[XXVII]
Pietro era
riuscito a iscriversi all'istituto tecnico di Firenze, dopo aver fatto
privatamente, quasi da sé, il primo corso a Siena. Ma fu la completa sparizione
d'ogni legame tra padre e figliolo. Sempre di più si trattarono come due
estranei costretti a vivere insieme; e Domenico aveva smesso addirittura di
voler su di lui qualunque autorità; credendo che, comportandosi a quel modo,
gli facesse rimorso. Ma, ormai, non l'avrebbe perdonato mai più. Durante magari
un mese, Domenico era stato capace di prendere tutto in scherzo; e ambedue si
dicevano facezie, che qualche volta doventavano litigi.
Pietro era sempre socialista,
ma andava meno con gli operai. Si vergognava d'aver già vent'anni, e d'essere
così a dietro degli studii: questa cosa l'avviliva.
Presa a Firenze una camera in
Via Cimabue, mangiava a una trattoria, lì vicina.
Stava lunghe ore con la testa
tra le mani, imaginandosi di studiare; con un ansia attraversata e tagliata in
tutti i sensi da malumore e da malinconia, come da linee tirate con una
squadra.
Si sforzava d'essere
soddisfatto e di affezionarsi alla scuola; ma gli pareva che i giorni fossero
così staccati e separati l'uno dall'altro che sentiva prendersi dallo
scoraggiamento. Il giorno dopo non era capace più a ricordarsi e a
raccapezzarsi del giorno avanti; e provava difficoltà a pensare ai giorni
successivi.
E non riuscendo quanto avrebbe
voluto, né meno ora che ci metteva tutto il suo impegno, studiava sempre meno!
Sotto la sua finestra di camera
c'era la cinta di un convento di suore; nel cui giardino, quasi subito dopo
mezzogiorno, andavano a cantare e a ruzzare un centinaio di bambine. Quanta tristezza
quel baccano! E poi egli odiava le suore!
Quando le bambine arrivavano
all'angolo più vicino, sorrideva amaramente, sperando che lo avrebbero scorto.
Ma non se ne accorgevano né meno; e, allora, s'infastidiva anche di loro.
Della città, invece, non
sentiva né meno il rumore; perché la cinta, perpendicolare al muro della casa,
era lunga e andava a finire a un fabbricato così grande che gli tappava quasi
tutta la Piazza Beccaria; e, di qua e di là, altre case, quantunque più basse,
quasi in semicerchio, chiudevano ogni cosa.
Si trovava sempre a disagio: ed
era come una cosa che non riesciva a spiegarsi. Non si affidava agli amici, e
ne sentiva la mancanza. Si annoiava di tutto; e la cupola di Santa Maria del
Fiore, velata quasi sempre di nebbia in fondo a Via dei Servi, che egli vedeva
prima di rientrare a scuola, quando andava a prendere cinque minuti di sole in
Piazza dell'Annunziata, gli dava uno scoraggiamento languido, che ingrandiva se
qualche campana suonava.
E tra tutti i rumori, verso il
tramonto, flebili e lontani, gli veniva voglia di fuggire; come se l'aria
ascoltasse; quell'aria trasparente, della quale aveva quasi timidezza e paura.
Quando andava a cenare,
cominciava a farsi buio; e, sotto gli alberi della Piazza Beccaria, le baracche
di un circo equestre abbagliavano con i loro lumi ad acetilene, mentre un
carosello non smetteva più di girare con la musica del suo organo.
Egli vedeva la Via Ghibellina e
la Via dell'Agnolo così strette che le loro case si chiudono insieme; mentre le
altre, dalla parte della Barriera Aretina, terminano dritte dinanzi agli alberi
e alla campagna.
Entrando in casa, trovava la
padrona a cucire insieme con altre donne; alle quali non parlava mai.
Ma, intanto, cominciarono ad
affittirsi i giorni, in cui sentiva stanchezza della scuola; una stanchezza che
gli faceva lo stesso effetto di una colpa inspiegabile.
Pensava anche che non tutti
avevano i mezzi per studiare!
Tra i compagni, si sentiva un
giovine che aveva già troppo vissuto più di loro. Ecco perché, con simpatia e
volentieri, li chiamava ragazzi. Il loro modo di comportarsi verso gli
insegnanti gli dava un senso di compatimento. Ma non riesciva a ridere di quel
che li divertiva; e, molte volte, se ne mostrava seccato e li rimproverava.
Stava bene sul letto, con gli
occhi chiusi.
Si avvide di aver tentato
invano di affezionarsi ai compagni: le indifferenze con alcuni si mutarono in
ostilità e inimicizie; per gli altri provava avversione, specie per quelli più
ricchi, che lo stimavano da poco perché era socialista. I più lo credevano
pazzo; ma gli volevano quasi tutti bene.
Finalmente, convinto che doveva
cedere alla sua stanchezza, non andò più a scuola; e ai compagni, che ne
ridevano, disse che suo padre non aveva più denaro per tenerlo a Firenze.
Gli ultimi giorni si era
sentito, con angoscia, ma anche con piacere, sempre più differente a tutti; e
non seppe spiegarsi come gli altri studiassero senza essere costretti a fare
come lui. Ed ebbe più fretta d'allontanarsene.
Dopo quattro mesi soli di
scuola, invece di pagare alla padrona di casa la nuova mesata anticipata con il
denaro ricevuto dal padre, tornò a Siena senza né meno avvertirlo.
Fu ricevuto come se avesse
messo giudizio, sebbene un poco tardi. Ed egli non osava dire che voleva
studiare da sé per fare gli esami lo stesso. Ma saputo, per caso, da una
lettera ricevuta da Rebecca, che Ghìsola era a Firenze da molto tempo e non più
a Radda, prese senz'altro la decisione.
Domenico, che invece aveva
subito sperato troppo, avendo apprezzato il suo ritorno spontaneo a Siena,
spiegandolo come un ravvedimento mandato da Dio, cercava d'avere piuttosto
buone maniere; e gli chiedeva:
«Perché preferisci stare
lontano da me, che sono tuo padre? Dio ti deve toccare il cuore. Non te ne
accorgi?».
Ma, visto che né meno ora
poteva farsi obbedire, lo lasciò di più; sicuro che il tempo l'avrebbe aiutato.
E Pietro, per scrupolo di
coscienza e per sentirsi in diritto di fare il contrario di quello che il padre
voleva, si dette a studiare con una soddisfazione prima a lui ignota.
Al seminario si erano sovrapposti
i tre anni della scuola tecnica, cambiando tutto: si sentiva proprio un altro,
e sul punto di cambiare ancora.
Il suo socialismo doventava,
come diceva lui, e com'era di moda, intellettuale. Egli non aveva più la fede
con la quale una volta voleva convertire gli altri; ma adoprava la moralità
socialista per i suoi sentimenti.
Ora quei tre anni gli parevano
rapidi come un giorno solo, perdevano ogni consistenza, anche mentale; come se
appena gli avessero dato tempo di respirare.
Gli esami, anche contro la
volontà che voleva avere, doventavano sempre più un pretesto; e non gli pareva
né lecito né leale. Ma la sua impazienza di rivedere Ghìsola aumentava perché
metteva in Ghìsola tutta la fiducia della sua vita.
Stava a giornate intere, solo,
in casa; guardando, con la faccia su i vetri, il sottile rettangolo di azzurro
tra i tetti. Quell'azzurro sciocco, così lontano, gli metteva quasi collera; ma
non ne distaccava gli occhi. Le rondini, che di lì parevano nere, passavano
come attraventate. Soltanto là su, all'ultime finestre, qualcuno affacciato che
non conosceva né meno! E allora sentiva il vuoto di quella solitudine rinchiusa
in uno dei più antichi palazzi di Siena, tutto disabitato, con la torre mozza
sopra il teatro Arco dei Rossi; in mezzo alle case oscure e deserte, l'una
stretta all'altra; con stemmi scolpiti che nessuno conosce più, di famiglie
scomparse; case a muri con due metri di spessore, a voltoni, le stanze quasi
senz'aria. I ragnateli larghi come stracci e la polvere su le finestre sempre
chiuse e i davanzali sporgenti dalle facciate.
Talvolta, all'improvviso,
pensava a Firenze e a Ghìsola che forse, aspettandolo, gli avrebbe fatto un
rimprovero che lo esaltava; all'Arno scrosciante; a tutte le colline sempre
belle; a quelle nebbie che lasciano i muri bagnati, annerendo le pietre delle
strade che sembrano rappezzature.
Il padre, parlando, gli
produceva una malinconia invidiosa: e si allontanava per non udirlo, per non
vederlo; con un brivido. Perché nessuna parola era proprio per lui? Perché lo
trattavano come se lo tollerassero, anche ora? Perché tentare invano di essere
come gli altri? Come erano fatti gli altri?
Ripensava ai compagni di
Firenze, ad uno per volta. E perché loro, forse, non lo ricordavano né meno?
Da quanto tempo era morta la
mamma? Gli parevano cento anni. E tutte le cose s'erano svolte senza bisogno di
lui; a sua insaputa.
I suoi occhi, che avevano una
mansuetudine mistica, contrastavano con le linee magre e sfuggenti del volto;
sì che subito se ne notava la differenza.
Aveva quelle indefinitezze
profonde e persistenti, senza nome e senza mèta; che lasciano una traccia anche
quando sono passate, come si vede se è passata l'acqua su la rena.
Credutosi inferiore ai suoi
amici di Siena, ora conosceva lo sbaglio acre; che poteva aver conseguenze
anche nell'avvenire simile ad un'espiazione arida.
Ma perché aveva sperato di
poter doventare un pittore? Che significava quel tentativo inutile, dinanzi al
suo amor proprio? Poteva non tenerne conto, per credere ancora a se stesso?
Si confortava, sognando
un'esistenza nuova e insolita. Ma quando? Talvolta, essa si riperdeva; ed egli
non riesciva né meno a capire come l'avesse sognata.
Per quanto di una sincerità
fanatica, nessuno avrebbe potuto rendersene conto. Sentiva di non essere più
come una volta per quelli ch'erano stati suoi amici prima che fosse andato a
Firenze. Avrebbe voluto farsi perdonare di non avere più amicizia per loro; ma
si vergognava e si pentiva di essere stato troppo sincero ed espansivo tanto
facilmente. Rivedeva quelle sue sottomissioni morali, di cui gli altri s'erano
approfittati. A Siena aveva voluto essere amico anche dei più cretini e dei più
farabutti, credendoli degni di se stesso; come un dovere, fino a stimarsi
cattivo ad andare a spasso solo, senza qualcuno di loro. Ma, tornato da
Firenze, era riuscito a non parlare più a nessuno, con una smania amara di non
vederli più!
Egli era il giovine che,
sebbene debole, porta impeti di energie; anche se sbaglia.
Molte volte, in sogno, provava
come avrebbero dovuto svolgersi i suoi sentimenti; svegliandosi quasi
soddisfatto, come se un'esistenza superiore e indefinibile gli avesse dato
ragione.
E con quale gioia stravolta
aspettava il giorno dell'incontro con quella, che già metteva sottosopra tutto
il suo essere!
Non sapeva le parole che le
avrebbe detto, quantunque se le imaginasse luminose di bontà; accorgendosi
talvolta di aver pensato parole senza significato, che gli portavano via la
bocca e l'anima! Parole avventate che non si ritolgono più, come coltelli
infilati troppo forte, con rabbia. Parole che vuotano l'essere con piacere
frenetico: alle quali succedono paure folli, giorni temporaleschi, pioggie
calde e asciutte più della stessa aridità che dovrebbero bagnare.
Talvolta, aveva voglia di farsi
uccidere; forse da Ghìsola, che già sentiva sua; tornata come una tentazione
deliziosa dal tempo scorso.
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