[VII]
A scuola
Pietro motteggiava i più vicini di banco con la sua ilarità nervosa; li
costringeva a dargli retta, li chiamava con soprannomi faceti, li offendeva se
non gli davano retta. E anche quando tutti tacevano, né meno udiva la voce
dell'insegnante, quantunque qualche risposta dei compagni gli arrivasse agli
orecchi con un rammarico strano.
Stava per prendere la licenza
elementare, ed era il più grande e il meno bravo; e i seminaristi lo
canzonavano.
Qualche volta, dopo aver
cercato di comprendere, si sforzava di badare a tutta la lezione rimanente; e
sentiva quasi gusto ad aumentare la disistima di tutti, benché se ne
compiangesse. Quando era stato attento, usciva con la mente quasi stravolta,
con un peso dentro le tempie, incapace di mettersi a studiare; stanco sfinito;
senza aver fatto nulla: lasciava un libro e ne prendeva un altro, lasciava
anche questo e non leggeva; non s'accorgeva né meno più d'averli dinanzi.
Allora, si divertiva al
movimento e al vocìo della trattoria.
Del resto avrebbe dovuto
imparare le sue lezioni e scrivere dinanzi agli avventori meno ricchi che
desinavano a una tavola lunga, sopra alla quale ciascuno di loro distendeva un
piccolo tovagliolo: lungo i solchi delle piegature, si raccoglievano le briciole
del pane, e Pietro le mangiava a pizzichi.
Questi avventori, divenuti
amici di Domenico e di Anna, lo facevano ridere con le loro burlette
dicendogli:
«Che vuoi affaticarti gli
occhi? Vai a ruzzare».
Ma Anna si alzava dalla sua
poltrona posta nell'angolo più oscuro della stanza, dietro un paravento di
legno con un'apertura rotonda da cui poteva sorvegliare i camerieri e la
cantiniera, per dire:
«Lo lascino stare!».
Poi, rideva anche lei.
D'estate, quando tirava un poco
di vento, si vedeva uscire dalla finestra aperta tutto il fumo delle pipe e dei
sigari; e allora gli avventori si toglievano la giubba; mentre, d'inverno, si
passavano uno scaldino.
Burlavano tra loro, portandosi
via il pane e le frutta. Quando qualcuno bestemmiava troppo, Anna impallidiva e
lo guardava in faccia. Egli rimaneva con la parola in bocca e tutti gli altri
tacevano; e la conversazione era cambiata.
«La bestemmia non sta bene.
Avete tempo fuori di qui! Per la strada!».
Quegli arrossiva:
«Ieri il rimprovero non toccò a
me! Non è vero, padrona?».
Era una risata spontanea. Ed
Anna pensava subito ad un'altra cosa.
Allora qualcuno proponeva:
«Venga a darci da bere. Ma non
di quello annacquato. Non ci castighi!».
Chi aveva ancora un poco di
vino, vuotava il bicchiere riposandolo con gli altri nel mezzo della tavola.
Anna, fattosi portare un fiasco, domandava:
«Quanto ne vuole lei?»
«Un soldo».
«Io due soldi...».
Adamo metteva il bicchiere
contro l'aria:
«È piovuto in cantina anche
oggi!».
Quando passava un avventore
delle altre sale, si chetavano alla meglio e lo seguivano con lo sguardo.
«È il tale».
Qualche volta, cantavano. Ma
Domenico usciva dalla cucina tenendo un ramaiolo, di brodo. Tutti alzavano le
mani:
«Fermo! Fermo! Ce ne andiamo!».
Gli alterchi erano radi; e,
quando avvenivano, l'amicizia era rotta per poco tempo. Di solito, non
s'insultavano direttamente; ma uno alla volta, a vicenda, si rivolgevano agli
altri esponendo la cosa come un racconto; da prima a bassa voce, poi con veemenza
e con bestemmie, battendo i pugni, alzandosi da sedere.
Quasi, le mani dei contendenti
si toccavano; allora, qualcuno diceva:
«È vergogna! Anche per chi ci
sente!».
Anna non si teneva più; e la
sfilata delle bestemmie era interrotta, finalmente, da un grosso boccone
inghiottito.
Adamo, con piccole nervosità da
femmina avvezzata male, quando diceva a Domenico che lo servisse bene, quasi si
raccomandava. Dopo averlo guardato in viso, si volgeva da una parte,
aspettando, sempre con la paura che parlassero male di lui in cucina; poi,
assaggiata due o tre volte la pietanza, se era a modo suo respirava meglio,
sputacchiava e si decideva a mangiare. E, tornatagli la gaiezza, era primo lui
a svegliare Giacomino, mettendogli una buccia di mela nel collo. Anziano, basso
e corpulento, con i baffi sempre in bocca, cambiava d'umore come un ragazzo.
Anzi, chiedeva scusa dell'inurbanità del momento prima, battendo insieme le dita
sopra il tovagliolo, tamburellandole, con la testa in avanti e bassa. Si
stropicciava le guance con il dorso della mano, silenzioso, con il sigaro in
bocca, biascicandolo e facendolo girare tra le labbra. Era capace di mettersi
ad ascoltare una lunga conversazione fatta nella stanza accanto; per dirne, con
una frase sola o con un sospiro, la sua opinione. E, se per caso gli avessero
risposto, si rifaceva pensoso, fumando a boccate più lunghe.
Giacomino, anche mangiando
appoggiava la testa alla mano, tirandosi con le dita i capelli vicini alla
nuca.
Bibe metteva il mento sopra il
pugno chiuso, in proda alla tavola, e stava così con gli occhi giù,
divertendosi ad ascoltare, senza veder nessuno; e allora alzava, una per volta
e piano, le punte dei piedi, battendole in tempo; finché qualcuno, presolo per
i capelli ricciuti, non gli facesse volger la testa.
«Dio! Mi fate male! Che
divertimento c'è?»
«Hai sonno, bestia?»
«Poco no».
E raccontava perché non aveva
avuto tempo di dormire abbastanza. E sorrideva, tra il sonno.
Volevano sempre gli stessi
posti: Adamo in un angolo, perché così sputava a piacere; Giacomino sotto la
finestra; Bibe il più giovane, sul canapè: perché ci si tirava in dietro a modo
suo, magari addormentandocisi quando non gli davano fastidio.
Si riabbottonavano i calzoni,
si riagganciavano gli scheggiali, sputavano, s'urtavano, si scapaccionavano, si
tiravano i baffi e pagavano il conto andando, a uno per volta, dinanzi al
bugigattolo di Anna.
E Pino? Pino, il vecchio
barrocciaio di Poggibonsi, era il più povero. Gridava, per ridere:
«C'è posto anche per me?».
Tutti glielo facevano, non per
cortesia, ma perché lo credevano pieno di pulci. Egli se ne avvedeva, ma non
osava dir niente: brontolava un poco tra sé: e, siccome dovunque era trattato
così, non se la prendeva.
«Mezzo posto mi basta a me. Non
sono un signore io! Ah, come mi dolgono le ossa!».
Un occhio non gli voleva stare
aperto, e le palpebre battevano insieme come fanno quelle delle civette. Girava
quell'altro occhio per tutta la stanza, lentamente; ricominciando sempre da
capo. Si guardava bene le mani, per far capire agli altri che aveva pensato a
lavarsele; e in fatti se l'era lavate nel secchio del suo cavallo mezzo stronco
come le stanghine del barroccio, rinforzate con parecchie avvolte di funicella
e di filo di ferro. Quanto tempo gli faceva perdere quel lavoro riaccomodato
tutti i giorni!
Si stropicciava gli occhi con
un dito, con il viso ridente senza sapere perché: la sua bocca, con quel
sorriso, pareva larga il doppio.
«Ridete voi, eh, boia! Che
avete rubato oggi? Si piglia la roba delle commissioni e poi dice che l'ha
persa per la strada».
«Io? Oh, poverino! Una volta lo
facevo così, ma ora no».
Strascicava la voce con un
accento, che sembrava sincero benché malizioso. E poi:
«Ho due figliole, a casa, da
maritare! Son belle da vero, a dirvela in un orecchio. Ma la mia moglie è già
ridotta come una balla di cenci unti, che non si piglierebbero né meno in mano.
Ci ho quelle due figliole, povere bambine! O che devo fare io per loro?».
Tutta la sua fisonomia pigliava
una bontà umile ma ostinata; e, cosa strana, le sue guancie, tra il pelo della
barba rada, erano delicate come quelle di una donna.
Egli non ordinava, ma Domenico
gli sceglieva tra la roba del giorno innanzi e gliene faceva un piatto solo. Lo
pigliava per la tesa del cappello: quasi gli ci faceva battere il naso:
«Senti come ti ho servito?»
«Sì, avete ragione, è stantia,
ma non puzza tanto».
Adamo e Giacomino gli buttavano
fette di pane o mezze frutta. Egli, senza guardarli in faccia, se le radunava
più vicino, quasi avesse voluto metterle sotto il tondo del piatto, con ambedue
le mani.
«Oh, oggi sto meglio!».
Salutava con molto rispetto
Anna, aspettando che gli rispondesse: e, certo, non si sarebbe messo a sedere
prima. Tanto che Anna, quando se n'era dimenticata, doveva dirgli:
«Mettetevi a sedere!».
«Ah, mi ci posso mettere?
Credevo di dar noia oggi! Sono tanto stanco!».
E aspettava, tenendo le mani
insieme.
Da Pietro si faceva rispiegare,
quasi una volta al mese, che cosa erano le due oleografie delle pareti. Pietro
saliva in piedi su la panca, per non staccarle. Ma Pino diceva:
«Me le metta più vicino! Se
sapesse, Pietrino, come mi bruciano gli occhi! Qualche volta ho paura
d'accecare».
Una era la Battaglia di Adua
e un'altra I fattori dell'unità italiana. E tenendolo, dopo, per una
manica:
«Non dia retta al babbo: studi.
Me ne intendo!».
Pietro, allora, senza sapere
perché, lo accarezzava.
D'inverno, quando era tutto
infreddolito e bagnato, con il bavero della giubba fino alla cima degli
orecchi, con il cappello su gli occhi, Pietro gli si faceva subito incontro; e,
senza parlargli, gli metteva il viso tanto vicino, che Domenico lo tirava in
dietro per il collo.
Morì presto; e nessuno se ne
accorse.
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