppa, faceva sparire le briciole di mano in mano che
cadevano. Masa, disperata, lo allontanava con un piede: voleva serbarle per le
galline!
A pena entrato, Giacco si
lavava in un catino di rame tutto ammaccature; poi sedeva passandosi le dita
corte e callose sul volto.
Masa, finalmente, votava
l'acqua sopra il pane affettato; e Ghìsola portava in tavola i cartocci del
sale e del pepe, facendosi rimproverare perché sfregava troppo le spalle al
muro per andare da un punto all'altro della stanza.
Giacco, pensando al vitello che
gli aveva ficcato il muso sopra la schiena mentre gli empiva di erba la
mangiatoia, sì che lo aveva fatto allontanare dicendogli: «non vedi che
m'impeli tutto?» comandava alla moglie:
«Prima di venire a sedere,
metti al fuoco il beverone per la bestiola. Lo sai; ma fingi sempre di
scordartene».
Egli, finita la fatica, provava
una gran tenerezza per quelle carezze nella stalla; quando l'alito del vitello
era caldo e umido come il suo sudore. Ricordandosene, mangiava in silenzio.
Anna, qualche volta, bussava
alla loro porta. Allora si alzavano tutti e tre:
«È la padrona. Su, va' ad
aprire. Quanto ci metti?».
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