[II]
Per tutto un
inverno, Pietro non rivide Poggio a' Meli; udendone solo parlare tra il babbo e
gli avventori: viti nuove, vivai di frutti, sementi più abbondanti; e il vino
della prima vendemmia: un vino, però, chiaro chiaro; che sapeva di solfo e
bruciava lo stomaco.
Qualche volta, alla trattoria,
capitava Ghìsola zitta accanto alla zia Rebecca; ed egli la guardava senza
andarle vicino. Ma gli faceva meno piacere; e sembrava che non si fossero
parlati mai.
Dopo alcune febbriciattole,
verso il giugno, tornò con la mamma in campagna. Siccome la casetta stava
chiusa parecchi mesi dell'anno, ci trovavano sempre un odore di calcina e di
topi: e le serrature, ad adoprarle, ci voleva forza. Chiamavano Giacco, la
prima volta, per non farsi male alle mani; e Masa era incaricata di levare la
polvere e le ragnatele che avevano empito le stanze.
Anche Ghìsola aiutava; ma non
doveva toccare quel che si poteva rompere.
Pietro, il primo giorno, ebbe
un'agitazione che gli toglieva la coscienza; e gli dolevano le glandole ancora
gonfie dietro gli orecchi.
Sbarbava con una stratta tutte
le piante che gli capitavano sotto mano, strappava i tralci alle viti; o con un
palo batteva un albero finché si fosse sbucciato. Staccava le zampe e le ali ai
grilli, e poi li infilzava con uno spillo. Stava attento quando una nuvola era
sopra a lui; e, quand'era trascorsa, ne aspettava un'altra quasi per farsi
vedere.
Alla fine piovve, senza
tuonare, con uno sgocciolìo che non finiva più sotto alle docce. Poi,
diradatesi le nuvole, alcuni sprazzi di luce s'indugiarono sopra le colline di
là dalla pioggia, che le velava di tanti fili sottilissimi che il vento avrebbe
potuto romperli tutti. L'arcobaleno si aperse; come se fosse stato lì già
pronto.
Anna, dopo cena, chiamò in casa
Masa e le altre donne degli assalariati; che entrarono inciampando insieme ad
ogni passo.
«Mettetevi a sedere».
Risposero, come sempre:
«Ma, signora padrona,
incomoderemo troppo».
«Vi dico che vi mettiate a
sedere».
Anna ci teneva a fare la
signora e ad essere rispettata, ma voleva bene da vero a quelle donne.
Ghìsola se ne stette seria e
attenta dietro a tutte; e Pietro, che doveva studiare, dopo aver guardato la
divisa dei suoi capelli, uniti come il refe avvoltolato al rocchetto, non fece
più caso a lei se non quando la mamma le comandò di prendere un gomitolo
nell'altra stanza. Ella obbedì rapidamente, come una grande marionetta; poi si
rincantucciò, con gli occhi intenti alla trina della padrona, con i piedi su la
stecca della sedia.
Anna, accorgendosene, si trasse
alquanto indietro, sul canapè; alzò le mani e disse:
«Ecco: l'uncinetto si tiene
così, poi gli si fa pigliare il filo... si avvolge da questa parte... si
ripiglia. Non c'è da sbagliare».
Orsola, il cui naso era rosso
di una ectasia venosa, rispose senza aver capito niente:
«Com'è brava!».
Masa si volse alla nipote:
«Quanto saresti contenta se tu
potessi imparare?».
Allora Orsola, grattandosi i
capelli con un ferro della sua calza, disse:
«Ghìsola è giovine, e le dita
le si prestano bene. Ma noi non possiamo piegarle».
«E non ci vediamo abbastanza».
Aggiunse quella che aveva la
vista più debole, Adele.
«Ma che sappiamo fare noi? Un
poco di acqua cotta per i nostri uomini. E male anche quella».
Tutte risero, e Masa esclamò:
«Ma guardate che dita delicate
ha la padrona! Sembra perfino impossibile!».
Anna lasciò la trina; e,
arrossendo, mise una mano sopra la tavola, alla luce; facendola vedere da
ambedue le parti: era piccola e grassoccia, con le unghie corte e gonfie.
Pietro ascoltava, ma gli pareva
che le persone intorno a lui agissero come nei sogni; e la mamma, rivolgendosi
a lui doveva ripetere due o tre volte la stessa cosa:
«Ma perché sei così distratto?
E pure tu capisci quel che si dice!».
Egli, con un'apprensione
strana, temeva di rispondere. E dalla sedia andò sul canapè, incapace di
sottrarsi a una specie di spavento a cui s'era abituato; subendo quel fascino
di allontanamento, che talvolta gli dava un terribile benessere; finché il
sonno non gli fece ciondolare la testa su le ginocchia. Ghìsola, ad un cenno
della padrona, gli si avvicinò e gli bucò, appena, con un ferro della calza,
una mano, perché si smuovesse. Pietro finse prima di non sentirla, ancora
immerso in quel suo abisso schiacciato. Poi, senza alzare gli occhi, la
maltrattò. Ora Ghìsola apparteneva a quella brusca realtà meno forte delle sue
astrazioni. Sentì tale differenza, con pena acre.
«Mi hai fatto male!».
Egli era già meno tranquillo,
con un viso bianco che pareva consunto; e, perché non si mettesse a piangere,
Anna rimandò via la contadina prima del solito. Ghìsola, quasi offesa e con
timore, se l'era svignata subito.
La pioggia, ricominciata dopo
il tramonto, faceva un crepitìo sommesso fra le lucciole che non si diradavano.
Qualcuna aderiva ad uno stelo di grano, e non si moveva più: si vedeva la sua
luce immobile, sempre accesa, sotto i colpi delle gocciole.
Pietro si fece spogliare, con
gli occhi che non stavano aperti, pieno di sogni. La mamma, quando fu a letto,
gli disse guardandolo:
«Sono tre sere che non dici né
meno un'avemaria! Ségnati».
Avrebbe obbedito se fosse stato
più desto: mosse il braccio ma non arrivò a toccarsi la fronte, sentendo il
segno della croce addosso; con un senso delizioso di quel che aveva detto a
Ghìsola. S'addormentò vedendo la mamma che simile a un'ombra girava intorno al
letto per benedirlo.
«Dammi la buona notte,
almeno!».
Ma egli già dormiva da vero
quando Anna se ne andò, riparando il lume con tutta la persona; dopo avergli
messo sotto il piumino i calzinotti e le mutande.
Si destò a mezzanotte. Udì un
usignolo, forse tra le querci del podere, accanto all'aia. Le sue note gli
parvero un discorso, a cui rispondeva un'usignola di lontano. Allora li ascoltò
ambedue a lungo, e non avrebbe voluto; e pensò che Ghìsola fosse fuori per
prenderli. Ma si chiese perché le cose e le persone intorno a lui non gli
potessero sembrare altro che un incubo oscillante e pesante.
Poi, nei sogni, sentiva la sua
cattiveria; e credeva d'imprecare contro quel canto.
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