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Federigo Tozzi
Con gli occhi chiusi

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[XVII]

     Quella stessa mattina, Ghìsola s'intestò di non alzarsi.
     Masa le chiese, con ira:
     «Ti senti male, forse, dormigliona?».
     Ma quella non rispose; e la vecchia, borbottando, andò in cucina a mangiare. Dopo un poco, riaprì l'uscio; e affacciatasi, richiese:
     «Perché non mi rispondi? Vuoi fare i gestri, stamani?».
     Ghìsola sgorgugliò e si ravvoltolò sotto le coperte, con il viso dalla parte del muro.
     Masa non era capace di avere una lunga collera; e, per giustificarsi, disse:
     «Ho visto che ridevi!».
     E continuò ad ingoiar la zuppa diaccia, tenendo la scodella in mano.
     Ghìsola era molto stanca; aveva una di quelle stanchezze che, lì per lì, si sentono anche moralmente.
     Ma Masa, con una persistenza uggiosa, le disse ancora:
     «Io non ho da sprecare più il fiato. E a star con te non compiccio niente».
     «Smettete, dunque! Non posso dormire? Non voglio lavorare. Non devo tornare a Radda? Perché state così impalata?».
     Le pareva di non aver dormito; e si stupì che Masa continuasse:
     «E se il padrone non ti vuole più qui, doventi impertinente con me?».
     E fece l'atto di batterle il cucchiaio su la faccia, ma invece lo leccò di sopra e di sotto. In fondo la compativa, e le dispiaceva di separarsene. Tornò in cucina.
     Ghìsola, messa di buon umore da quelle parole, si alzò. In camicia, fece una ghirlanda di fiori finti, con certi pezzetti di filo di ferro; ai quali, l'anno avanti, era stata attaccata l'uva. Poi, la nascose nel canterano insieme con i suoi ritagli di carta colorata, con le scatole da saponette, con un mucchio di nastri e di striscioline di stoffa; che, talvolta, si divertiva a sciorinare in fila sul davanzale della finestra; dove il piccione e la picciona volavano battendo il becco ai vetri per chiederle il granturco o le briciole secche di pane che ella si ritrovava sempre in fondo alla tasca del grembiule.
     Si piccò anche di non mangiare, quantunque Masa le avesse tagliato un pezzo di pane.
     «Di che cosa campi? Alle volte, invece, t'inghebbi».
     La giovinetta alzò il coperchio della madia e v'introdusse il capo, fiutando l'odore acre del lievito che s'era aperto secondo la croce fattavi da Masa con la costola d'un coltello.
     Poi se ne andò nel campo, cantando a voce alta; e pensando ai suoi nastri e alle sue scatolette odorose.
     Dove l'erba era folta, ci stava di più; dov'era rada e bassa, faceva presto, con un colpo di falcinello. Si asciugava, di quando in quando, le mani guazzose, sdrusciandosele alla sottana. Il granturchetto, gremito, le dava quasi gioia; e metteva le piante più belle sopra tutte le altre per darle da sé ai vitelli; che se le mangiavano come una ghiottoneria, leccandole, dopo, le mani e i polsi, scuotendo la testa e le catene legate alle corna.
     Quel mastichìo nel silenzio della stalla! E poi bevevano così bene nelle conche colme! Una sorsata sola, che faceva abbassare subito l'acqua! E, da ultimo, certi loro succhii, smuovendo la lingua, respirando a lungo per i buchi del naso, con il collo allungato in su fino a dovere aprire la bocca; scostandosi dalle mangiatoie, a traverso.
     Questa volta ella, ad un tratto, pianse; e sbatté, con tutta la sua forza, l'uscio; correndo dalla nonna.




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