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I. Le opere di apostolato, mezzo di santità per le anime di
vita interiore, divengono per le altre un pericolo per la loro salvezza
1. Mezzo di
santità
Alle anime che Egli associa al suo apostolato,
il Signore domanda formalmente che non solo si conservino nella virtù ma vi
progrediscano. Lo provano le lettere di San Paolo a Tito e a Timoteo e le
esortazioni dell’Apocalisse ai Vescovi dell’Asia.
D’altra parte, fin da principio abbiamo
accertato che le opere sono volute da Dio.
Vedere perciò nelle opere, in quanto tali, un
ostacolo alla santificazione, ed affermare che, pur emanando dalla divina
volontà, esse rallenteranno inevitabilmente il cammino verso la perfezione,
sarebbe un’ingiuria ed una bestemmia contro la Sapienza, la Bontà e la
Provvidenza divine.
Non si può sfuggire a questo dilemma. O
l’apostolato, sotto qualunque forma si presenti, se è voluto da Dio, non solo
non produce di suo l’effetto di alterare l’atmosfera di solida virtù in cui deve
trovarsi un’anima sollecita della sua salvezza e del suo progresso spirituale,
ma anzi costituisce sempre per l’apostolo un mezzo di santificazione, qualora
lo eserciti nelle debite condizioni. Oppure la persona scelta da Dio come
cooperatrice, e perciò tenuta a rispondere alla divina chiamata, avrebbe il
diritto di addurre l’attività, le fatiche e le preoccupazioni spese a favore
dell’azione imposta, come legittime scusanti della sua negligenza nel
santificarsi.
Ora, in conseguenza dell’economia e del disegno
divini, Dio, per riguardo a se stesso, deve concedere all’apostolo che ha
eletto le grazie necessarie per realizzare l’unione delle occupazioni
assorbenti non solo con la sicurezza della sua salute, ma anche con l’acquisto
delle virtù fino alla santità.
Gli aiuti che Egli concesse a un Bernardo, a un
Francesco Saverio, è tenuto a concederli nella misura necessaria al più modesto
operaio evangelico, al più umile religioso insegnante, alla più ignota suora
ospedaliera. Questo è un vero e proprio debito del cuore di Dio verso lo
strumento che si è scelto: non abbiamo timore a dirlo. Ed ogni apostolo che
soddisfi alle condizioni richieste, deve avere un’assoluta fiducia nel suo
rigoroso diritto a ricevere grazie necessarie a un genere di occupazioni che
gli concedono come un’ipoteca sull’immenso tesoro di quegli aiuti divini.
«Chi si occupa delle opere di carità – dice
Alvarez De Paz – non deve pensare ch’esse gli precludano la via alla
contemplazione e lo rendano meno capace di potervisi dedicare. Deve invece star
ben sicuro che ve lo dispongono in modo mirabile. Questa verità non ce la
insegnano solo la ragione e l’autorità dei Padri, ma anche la nostra esperienza
quotidiana. Vediamo infatti anime dedite alle opere di carità verso il prossimo
– confessando, predicando, insegnando il catechismo, visitando gli ammalati,
eccetera – le quali sono elevate da Dio a un così alto grado di contemplazione,
da poter a buon diritto essere paragonate agli antichi anacoreti»1.
Con le parole «grado di contemplazione»,
l’eminente gesuita, come del resto tutti i maestri di vita spirituale, designa
il dono dello spirito di orazione che caratterizza la sovrabbondanza della
carità in un’anima.
I sacrifici richiesti dall’azione attingono
dalla gloria di Dio e dalla santificazione delle anime un tale valore
soprannaturale, una tale fecondità di meriti, che l’uomo votato alla vita
attiva, se lo vuole, può ogni giorno elevarsi di un grado nella carità e
nell’unione con Dio, in una parola, nella santità.
Indubbiamente in alcuni casi, in cui c’è
pericolo grave e prossimo di peccato formale, particolarmente contro la fede e
la purezza, Dio vuole che ci si allontani dalle opere. A parte questi casi,
però, Egli dà ai suoi operai, mediante la vita interiore, il mezzo d’immunizzarsi
e di progredire nella virtù.
Individuiamo dunque in cosa consiste tale
progresso. Ci aiuterà a precisare il nostro pensiero una frase paradossale di
S. Teresa, così saggia e spirituale: «Dacché sono Priora, carica di numerose
occupazioni e obbligata a frequenti viaggi, commetto molte più mancanze.
Ciononostante, siccome combatto generosamente e non mi prodigo che per amor di
Dio, sento che mi avvicino a Lui sempre di più». La sua debolezza si manifesta
con maggior frequenza che nel riposo e nel silenzio del chiostro: la Santa lo
constata ma non se ne turba. La generosità del tutto soprannaturale della sua
dedizione e gli sforzi più accentuati di prima per la lotta spirituale, le
forniscono in compenso occasioni di vittorie che controbilanciano largamente le
sorprese d’una fragilità ch’esisteva anche prima, sebbene allo stato latente.
Afferma S. Giovanni della Croce che la nostra
unione con Dio sta tutta nell’unione della nostra volontà con la sua e solo da
questa è misurata. Invece di vedere, per un falso concetto della spiritualità,
la possibilità di progredire nell’unione con Dio solo nella tranquillità e
nella solitudine, Santa Teresa giudica per contro che proprio l’attività
imposta veramente da Dio ed esercitata nelle condizioni da Lui volute,
alimentando il suo spirito di sacrificio, la sua umiltà, la sua abnegazione, il
suo ardore e la sua dedizione per il regno di Dio, veniva ad accrescere
l’unione intima dell’anima col Signore, che viveva in lei e animava le sue
azioni, per incamminarla così verso la santità.
Infatti, la santità consiste principalmente
nella carità, e un’opera di apostolato, degna di tal nome, è carità in atto.
«Probatio amoris exhibitio est operis», scrisse san Gregorio Magno: l’amore lo si
prova con le opere di abnegazione e Dio esige dai suoi operai questa prova di
generosità.
La forma di carità che il Signore richiede
all’apostolo come prova della sincerità delle reiterate testimonianze del suo
amore è questa: «Pasci i miei agnelli, pasci le mie pecorelle».
San Francesco d’Assisi credeva di non poter
essere amico di Gesù Cristo, se la sua carità non si dedicava salute delle
anime: «Non se amicum Chisti reputabat, nisi animas foveret quas ille redemit»2.
E se Nostro Signore considera come fatte a lui
stesso le opere di misericordia, anche corporali, ciò vuol dire ch’Egli vede in
ognuna di queste un’irradiazione di quella medesima carità (Mt. 25, 40) che
anima il missionario o sostiene l’anacoreta nelle sue privazioni, nelle lotte e
nelle preghiere del deserto.
La vita attiva si dedica alle opere di
abnegazione. Essa marcia per i sentieri del sacrificio alla sequela di Gesù
operaio, pastore, missionario, taumaturgo, medico universale, provveditore
tenero ed infaticabile per tutti i bisogni di quaggiù.
La vita attiva ricorda e vive di quelle parole
del Maestro Divino: «Io sono in mezzo a voi come un servo» (Lc. 23, 27). «Il
Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito ma per servire» (Mt. 20, 28).
Essa va per i sentieri dell’umana miseria
annunciando la parola che illumina, spandendo attorno una messe di grazie che
fioriscono in benefici d’ogni genere.
In virtù dei lumi della sua fede illuminata e
delle intuizioni del suo amore, nel peggiore dei miserabili, nel più meschino dei
sofferenti, essa scopre il Dio nudo, gemente, disprezzato da tutti, il grande
lebbroso, il misterioso condannato che la giustizia eterna perseguita ed
atterra sotto i suoi colpi, l’uomo dei dolori che Isaia vide innalzarsi nello
spaventoso sfarzo delle sue piaghe, nella tragica porpora del suo sangue,
talmente disfatto e devastato dai chiodi e dai flagelli, che si contorceva come
un verme calpestato.
L’abbiamo dunque visto, esclama il profeta, ma
non l’abbiamo riconosciuto! (Is. 53, 2-5)
«Ma tu, o vita attiva, tu lo riconosci bene e,
con le ginocchia piegate a terra, con gli occhi pieni di pianto, lo servi nella
persona dei poveri.
«La vita attiva migliora l’umanità; fecondando
il mondo con le sue generosità, le sue azioni ed i suoi sudori, essa getta nel
cielo il seme dei suoi meriti.
«Vita santa che Dio ricompensa, perché Egli dà
il Paradiso tanto per il bicchiere d’acqua dato al povero, quanto per gli
scritti del dottore e per i sudori dell’apostolo. E nell’ultimo giorno, davanti
alla terra ed al cielo, canonizzerà tutte le opere di carità»3.
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