[XV]
Quel poco
tempo che Anna stava al podere, quando non aveva più da lavorare in casa, si
faceva empire le brocche da Ghìsola; e poi, con un annaffiatoio, bagnava le
piante dei limoni. La sera Giacco toglieva, con una zappa, l'erba nata attorno
alla casa; buttandola ai conigli o alle galline.
Anna scendeva fin giù agli
orti, e qualcuna delle donne le pigliava l'insalata e i cavoli.
Ella avrebbe voluto tenere i
fiori, anche perché vicino a Poggio a' Meli c'era un giardino; che andava
sempre a vedere, per ambire di averne un altro eguale. Ma dovevano bastarle i
geranii e i garofani; quando glieli regalavano da trapiantare. Non osava, però,
tenerne molti, perché certo Domenico le avrebbe domandato se andava in campagna
per curarsi oppure per starci in villeggiatura. Del resto ella stessa si
contentava d'averne più di quando era ragazza.
Anche per comprare quei pochi
ninnoli che teneva nel suo salotto di città, era bisognato che glieli avessero
venduti quasi per forza. Infatti un ebreo robivendolo, tutte le volte che non
aveva da pagare il conto alla trattoria, le portava a far vedere ogni specie di
oggetti vecchi e glieli lasciava sul banco; benché lei non volesse in nessun
modo. E quando, passata una settimana, egli tornava, Domenico ed Anna, dopo
mezz'ora per mettersi d'accordo, e avergli detto che sarebbe stata l'ultima
volta, si aggiustavano alla meglio. Il robivendolo giurava che da qui in avanti
avrebbe pagato sempre con i soldi alla mano; e allora bevevano insieme un
bicchiere di vino, perché erano doventati anche rochi a forza di vociare e di
trattarsi male.
Ma Anna ne era contenta; e così
i quadri, dipinti sul vetro, delle Cinque parti del mondo, i portafiori
d'alabastro ingiallito, le anfore di vera porcellana entravano in casa sua.
Il salotto, ormai, non ne
conteneva più. C'era poi addirittura una parete ricoperta con le fotografie di
quasi tutti i conoscenti; e, sopra un mobile verniciato a noce, due ciociare di
gesso che sorridevano. Nel tavolino di mezzo, un servito di cristallo celeste,
ma incompleto; che aveva attorno cinque lucernine di ottone sempre infioccate
su nel manico perché le mandavano, con un fiasco d'olio, a tenerle accese
quando facevano i Sepolcri.
Ella dava, almeno una volta al
mese, il cinabro agli impiantiti; e, allora, bisognava che si pulissero bene le
scarpe prima d'entrare.
Quando, in campagna, le
portavano qualche fiore, non voleva tenerlo in casa; e l'offriva alla Madonna
del Convento di Poggio al Vento. Se fosse stato già tardi e avevano chiusa la
chiesa, lo metteva in fresco, ma sopra il tavolo della stanza d'ingresso; e la
mattina dopo era la prima faccenda.
Per pararsi il sole, che le
faceva subito dolere la testa, aveva un ombrellino rosso con il manico
d'avorio; un ombrellino di parecchi anni. Ella, quando vedeva le assalariate,
se ne vergognava; e, chiudendolo, stava piuttosto sotto una pianta. Mentre
invece, andando alla messa, lo portava volentieri; e magari se lo faceva
reggere da Ghìsola.
In chiesa si metteva su una
panca, un poco distante dalle contadine; che, del resto, per rispetto, a farle
posto ci pensavano anche da sé.
S'era fatto un vestito nero con
una guarnizione di seta gialla al collo; e con una trina che, attaccata alle
spalle e alla cintura, stava fino a mezze maniche. Su la guarnizione teneva una
catena d'oro. Invece, per la trattoria, aveva un vestito rosso a palline
bianche e celesti.
Ella diceva a Ghìsola che
imparasse a scrivere, almeno un poco; ma siccome non poteva fidarsi che Pietro
le insegnasse, perché si metteva subito a farle dispetti, lei stessa ci si
dedicava qualche ora del giorno, quando stava meglio. E Ghìsola s'era fatto
l'inchiostro con le more delle siepi. Ma non andò mai avanti oltre le prime
aste.
Per dire la verità, invece,
Ghìsola avrebbe imparato volentieri; e, a sapere che Pietro andava a scuola, le
faceva un grande effetto. Ella avrebbe voluto almeno leggere, perché molte
delle sue amiche dei poderi accanto avevano perfino il libro da messa, quello
regalato dai cappuccini per la prima comunione; e poi perché, in Piazza del
Campo, le domeniche mattine, le veniva voglia di comprare le canzonette
stampate che vendevano a un soldo con il racconto di qualche fatto miracoloso,
dove c'era sempre una Madonna con una gran corona dietro la testa. Le
canzonette erano belle perché anch'esse, prima delle rime, ci avevano sempre
qualche figurina. Ella si fermava, con gli altri contadini, a sentirle con la
chitarra da Cicciosodo, quel cantastorie capace di smuovere il cappello a tuba
contraendo la pelle della fronte, ritto sopra uno sgabello. C'erano anche le
scimmie che sceglievano i numeri con la Ruota della Fortuna; e c'era chi
vendeva certe chicche di tutti i colori, involtate in cartocci ritagliati a
frange con le forbici.
Quando tornava a Poggio a'
Meli, aveva già imparato l'aria della canzonetta che le era piaciuta di più; ma
non si ricordava di tutte le parole. Qualche volta, avendola comprata lo stesso
e tenendola piegata in tasca perché Masa non gliela vedesse, se la faceva
leggere quando nel campo trovava un'amica. C'erano da vero cose belle, che la
commovevano o la facevano ridere.
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