[XXXV]
Pietro,
lontano dall'uscio, ad ogni passo che udiva sperava che fosse Ghìsola;
finalmente, la vide.
Non pronunciarono né meno una
parola: c'era tra loro una specie d'ostilità rispettosa. Ella volgeva gli occhi
attorno; ed egli seguitava sempre i suoi occhi che lo evitavano, quantunque
paresse che lo vedessero lo stesso. Tuttavia, da poche parole che avevano
dovuto dirsi, sentirono svanire il loro ritegno.
Quando il tranvai si fermò,
salirono.
Ella aveva un cappello di
paglia, con un solo nastro di velluto nero; una veletta chiara sul volto, i
guanti di filo bianco. Pietro s'accorse di quell'eleganza grossolana; e perché
se ne sentì commosso, le toccò una mano. Egli, certo, sposatala, l'avrebbe
fatta vestire molto meglio. Ma tutti la guardavano; ed egli ne era contento per
lei.
Andarono in fretta dalla Piazza
del Duomo alla stazione perché c'era poco tempo alla partenza del treno. Nelle
vie la folla li faceva sovvenire di se stessi e della loro decisione, come se
trasalissero. E, allora, si guardavano negli occhi. Ma presero lo stesso il
treno per Siena; quasi senza parlarsi mai. Soltanto quando il loro
scompartimento fu più vuoto egli le disse:
«Perché non t'alzi la
veletta?».
E le soggiunse sottovoce:
«Ti vedrò meglio».
Ella obbedì; e si sederono
l'uno di fronte all'altro.
«Se ti vuoi riposare, vengo
vicino a te. Vuoi appoggiare la testa su la mia spalla?»
«Non importa».
Si sentivano legati dai loro
sguardi, come dalle loro anime; che parevano pesanti.
Tutta la campagna correva,
correva troppo! Pareva a Pietro che lo sfuggisse e non lo volesse comprendere
più; anzi, lo disapprovasse. E allora aveva più bisogno d'amare Ghìsola.
Ma il giorno veniva meno come
la sua esaltazione: la mattina, nel sole chiaro, gli era parso che i vagoni
fossero per bruciare e fiammeggiare; ora, gli pareva, ad ogni stazione, che
avessero paura di restare negli altri binarii, tutti intrecciati, dritti e
curvi; che luccicavano una triste luce morta portandola con sé nell'oscurità
delle lontananze diafane. La campagna si cambiava come i suoi stati mentali; ma
non gli apparteneva.
A Poggibonsi, un treno,
allontanandosi, divenne a poco a poco più corto, finché non ne restò che
l'ultimo vagone visto di dietro; e non si sapeva più se stesse fermo o se
camminasse: come certe sue illusioni. I vagoni che andavano su e giù, trainati,
con le ruote che giravano con movimento eguale l'una dopo l'altra su le
medesime rotaie, e i vagoni di un treno merci verniciati di rosso, con le cifre
in bianco, sigillati, pazienti, lo fecero quasi piangere. Tutti scuotevano la
sua anima, la schiacciavano!
Egli si sentì proprio solo e
abbandonato e non si ricordò più di Ghìsola che, seduta dinanzi, lo guardava
con acuta curiosità; e allora i suoi occhi avevano una immobilità affascinante.
Quand'egli, dopo aver
sospirato, glieli vide così, esclamò:
«Oggi mi vuoi più bene!».
Ella lo fissò con disprezzo; ma
abbassò in fretta le palpebre, per nascondere lo sguardo: se le sentiva come
portare via dall'anima.
Il giovine, senza capire,
attese che parlasse lei, ora.
Allora Ghìsola lo fece sedere
accanto; e si tennero per mano.
La gente che saliva e scendeva
dal treno, i segnali delle stazioni le aumentavano la noia.
A Siena, ricusò di andare in
casa della zia.
«Ma perché non vuoi?»
«Vorrà sapere troppe cose da
me: io agli altri non voglio dir niente di me».
Ella ci riusciva a vivere come
voleva! La sentiva forte e indipendente. Ma per assicurarsi che non lo faceva
per nascondere qualche cosa, disse:
«Fai male: è la tua zia».
«Se andassi ad un albergo?»
«Vedendoti sola penserebbero
male di te».
«E tu non sai ch'io sono tua?».
E insisté con tono di voce
quasi infantile, con certe moine; battendogli il ventaglio sopra un braccio:
«Sì: accontentami. Vuoi fare
sempre a modo tuo. Non è vero che questa sera accontenterai la tua Ghìsola?».
Volevano decidersi, perché la
strada fino alla trattoria era corta e già faceva oscuro.
Videro, dietro la basilica di
San Francesco, una sfilata bassa di nuvole come il fuoco.
Qualcuno rallentava il passo
per guardarli meglio, e allora camminavano più in fretta.
Alla loro sinistra si scoprì
una parte di Siena, con la chiesa della Madonna di Provenzano. Tutte le case
sembravano troppo fitte.
Ambedue, senza accorgersene,
smisero di parlare. La Via Vallerozzi sembrava una scalinata di tetti larghi
fino all'antica rocca dei Salimbeni; il cui sprone era coperto dall'ombra nera
di un abete enorme. Di là da questa rocca, non si sa dove, la cima della Torre;
e, più discosto, la cupola della Madonna di Provenzano, quasi rinchiusa dentro
un'altra spianata di case. Mentre i tetti delle tre vie, che s'annodano insieme
a Porta Ovile, scendevano, pendendo tutti da una parte; come se le case non
potessero stare dritte. Un pezzetto d'una delle vie assomigliava a un baratro
pietroso; e una donna, ferma, vi sembrava rinchiusa.
Tutti quei tetti, ad angolo,
s'appiattivano; e alla casa più bassa, all'ultima, s'appoggiava tutta la fila
delle altre.
Pietro, interrompendo la
distrazione, la scosse per una mano e riprese:
«Scusami se non voglio... Ma
dài retta a me».
Ella s'impazientì e si fermò
un'altra volta.
«Ascoltami... ho pensato di
portarti a mangiare da mio padre. Io gli ho detto che andavo a Poggibonsi, dove
ho un amico; e gli inventerò che ti ho trovata in treno».
Ella aspettò che uno smettesse
di guardarla, e poi rispose:
«E crederà a noi?».
Già la curiosità dei passanti
li impacciava con molestia, con tedio penoso.
«Certamente!».
Ghìsola stette molto tempo a
testa bassa, non per riflettere, ma per sforzarsi a non pensare ad altro: e poi
rispose:
«Mi piace poco».
Tacquero perché si sentirono
vicini a bisticciare; poi egli, dopo uno di quei silenzi in cui si odono tutte
le cose, la prese a braccetto fino allo scalino della trattoria.
Domenico, quando li vide
entrare, salutò Ghìsola ma senza avvicinarsi; e credette lì per lì alla scusa
di Pietro; che del resto non aveva mentito mai.
Il marito di Rebecca, con un
piatto in mano, si fermò e le disse:
«A pena che avrò servito questi
signori, avvertirò la tua zia».
Ghìsola, vedendo come la
parente le potesse esser di pretesto per essere venuta a Siena, lo ringraziò.
Domenico, ch'era di buon umore,
dopo averla guardata sorridendo, così irriconoscibile da quando stava a Poggio
a' Meli, andò in cucina; e, come se si fosse trattato di avventori, ordinò a
voce alta da cena per Pietro e per lei. Ma disse anche per farsi intendere
subito:
«Questi non pagano!».
Ghìsola, disinvolta, si mise a
ridere; e le dispiacque solo per orgoglio che Domenico la trattasse per quel
che era; ma Pietro le fece rabbia. Non era punto furbo, e non contava proprio
niente in casa sua!
Per far vedere che non aveva
bisogno di mangiare in trattoria, non voleva sedersi a tavola; ma Pietro la
supplicò, sottovoce, di non insistere; e le disse che il giorno dopo le cose
sarebbero state chiarite.
Domenico, che veniva e andava
dalla cucina alla stanza dov'erano essi, con le mani in tasca e con la testa
bassa, senza guardarli mai, uscì e andò a sfogarsi dal suo amico droghiere: un
figliolo non doveva portarsi in casa le amanti, sia pure che facesse bene a
fare il comodo suo ora che era giovine. Ma il droghiere rise della sua collera
e gli disse che lo lasciasse divertire, giacché si trattava di una bella
ragazza.
Ghìsola, mangiando, non alzò
mai la testa; e pareva che avesse poco appetito. Ma Pietro le pestava
leggermente i piedi e le diceva qualche parola perché dissipasse il malumore.
Poi la lasciò nella trattoria a chiacchierare con la cugina Rosaura, accanto
alla dispensa, dov'era meno luce. E Ghìsola accompagnata da lei andò a trovare
la zia, raccontandole una filza di abili menzogne, con l'aria più ingenua che
ci fosse. Rebecca le disse:
«Per stasera, non ho da darti
da dormire qui. Dormirai con la tua cugina, se il padrone è contento».
Ghìsola ridiscese ed entrò
nella bottega, curiosa di vedere come sarebbe andata a finire!
Già era prossima la mezzanotte;
e le tavole della trattoria sparecchiate. I cuochi sonnecchiavano appoggiati al
ceppo del tagliere. I fornelli si spegnevano: come se anche la brace s'addormentasse.
Tutti i lumi abbassati; e la trattoria piena di quell'odore ripugnante di tante
vivande insieme.
In un corbello vicino
all'acquaio, le bucce della frutta e gli avanzi.
Improvvisamente la notte si
fece più oscura e piovve alcuni minuti: una di quelle pioggie che fanno notare
subito il nostro malumore, come quelle che ribollono l'immondizie ammucchiate
in mezzo ai campi.
A Ghìsola, presa dalla
stanchezza e dal sonno, parve che piovesse nella sua anima, ma non riesciva a
togliere tutte le cose che c'erano. Si sentiva soffocare lo stesso.
Qualche lampo, silenzioso,
s'accese tra le nuvole.
Allora, ella credette che
avrebbe risentito quella pioggia in qualche sogno. Evitava di pensarci, per
essere attenta a quel che accadeva intorno a lei e a quel che le dicevano.
Domenico, svegliatosi dal
canapè dove da qualche tempo dormiva almeno due ore prima d'andare a letto,
ordinò:
«Chiudete le porte».
Era evidente la sua
scontentezza; tanto che Rosaura non gli disse volentieri:
«Io salgo in casa a trovare le
lenzuola per Ghìsola».
Domenico non disse né sì né no;
e si volse dalla parte opposta quando Ghìsola passando rapidamente vicino a
lui, quasi provocandolo, lo salutò.
La camera di Rosaura era così
bassa che, stando sdraiati su uno di quei letti, si poteva toccare una trave.
Una finestra strettissima, nel muro più grosso di un metro, dava in una corte
angusta e umida anche d'estate.
Messe le lenzuola, Ghìsola
togliendosi la giacchetta domandò:
«Dove dorme Pietro?»
«Nella stanza solita di quando
era piccino. Ma vorresti andare a vederlo? Che braccia grosse tu hai!».
«Senti come sono ingrassata!».
Si fece pizzicare un fianco, e
poi andò.
Riconoscendo bene la casa, si
avanzò quasi a tastoni, attraversando la stanza d'ingresso e poi il salotto
meno buio perché c'era la luce elettrica della strada.
L'uscio della camera di Pietro
era aperto perché vi doveva passare Domenico per andare nella sua. Ella vide il
tavolino con i libri, il canterano con lo specchio che luccicava. E proseguì
verso il letto messo ad una parete: Pietro dormiva.
Allora si chinò e cominciò a
baciarlo su la bocca. Egli, senza finire di destarsi, sentì un brivido; ed
esclamò a voce alta:
«Sei tu, Ghìsola!».
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