IV. Vita interiore e vita attiva si richiamano a vicenda
Come l’amore di Dio si manifesta con gli atti
della vita interiore, così l’amore del prossimo si manifesta con le operazioni
della vita esteriore, e perciò, siccome l’amore di Dio e l’amore del prossimo
non possono essere separati, ne risulta che queste due forme di vita non
possono stare l’una senza dell’altra13.
Per questo, dice il Suarez, non vi può essere
uno stato correttamente e normalmente ordinato per giungere alla perfezione,
che non partecipi in una certa misura dell’azione e della contemplazione14.
L’illustre gesuita non fa che commentare
l’insegnamento di San Tommaso. Come aveva infatti già detto il Dottore
Angelico, coloro che sono chiamati alle opere della vita attiva, hanno torto di
credere che questo dovere li dispensi dalla vita contemplativa. Questo dovere
vi si aggiunge, senza diminuirne la necessità. Sicché le due vite, ben lungi
dall’escludersi, si richiamano a vicenda, si suppongono, si mescolano, si
completano; se poi ad una delle due va dato una ruolo preponderante, bisogna
darlo alla vita contemplativa, che è la più perfetta e la più necessaria.15
L’azione, per essere feconda, ha bisogno della
contemplazione. Questa, quando raggiunge un certo grado d’intensità, diffonde
su quella qualcosa della sua eccedenza, e mediante essa l’anima va direttamente
ad attingere nel cuore di Dio quelle grazie che l’azione poi distribuisce.
E’ per questo che, nell’anima di un santo,
l’azione e la contemplazione si fondono in una perfetta armonia che dà alla sua
vita una meravigliosa unità. Tale fu, per esempio, san Bernardo, l’uomo più
contemplativo e al tempo stesso più attivo del suo secolo. Di lui un
contemporaneo fece questo magnifico ritratto: la contemplazione e l’azione
s’accordavano fino al punto che appariva ad un tempo tutto dedito alle opere
esteriori eppure tutto assorbito dalla presenza e dall’amore di Dio.16
Commentando quel passo della Scrittura: «Ponimi
come un sigillo sul cuore e un altro sigillo sul braccio» (Ct. 8, 6), il padre
Saint-Jure commenta mirabilmente i rapporti fra la vita interiore e quella
attiva. Riassumiamo le sue riflessioni.
Il cuore significa la vita interiore,
contemplativa; il braccio quella esteriore, attiva.
Il testo scritturale nomina il cuore ed il
braccio per dimostrarci che le due vite possono unirsi ed accordarsi
perfettamente in una medesima persona.
Il cuore è nominato per primo, perché è un
organo ben più nobile e necessario del braccio. Analogamente la contemplazione
è più eccellente e più perfetta e merita maggiore stima che non l’azione.
Il cuore batte giorno e notte, e un solo istante
d’arresto di questo organo essenziale porterebbe immediatamente alla morte. Il
braccio invece non è che una parte integrante del corpo umano e si muove solo a
periodi. Questo c’insegna che dobbiamo talvolta concedere un po’ di tregua alle
nostre occupazioni esteriori, ma al contrario non dobbiamo mai cessare
dall’applicarci alle cose spirituali.
Come è il cuore che dà la vita al braccio
mediante il sangue che gli manda e senza il quale questo membro resterebbe
paralizzato, così la vita contemplativa – che è vita d’unione con Dio, in
grazia dei lumi e della perpetua assistenza che l’anima riceve da questa intimità
– vivifica le opere esteriori ed è l’unica capace di comunicare ad esse,
insieme al carattere soprannaturale, una reale utilità. Senza di questa vita,
tutto è languido, sterile e pieno d’imperfezioni.
Ma, ahimé, troppo spesso l’uomo separa quel che
Iddio ha unito; sicché questa perfetta unione è davvero rara. Del resto essa
esige, per essere realizzata, un complesso di precauzioni spesso trascurate.
Non intraprendere nulla di superiore alle proprie forze; vedere in tutto
abitualmente ma semplicemente la volontà di Dio; non impegnarsi nelle opere se
non quando Dio lo vuole e nella misura esatta in cui lo vuole, e col desiderio
d’esercitare la carità; offrirgli fin da principio il nostro lavoro e durante
l’azione ravvivare la nostra risoluzione di lavorare soltanto per Lui e
mediante Lui, usando santi pensieri e ardenti giaculatorie; infine, qualunque
sia l’attenzione che noi dobbiamo portare alle nostre occupazioni, mantenerci
sempre nella pace, perfettamente padroni di noi stessi; in quanto alla riuscita,
affidarsi unicamente a Dio e non desiderare di essere liberati da ogni cura se
non per ritrovarci soli con Cristo. Ecco i sapientissimi consigli dei maestri
di vita spirituale per giunge a questa unione.
Questa costanza della vita interiore, unita nel
santo abate di Chiaravalle ad un attivissimo apostolato, aveva profondamente
colpito San Francesco di Sales, che scriveva: «San Bernardo nulla perdeva del
progresso che voleva fare nel santo amore. (...) Cambiava di luogo ma non
cambiava di cuore, né il suo cuore cambiava di amore, né il suo amore cambiava
oggetto. (...) Non subiva il colore degli affari e delle conversazioni, come fa
il camaleonte, che prende il colore del luogo in cui si trova, ma restava
sempre unito a Dio, sempre bianco di purezza, sempre vermiglio di carità,
sempre pieno di umiltà».17
Qualche volta le occupazioni si moltiplicheranno
tanto da imporci di spendervi tutte le nostre energie, senza che possiamo in
alcun modo liberarci da tale peso e nemmeno alleggerirlo. Conseguenza di questo
stato potrà essere la privazione, per un tempo più o meno lungo, del godimento
dell’unione a Dio, ma questa unione non ne soffrirà se non in quanto noi lo
permettiamo. Se tale stato si prolungherà, bisognerà soffrirne, gemerne e
soprattutto temere di abituarcisi. L’uomo è debole e incostante; se trascura la
vita spirituale, ne perde ben presto il gusto; assorbito dalle occupazioni
materiali, finisce col compiacersene. Se invece lo spirito interiore esprime la
sua latente vitalità con gemiti e sospiri, questi lamenti continui, provenienti
da una ferita che non si chiude neppure in mezzo ad un’attività assorbente,
costituiscono il merito della contemplazione sacrificata; o meglio, l’anima
realizza l’ammirabile e feconda unione tra vita interiore e vita attiva.
Incalzata da questa sete della vita interiore che non può soddisfare a suo
agio, l’anima ritorna con ardore alla vita di orazione appena le è possibile.
Il Signore le riserva sempre alcuni istanti di conversazione. Vuole però che
l’anima vi sia fedele e le concede di compensare con il fervore la brevità di
questi momenti felici.
In un testo di cui ogni parola va attentamente
meditata, san Tommaso riassume mirabilmente questa dottrina: «Di per se, la
vita contemplativa è più meritoria della vita attiva. Può tuttavia accadere che
un uomo, nel compiere un atto esteriore, meriti di più di un altro dedito alla
contemplazione: per esempio, quando a causa della sovrabbondanza dell’amore per
Dio, per compiere la sua volontà e quindi glorificarlo, uno sopporta talvolta
di restare privo della dolcezza della divina contemplazione per un certo
tempo».18
Si noti l’abbondanza delle condizioni che il
santo dottore suppone perché l’azione diventi più meritoria della
contemplazione.
L’intimo movente che spinge l’anima all’azione
non è altro che la sovrabbondanza della sua carità, «propter abundantiam divini
amoris». Perciò non si tratta di agitazione, né di capriccio e neppure di
bisogno di uscire da se stessa. Difatti l’anima ne prova sofferenza
(«sustinet») per essere privata delle dolcezze della vita di orazione
(«a dulcedine divinae contemplationis separari»)19.
Perciò essa sacrifica solo provvisoriamente («Accidere... interdum... ad
tempus») e per un fine del tutto soprannaturale («ut Ejus voluntas impleatur
propter Ipsius gloriam») una parte del tempo riservato all’orazione.
Di quanta sapienza e bontà sono segnate le vie
di Dio! Quale meravigliosa direzione Egli dà all’anima con la vita interiore!
Conservandosi in mezzo all’azione e pertanto offrendosi generosamente, questa
pena profonda di dover consacrare tanto tempo alle opere di Dio e così poco al
Dio delle opere, trova il suo risarcimento. Infatti, in virtù di questa vita,
scompaiono tutti i pericoli di dissipazione, di amor proprio e di affetti
umani. Ben lungi dal nuocere alla libertà di spirito e all’attività, tale
disposizione d’animo comunica ad esse un carattere più riflessivo. Essa è la
forma pratica dell’esercizio della presenza di Dio, perché, nella grazia del
momento presente, l’anima trova Gesù vivo che a lei si dona, nascosto sotto il
dovere che deve compiere: Gesù lavora con lei e la sostiene. Quante persone
assorbite dalle occupazioni dovranno a questa pena salutare ben compresa, a
questo desiderio sacrificato ma custodito, il vantaggio di aver più tempo per
stare presso il Tabernacolo e fare comunioni spirituali quasi continue,
dovranno, dico, la fecondità della loro azione e nello stesso tempo la
sicurezza della loro anima e il progresso nella virtù.
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