[XXI]
La morte di
Anna era stato un vero danno per Domenico. I sottoposti non lavoravano più
quanto prima; ed egli, preso da uno sconforto che lo rendeva furioso, doventava
più irascibile; e non era infrequente che se la pigliasse con qualcuno senza
nessuna ragione. Si fece anche più economo, e dovette rinunciare a molti
progetti per la trattoria e per il podere. Doveva lavorare di più, e non poteva
sopportare la stanchezza. E fu addirittura incapace di pensare per il figliolo
come avrebbe dovuto. Lo lasciò quasi libero; ma non di rado, quando se ne
pentiva, lo trattava senza riguardi e con una violenza così sproporzionata che
anche Rebecca lo difendeva. E, allora, smetteva; ma, alla prima occasione,
faceva peggio come se avesse dovuto vendicarsi.
Anna era morta la seconda
settimana di gennaio; e, tutte le domeniche, prima di giorno, il trattore
andava con due mazzi di fiori alla sua tomba. Avrebbe voluto portarne uno lui e
darne uno a Pietro; ma Pietro non l'ubbidiva. Piegando i ginocchi dalle
percosse, mortificato, diceva:
«Ma perché? Non mi devi dare i
calci».
E se lo avessero riconosciuto?
Nel cielo cominciavano quegli
immensi chiarori, che vengono dall'alba ancora lontana; le strade erano tetre
ed umide.
Di solito, soltanto poche
persone passavano, camminando in fretta; e si udiva bene quel che dicevano: le
voci risuonavano come le scarpe con i chiodi su le pietre. E qualcuno, per lo
più facchini che si recavano all'arrivo dei treni, accendeva la pipa, coprendo
con ambedue le mani il fiammifero.
Domenico, quasi a metà della
strada, entrava in un bar dov'era una ragazza con una veste così scollacciata
che Pietro aveva paura si aprisse tutta.
Ella rideva agli avventori; e
allora le sue gote incipriate, sode e rotonde, si gonfiavano fino a farle
socchiudere gli occhi. Dava quel sorriso come le tazzine di porcellana
filettare d'oro.
Pietro non voleva entrare.
Domenico tornava fuori, strascinandocelo.
La ragazza faceva la sguaiata
con Domenico: ma Pietro se ne stava a capo chino, impacciato di lei, del suo
vezzo, e degli specchi grandi come le pareti; non sapendo né meno come prendere
il caffè. E si bruciava le dita e la bocca.
Esciva prima che il padre
avesse avuto il tempo di bevere; e, dai vetri velati di vapore, che si
scioglieva in sgocciolature lunghe e torte, lo vedeva ridere con la ragazza.
Su la Torre del Palazzo
Pubblico, a sereno, batteva una luce più limpida, e il cielo era pieno di
rondoni, che stridevano con stridi lunghi come i loro voli. La Piazza del Campo
era tutta rosea, con alcune strisciate verdi di erba e con i colonnini di
pietra bianca.
"Quest'altra domenica, io
entrerò senza che egli mi ci forzi".
Ma pareva che quella specie di
timidezza crescesse da una settimana all'altra; divenisse come una malattia; e,
sovvenendosene, sentiva la fronte coperta di sudore diaccio. Dopo, le mani gli
si irrigidivano in tasca, con la fodera presa tra le dita; e i piedi si
rifiutavano di muoversi.
Anche Domenico, del resto,
camminava lentamente; e quando era infreddato, per cavare il fazzoletto e
soffiarsi il naso, si fermava.
Salendo la Via di Città e poi
quella di Stalloreggi, Pietro era sempre più triste.
Giunti al cimitero, Domenico chiacchierava
con Braciola, il becchino del colore della sua terra, grasso come fosse stato
pieno di vermi, con i baffi bianchicci; e, infilati i mazzi dentro due lunghi
vasi di porcellana, dov'era restata un poco d'acqua quasi nera, sempre la
stessa, guardandosi attorno esclamava:
«Come si allarga in fretta!
Quando morì la tua mamma, le tombe arrivavano soltanto qui».
Restava fermo, e poi chiedeva:
«La vedova non è venuta
stamani?»
«Prima di noi, forse.
Andiamocene, è inutile aspettarla».
«È presto. Perché non la vuoi
aspettare? Tutte le mattine porta i fiori».
Pensava male del figliolo, che
non si curava punto di lei, la sola persona che a quell'ora si trovasse sempre
come loro dentro il cimitero!
Ma la vedova aveva sentito
diminuire l'importanza della sua fedeltà devota. Perché proprio il Rosi doveva
pigliare quella stessa abitudine quando era noto per tutta la città che non
aveva adorato la moglie, come ora voleva far credere?
Gli dava un'occhiata
diffidente, rispondendo imbarazzata al suo saluto. E quale effetto le faceva
quel ragazzo che non guardava né meno le tombe, con le mani in tasca, e un'aria
assonnata o impertinente!
Pietro esclamava:
«Io vado via».
E questo battibecco doventava
sempre peggio. Domenico, una volta, ormai alla fine dell'inverno, gl'impose:
«Vattene».
Pietro arrossì, ma disse:
«Che me ne importa di lei?».
La guazza aveva come appastata
la terra delle fosse nuove. Qualche uccello volava di traverso, tutto inclinato
da una parte. Tra i cipressi si vedevano le montagne, che sembravano soltanto
lunghe striscie di colore ancora umido.
Le lapidi erano coperte di
chioccioline grigie. La Cattedrale si faceva sempre più bianca; e Pietro si
accorse, guardandola, d'esser pieno d'ira.
Incontrarono la vedova al
cancello; e Domenico la salutò. Ella rispose senza né meno voltarsi; ma badando
Pietro con la coda dell'occhio. Domenico si fermò, e disse come tutte le altre
volte:
«Ora va alla tomba del marito».
Tutti la conoscevano soltanto
di vista, e Domenico non ne sapeva più degli altri. Tornando dal cimitero, dove
pregava almeno una mezz'ora, faceva la spesa; e nessuno, fino alla mattina
dopo, la rivedeva più.
Era bassa e grassa; e,
camminando, le rimbalzava il seno quasi sorretto dalla sporgenza del ventre. Il
suo cappello, troppo piccolo, era tenuto fermo con un elastico nero che le
girava dietro gli orecchi e sotto la gola. Ad ogni passo, una sua vecchia piuma
verdognola si scuoteva come se ricevesse un colpo. Tra i capelli, radi e tirati
con forza, con una forcellina, si vedeva la nuca untuosa e rossiccia come pelle
d'oca. Era vestita, chi sa da quando, allo stesso modo; forse non per miseria.
Domenico, dopo averla seguita
con gli occhi, chiese al figliolo:
«A che pensi?»
Pietro sorrise, e disse:
«Io? A niente».
«Perché, dunque, stai con la
testa bassa?»
«Non me ne accorgo, lo sai!».
«Così tu sei brutto, mentre io
ti avrei messo al mondo simpatico. E a scuola perché ci vuoi tornare? Non ti
sei fatto mandar via?».
Domenico gli parlava della
scuola con risentimento e in quei momenti creduti da lui più opportuni a
influire sul suo animo.
Il giovinetto tacque,
sentendosi come svenire: il padre non si sarebbe mai dimenticato di fargli
questo rinfaccio, per valersene!
E, vedutolo confuso e
mortificato, riprese:
«Potresti aiutar me, e tra
qualche anno prender moglie».
Domenico trovava conveniente
ammogliarlo presto, ora che non c'era una padrona nella trattoria; e più di una
volta gli aveva misurato con un'occhiata l'aspetto e la statura; per
convincersi che non era presto; per quanto avesse soltanto sedici anni.
«Io... non mi sposerò».
«E, allora, pensaci bene: sarò
costretto a riprenderla io. Ti dispiacerebbe?».
Pietro esitò; ma, per non esser
distolto dalla voglia di tornare a scuola, chiese:
«E chi sarebbe?».
Il padre, per provare il suo
vero sentimento, rispose:
«Te lo farò sapere presto».
E lo guardò. Ma Pietro ne aveva
parlato come di cose altrui; e aggiunse:
«Mi hanno detto quella
signora... che ha due figlie. La signora... che venne a mangiare anche ieri
l'altro».
Si trattava di una ciarla, e
basta. Domenico riprese:
«Sarebbe meglio che sposassi tu
una di quelle».
«Io?».
Arrossì un'altra volta, perché
gli parve una cosa troppo sopra a se stesso; quantunque lo agitasse un poco.
«T'insegnerò quella che mi
piacerebbe per te».
Egli rise: «Ho capito: la
minore».
Ma Domenico non rispose più,
già pensando che la sera avanti si era dimenticato di mandare a dire ai suoi
assalariati che portassero alla monta le vacche.
«Se non rispondi, perché ne
abbiamo parlato?».
Si arrischiò a chiedere Pietro.
Ma Domenico gridò con collera:
«Tu non sei in grado
d'immischiarti in quello che faccio io. Darei da mangiare anche alla tua
moglie? Se non la finisci! Vedi: dovresti andare a Poggio a' Meli!».
E, come faceva ad ogni
occasione, trasse dal taschino del panciotto una piccola corona nera, che
teneva lì con alcune sterline d'oro; e disse la solita frase, dopo avergli quasi
toccato la fronte con la croce:
«Vedi? Questo è il ricordo
della mia povera mamma Gigella. Io la porto sempre con me. Non mi dette altro,
quando la lasciai per venire a Siena. E tu che cos'hai che ti ricordi la tua
mamma?».
Ma, accortosi che ora, a sua
volta, Pietro non lo ascoltava né meno, s'inquietò: gli pareva impossibile che
un figliolo facesse così! E dire che aveva avuto intenzione perfino di
mettergli il suo nome, tanto doveva assomigliargli, appartenergli!
Quasi l'avrebbe preso con le
mani, per stroncarlo come un fascello! Proprio il figlio sfuggiva alla sua
volontà? Non doveva obbedire più degli altri, invece?
Ad un tratto, come
un'insinuazione a tradimento, capì che anche egli era come un'altra persona
qualunque.
E, allora, sarebbe stato meglio
che non gli fosse nato. Perché gli era nato? Meglio non parlargli più,
sopportando che camminasse accanto, in silenzio, magari a testa bassa, fino a
batterla sul lastrico.
Pietro portò le chiavi della
bottega ai camerieri che lo attendevano nella strada; ed entrò con loro anche
lui; ma, senza la voglia di restarci, come avrebbe dovuto, salì in casa.
Domenico gli aveva dato le chiavi evitando che i loro occhi s'incontrassero; e,
fatta tutta la spesa, lo mandò a chiamare perché aveva lasciato i sottoposti
soli.
«Tu non saprai mai essere un
padrone. Come farai a comandare se tu stesso non impari?».
Ora parlava con il figliolo per
sfogarsi; e il suo rimprovero era pieno di bontà. Poi, presi in mano tutti i
mazzi degli uccelli da cuocere allo spiedo, gli disse:
«Questo è un tordo, e questa
un'allodola: aiutami a pelare».
E si sedé dinanzi a un gran
paniere, dove andavano le penne. Ma Pietro era così distratto che canticchiò un
poco, sottovoce; e poi rispose:
«Se tu sei contento, vado a
leggere un libro».
Domenico finì d'infilare in uno
spiedo gli uccelli già spennati, pose in ordine il girarrosto; poi gli chiese:
«Che libro è?»
«Quando te l'ho detto, non
capirai lo stesso».
Domenico, tenendo una mano
alzata, sentenziò con la sua aria di padrone:
«Io me ne intendo più di tutti
gli scienziati, perché sono tuo padre. Nessuno meglio di me sa quello che ci
vuole per te».
E si mise la mano al petto,
come per confermare che diceva la verità; sul grembiule tutto insanguinato e
impennato. Poi andò al fornello, spezzò con la paletta la brace grossa; prese
per le spalle Tiburzi, e lo piegò alla buca del carbone, gridando:
«Non vedi da te che c'è più
fuoco?».
Domenico, ormai, non pensava
più a Pietro; ma, quando lo rivide lì, gli s'avventò con il pugno chiuso:
«Vattene!».
Pietro stette fermo, e abbassò
la testa; guardando da sotto in su.
Il movimento trafelato dei
cuochi, continuamente stimolati e ripresi anche con male parole e con spinte da
Domenico, che in un'ora voleva sempre preparare tutte le pietanze, non riusciva
a toglierlo da quelle distrazioni.
Già la violenza del trattore
aveva fatto tacere tutti; e nessuno poteva fare a meno d'obbedire, magari
sbagliando anche di più. Ma quando egli entrò in un bugigattolo buio per
attaccare da sé agli uncini i pezzi di carne che voleva lasciare cruda,
Guerrino si volse subito a Pietro, mettendo la lingua tra i denti, perché si
ricordasse di una sua barzelletta raccontata la sera innanzi. Tutti sorrisero,
senza smettere di lavorare. E Pietro disse sottovoce:
«Raccontamene un'altra».
Il cuoco, sdrucciolando in una
fetta di codenna, gli fece un altro gesto per fargli capire d'aspettare.
Tiburzi, con la giacca turchina, che sopra la legatura del grembiule gli si
gonfiava in tante pieghe, vigilava girando gli occhi, senza smuovere la testa;
ilare e pestando i piedi dalla contentezza, con le braccia nell'acqua tiepida
delle zangole untuose e piene di piatti da lavare. Egli aveva un gozzo duro e
giallastro, come gli ci fosse rimasta una pietra; uno di quei gozzi da galline
satolle.
Ma Domenico, che parecchie
volte fingeva appunto di non udire e di non vedere per conoscere meglio i suoi
sottoposti, rientrò dicendo:
«Ghìsola ha avvezzato male
anche te!».
Pietro, impaurito e sorpreso,
domandò:
«Perché?».
Tutti gli si volsero, con
allegra curiosità.
Come la incolpava? Qualcuno
certo gli aveva fatto bevere cose non vere! Ecco perché l'aveva rimandata a
Radda! Ma egli n'ebbe invece simpatia; contro l'ingiustizia con la quale la
dileggiavano; e desiderò di rivederla. Ma perché tutti lo guardavano con
malizia, ridendo e divertendocisi? E perché suo padre era così convinto di quel
che aveva detto? Rimase con i diti appuntellati sul tavolino, afflitto.
Ora era un giovinetto magro e
pallido, con il vizio di tenere una spalla più su dell'altra. Vestiva male, con
un cordoncino rosso al colletto sempre sgualcito e sporco; i capelli biondi,
gli orecchi troppo larghi e discosti dalla testa; gli occhi di un celeste
chiaro chiaro e come se egli avesse qualche cosa da difendere. Il volto con
un'animosità ingenua e malinconica, ma sicura e risoluta; quasi imbarazzante e
spiacevole.
Talvolta, a giornate intere,
sembrava malcontento; ma, se gli parlavano, doventava subito tranquillo e
affabile. Tartagliava meno.
Quel che provava dinanzi alle
cose rimaneva troppo indefinibile, ed egli ne soffriva. La primavera era come
una violenza. Leggere, allora, un libro sotto qualche albero! Interrompeva la
lettura a mezze pagine, a caso, per alzarsi in piedi e tirare fino alla faccia
un ramo, quasi per farsi accarezzare. Ma avrebbe voluto chiedergli il permesso;
guardando dinanzi le colline ricoperte di chiome candide e spioventi, mandorli
e peschi, che pendevano da qualche parte, come se dovessero spargersi a terra.
E, assicuratosi che nessuno lo avesse scorto, sospirava ricominciando a
leggere. Non aveva trovato ancora il libro per la sua anima. Talvolta non
leggeva più, perché gli pareva di vedere di là dalle pagine che doventavano
come trasparenti e sfondate.
Se un insetto, salitogli su per
i calzoni, giungeva sopra il libro, smetteva anche allora.
Qualche uccello entrava tra le
rame in fiore, con il movimento e la forza di un ago infilato; come se le
fronde si fossero aperte e poi richiuse per lui.
Anche prima che Anna morisse,
non voleva andare in chiesa; ed ella non riusciva quasi mai a farlo pregare.
Ormai si sentiva ateo. Bestemmiava, perché non voleva avere i pregiudizii dei
preti. E Domenico ne dava tutta la colpa a quei maledetti libri della scuola.
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