[VI]
Pietro, con
gratitudine, sentiva vicino a Ghìsola le sue prime emozioni delicate. Ammirò un
fiore quando gli venne voglia di coglierlo per lei; e, non arrischiandosi, lo
buttava via; quando era ancora per non crederci, provando una diminuzione di se
stesso. E come tutta la natura gli apparve a un tratto misteriosa, con
violenza! Qualche cosa da disperarsene!
Era stato bocconi in terra,
chiudendo tra le braccia un pulcino per tenerlo con sé! Aveva aiutato le
formiche, togliendo dal loro cammino un bastone che dovevano valicare esitando
e poi disperate: tremolando con un chicco troppo grosso, che le faceva cadere
capovolte! Teneva con tenerezza un indovinello in mano, e lo rimproverava
quando volava via!
Cercava di superare le sue
malinconie; ma non poteva dimenticarle quanto avrebbe voluto. Talvolta ne era
distaccato di soprassalto; e allora gli veniva uno stato mentale confuso e
torbido che pareva sempre per andarsene. E aveva l'illusione che il suo spirito
assumesse così enormi proporzioni che i suoi pensieri vi si smarrivano dentro,
insieme con i loro echi improvvisi, come in una stanza troppo grande. Quante
volte non s'era considerato perduto, mentre le imagini esteriori lo invadevano
senza tregua! Ora gli pareva di avere la propria anima; ora diminuiva; mentre
questi movimenti gli davano un malessere come quello delle vertigini.
Talvolta gli pareva di trovarsi
a scuola dove tutto a un tratto entrava una grancassa; e allora si sentiva
tanta voglia di ridere che si spaventava, soffocando il grido dell'incubo. Anna
credeva che avesse male; e gli metteva una mano su la fronte, dicendogli:
«Ti viene la febbre?».
Egli gridava, allora:
«No! No! Lasciami stare!».
Era un anno dalla notte degli
usignoli, un anno come tutti gli altri: la trattoria e gli avventori, Poggio a'
Meli e gli assalariati.
Alla nuova primavera, Domenico
aveva voluto fare grandi preparativi per le raccolte che aspettava migliori di
prima. E andava di più al podere, quasi per compensarsi dello strapazzo alla
trattoria. E siccome la stagione era buona, portava sempre con sé Pietro. Gli
faceva bene, e forse non si sarebbe più riammalato!
Voleva che andasse nel campo,
per occuparsi anche lui delle viti da potare e di tutte le altre faccende. Ma
era come se Pietro non vedesse e non udisse niente. Domenico, allora, lo faceva
riaccompagnare fino all'aia da qualcuna delle donne, che saliva dal campo con
un fascio d'erba fresca o con la gramigna tolta al vangato.
Una volta Pietro s'era seduto
ad attendere il padre su lo scalone di Giacco, dove stava sempre Ghìsola,
perché senza avvedersene faceva come lei. Masa finiva di spazzare con una
granata infilata a un vecchio manico d'ombrello; alzando una polvere così fitta
che ne sentiva il sapore in bocca. Ella si raccomandò:
«Si alzi».
Ma egli non si mosse né meno. E
la vecchia si fermò.
Tra quegli stracci d'ogni
colore, le matassine di capelli, le scatolette sfondate, c'era una bambola
fatta d'un pezzo di stoffa bianca intorno a un mestolo. Pietro ebbe voglia di
raccattarla, e s'alzò. Ma la vecchia, preso tempo, gettò la spazzatura fuori
dell'uscio. E allora quella bambola, rimasta supina, parve a Pietro che fosse
viva. E non la toccò. Ghìsola, sopraggiunta dal campo, vistala tra la
spazzatura, stette zitta perché la nonna da tanto tempo le aveva detto di
buttarla via, ma fece viso da piangere. Masa le gridò:
«Pensi sempre a queste cose?».
Pietro, per burlarla, affondò
la bambola a calcagnate, nella melma; e poi ci si mise con furore, con il cuore
palpitante, impaurito di vederla uscir fuori, pallido.
Ghìsola, guardandolo
dall'uscio, borbottò:
«Stupido!».
Pietro sentì rimorso, e tentò
tutti i mezzi di riconciliarsi; ma lei gli volse le spalle, mangiando un pezzo
di pane trovato nella madia. Allora egli aperse un temperino che aveva in tasca
e le ferì una coscia. La giovinetta, impallidita, si sforzò di contenersi.
Egli, credendo di non averle fatto male, con il temperino in mano, offeso e
indispettito, fece l'atto di slanciarsi un'altra volta; ma ella, allora, gli
tirò un calcio, e corse in camera buttando via il pane. La vecchia, al rumore
delle sedie urtate, smise di spazzare e tornò in casa; andando a trovare
Ghìsola che si sentiva frignare con quel frigno tutto unito e senza stacchi,
che smette subito.
Pietro, solo in cucina, ridendo
sommessamente di spavento, s'avvicinò pian piano per vedere. Ma in quel mentre
Masa uscì e gridò con collera:
«Perché le ha fatto far sangue?
Non deve esser così cattivo. Non voglio. Lo dirò al padrone».
«Io non ci ho colpa».
Masa, fuori di sé, mancò poco
che non gli battesse qualche cosa su la testa.
Pietro, convinto di quel che
diceva, giurò perfino con certi giuramenti che gli avevano fatto un grande
effetto a impararli; tutto contento di aver trovato l'occasione di ripeterli.
Ma Domenico ed Anna lo
picchiarono su le mani, in presenza di Masa e di Ghìsola; e gli fecero chiedere
perdono. Allora Pietro, quantunque il castigo gli avesse fatto quasi piacere,
si sentì lungo tempo mortificato, quasi che tutti i suoi scherzi lo portassero
a qualche terrore. Gliene venne una superstizione tale che non giocò più,
credendo anche che una volta o l'altra gli potesse succedere molto male. E ne
aveva avuto la prova due anni prima: scaraventando un sasso, aveva ferito un
altro ragazzo che si trovava, senza ch'egli lo sapesse, dietro una siepe.
Perciò i suoi discorsi con Ghìsola presero un tono di gravità, quasi avessero
dovuto nascondere un significato nuovo.
Dopo qualche mese, trovatala
per caso sola nel campo, prima s'allontanò e poi tornò indietro, arrischiandosi
a chiederle:
«Ti feci male parecchio?».
I suoi piedi, che affondavano
nella terra lavorata, gli davano un senso di sgomento. Ma ella lo guardò
sorridendo:
«Quando?»
«Quando ti ficcai, senza
volere, il temperino nella carne».
Già quel sorriso, contrariandolo,
gli aveva fatto perdere il filo.
«Ci pensa sempre?».
Egli si meravigliò di trovare
in lei un sentimento che non somigliava né meno a quello supposto; e le chiese:
«Te n'eri scordata, forse?»
«Subito dopo».
Parve a lui che volesse dire:
"queste son cose cattive e non ci si pensa".
«Ma devi aver sofferto da vero.
Se tu vuoi fare ora lo stesso a me...»
«Io?»
«Ti giuro... Tu sai che quando
giuro io è la verità. Non feci male a te?».
E le spiegò che avrebbe dovuto,
con quel temperino, fargli la stessa ferita; ed ella, per dargli a intendere
che lo prendeva sul serio, rispose:
«Quando vuole...».
Ma l'acconsentimento diminuì la
sua voglia.
«Bisognerebbe che nessuno lo
risapesse».
«Dirò che sono stato io».
Egli le prese la mano, perché
tenesse il temperino; ma ella si divincolò subito, e fece una smorfia
d'incredulità.
«Ho mai detto bugie io? Non
sono Agostino!».
Ma gli parve così scontenta di
quell'insistenza ch'egli se n'andò, battendo le mani su le spighe dell'avena
alta; tutto confuso e deciso di non comparirle più dinanzi. E provò uno
spiacere disgustoso a stare con lei. "Forse", pensava egli, "ha
ricusato per la nonna e per la zia".
Ghìsola, invece, si convinse
che non parlasse sinceramente: e astiò il figlio del padrone, con quell'astio
istintivo e cattivo, che hanno quelli costretti a ubbidire.
Del resto, credette volentieri
che non fosse sincero: era una ragione di più per volergli male! Quando lo
vedeva da lontano, ed egli per timore non la guardava né meno, si metteva a
cantare.
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