8. Amore più potente
della morte, più potente del peccato
La croce di Cristo sul
Calvario è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di
Dio, verso colui che, unico fra tutti i figli degli
uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la
cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e dall'eredità del
peccato originale. Ed ecco, proprio in lui, in Cristo, viene
fatta giustizia del peccato a prezzo del suo sacrificio, della sua obbedienza
«fino alla morte». Colui che era senza peccato, «Dio
lo trattò da peccato in nostro favore». Viene anche fatta giustizia della morte
che, dagli inizi della storia dell'uomo, si era alleata
col peccato. Questo far giustizia della morte avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva - mediante la
propria morte - infliggere morte alla morte. In tal modo la croce di Cristo,
sulla quale il Figlio consostanziale al Padre rende piena giustizia a Dio, è
anche una rivelazione radicale della misericordia, ossia dell'amore che va
contro a ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell'uomo:
contro al peccato e alla morte. La croce è il più profondo chinarsi della
Divinità sull'uomo e su ciò che l'uomo - specialmente nei momenti difficili e
dolorosi - chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell'eterno
amore sulle ferite più dolorose dell'esistenza terrena dell'uomo, è il
compimento sino alla fine del programma messianico, che Cristo formulò una
volta nella sinagoga di Nazaret e ripeté poi dinanzi agli inviati di Giovanni
Battista. Secondo le parole scritte già nella profezia di Isaia,
tale programma consisteva nella rivelazione dell'amore misericordioso verso i
poveri, i sofferenti e i prigionieri, verso i non vedenti, gli oppressi e i
peccatori. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il
limite del molteplice male di cui l'uomo diventa partecipe nell'esistenza
terrena: la croce di Cristo infatti ci fa comprendere le più profonde radici
del male che affondano nel peccato e nella morte, e cosi diventa un segno
escatologico. Soltanto nel compimento escatologico e nel definitivo
rinnovamento del mondo, l'amore in tutti gli eletti vincerà
le sorgenti più profonde del male, portando quale frutto pienamente maturo il
Regno della vita e della santità e dell'immortalità gloriosa. Il fondamento di
tale compimento escatologico è già racchiuso nella croce di Cristo e nella sua
morte. Il fatto che Cristo «è risuscitato il terzo giorno»
costituisce il segno finale della missione messianica, segno che corona
l'intera rivelazione dell'amore misericordioso nel mondo soggetto al male.
Ciò costituisce al tempo stesso il segno che preannuncia
«un nuovo cielo e una nuova terra», quando Dio «tergerà ogni lacrima dai loro
occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le
cose di prima sono passate».
Nel compimento escatologico
la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella temporaneità, nella storia
umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve
rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il
programma messianico di Cristo - programma di misericordia - diviene il
programma del suo popolo, il programma della Chiesa. Al centro di questo sta
sempre la croce, poiché in essa la rivelazione
dell'amore misericordioso raggiunge il suo culmine. Fino a che «le cose di
prima» non passeranno, la croce rimarrà quel «luogo» al quale potrebbero riferirsi ancora altre parole dell'Apocalisse di
Giovanni: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi
apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. In modo
particolare, Dio rivela anche la sua misericordia quando sollecita l'uomo alla
«misericordia» verso il suo proprio Figlio, verso il
crocifisso. Cristo, appunto come crocifisso, è il
Verbo che non passa, è colui che sta alla porta e bussa al cuore di ogni uomo,
senza coartarne la libertà, ma cercando di trarre da questa stessa libertà
l'amore, che è non soltanto atto di solidarietà con il sofferente Figlio
dell'uomo, ma anche in certo modo «misericordia» manifestata da ognuno di noi
al Figlio dell'eterno Padre. In tutto questo programma messianico di Cristo, in
tutta la rivelazione della misericordia mediante la croce, potrebbe forse
essere maggiormente rispettata ed elevata la dignità dell'uomo, dato che egli, trovando misericordia, è anche, in un certo
senso, colui che contemporaneamente «manifesta la misericordia»?
In definitiva, Cristo non
prende forse tale posizione nei riguardi dell'uomo quando dice: «Ogni volta che
avete fatto queste cose a uno solo di questi...,
l'avete fatto a me»? Le parole del discorso della montagna: «Beati i
misericordiosi, perché troveranno misericordia», non costituiscono in un certo
senso una sintesi di tutta la Buona Novella, di tutto il «mirabile scambio»
(admirabile commercium) ivi racchiuso, che è una legge semplice, forte ed
insieme «dolce» dell'economia stessa della salvezza? Queste parole del discorso
della montagna, facendo vedere nel punto di partenza le possibilità del «cuore
umano» («essere misericordiosi»), non rivelano forse secondo la medesima prospettiva il profondo mistero di Dio: quella inscrutabile
unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in cui l'amore, contenendo
la giustizia, dà l'avvio alla misericordia, che a sua volta rivela la
perfezione della giustizia?
Il mistero pasquale è Cristo
al vertice della rivelazione dell'inscrutabile mistero di
Dio. Proprio allora si adempiono sino in fondo le parole pronunciate nel
cenacolo: «Chi ha visto me, ha visto il Padre». Infatti
Cristo, che il Padre «non ha risparmiato» in favore dell'uomo -e che nella sua
passione e nel supplizio della croce non ha trovato misericordia umana, nella
sua risurrezione ha rivelato la pienezza di quell'amore che il Padre nutre
verso di lui e, in lui, verso tutti gli uomini. «Non è un Dio dei morti, ma dei
viventi». Nella sua risurrezione Cristo ha rivelato il Dio dell'amore
misericordioso, proprio perché ha accettato la croce come via alla
risurrezione. Ed è per questo che - quando ricordiamo la
croce di Cristo, la sua passione e morte - la nostra fede e la nostra speranza
s'incentrano sul Risorto: su quel Cristo che «la sera di quello stesso giorno,
il primo dopo il sabato... si fermò in mezzo a loro» nel cenacolo «dove si
trovavano i discepoli, ...alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo;
a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li rimetterete,
resteranno non rimessi». Ecco il Figlio di Dio, che nella sua
risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l'amore del Padre che è più potente della morte. Ed è
anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine - e in certo senso già
oltre il termine - della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte
inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza nella
Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo
pasquale è l'incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente:
storicosalvifìco ed insieme escatologico. Nel medesimo spirito, la liturgia del
tempo pasquale pone sulle nostre labbra le parole del Salmo: Canterò in eterno
le misericordie del Signore.
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