II. L’uomo d’azione senza la vita interiore
Lo si può caratterizzare con questa frase: se
non è ancora tiepido, sta fatalmente diventandolo. Orbene, esser tiepido –
parliamo di una tiepidezza non di sentimento o di fragilità, ma di volontà –
significa venire a patti con la dissipazione e la negligenza abitualmente
acconsetite o non combattute, significa patteggiare col peccato veniale
deliberato e, allo stesso tempo, togliere all’anima la sicurezza dell’eterna
salvezza, disponendola al peccato mortale ed anzi conducendovela6.
Questa è la dottrina di sant’Alfonso sulla tiepidezza, così bene illustrata dal
suo discepolo il Padre Desurmont.
Ebbene, in qual modo l’uomo di azione, privo di
vita interiore, scivola necessariamente nella tiepidezza? Sì, necessariamente:
per provarlo bastano le parole di un vescovo missionario ai suoi sacerdoti, parole
tanto più tremendamente vere, in quanto uscite da un cuore divorato dallo zelo
per le opere e da uno spirito le cui tendenze erano diametralmente opposte a
tutto ciò che rassomiglia al quietismo.
«Bisogna esserne ben persuasi – diceva il
cardinale Lavigerie – Per un apostolo non vi è via di mezzo tra la sua santità
compiuta, o almeno desiderata e perseguita con fedeltà e coraggio, e la
perversione assoluta».
Ricordiamoci innanzitutto del germe di
corruzione che la concupiscenza mantiene nella nostra natura, della guerra
senza quartiere che ci fanno i nostri nemici interni ed esterni, dei pericoli
che ci minacciano da ogni parte. Cerchiamo poi d’immaginare quel che avviene in
un’anima che si dà all’apostolato senza premunirsi abbastanza contro i suoi
pericoli.
Un tale sente nascere in sé il desiderio di
dedicarsi alle opere, ma non ha alcuna esperienza. La sua brama di apostolo ci
permette di credere che abbia ardore e una certa foga nel carattere,
d’immaginarcelo entusiasta per l’azione e forse anche per la lotta. Lo
supponiamo retto nella sua condotta, pio ed anche devoto, ma di una pietà più
di sentimento che di volontà, di una devozione che non è riflesso di un’anima
risoluta a non cercare altro che il beneplacito di Dio, ma è una pia pratica, dovuta
a lodevoli abitudini. La meditazione, se ancora la pratica, non è che una sorta
di fantasticheria, le letture spirituali non sono che un esercizio di curiosità
privo di reale influenza sulla sua condotta. Può anche darsi che Satana lo
induca a gustare – con l’illusione d’un senso artistico che la povera anima
scambia per vita interiore – le letture che trattano le vie elevate e
straordinarie dell’unione con Dio, ammirandole con entusiasmo. Ma in realtà ben
poco, per non dir nulla, c’è di vita spirituale in quest’anima alla quale,
concediamolo pure, rimangono numerose buone abitudini, molte qualità naturali e
un certo desiderio sincero, ma troppo vago, di rimanere fedele a Dio.
Ed ecco il nostro apostolo che si dedica a
questo ministero nuovo per lui, pieno del desiderio di lavorare alle opere. Ma
ben presto, in forza delle stesse circostanze nate da queste nuove occupazioni
(e lo sanno bene le persone abituate alle opere) sorgono mille occasioni per
farlo vivere sempre più fuori di se stesso, mille allettamenti per la sua
ingenua curiosità, mille occasioni di cadute, dalle quali possiamo credere che
fino ad allora era stato protetto dall’atmosfera tranquilla del focolare
domestico, del seminario, della comunità, del noviziato, o almeno la vigilanza
di una saggia guida.
Non soltanto la crescente dissipazione o la
pericolosa curiosità di tutto conoscere, le impazienze o le suscettibilità, la
vanità o la gelosia, la presunzione o l’abbattimento, la parzialità o la
denigrazione, ma anche il progressivo avanzamento delle debolezze del cuore e
di tutte le forme più o meno sottili della sensualità, costringeranno ad una
lotta senza tregua quest’anima mal preparata a così duri e continui assalti.
Perciò frequenti saranno le ferite.
Ma penserà almeno a resistere, quest’anima dalla
pietà superficiale, mentre è tutta assorbita dalla soddisfazione già troppo
naturale di spendere la sua attività e i suoi talenti per una eccellente causa?
Satana poi è sempre in agguato, fiuta già la preda e, lungi dal contrariare
tale soddisfazione, l’eccita con tutta sua forza.
Arriva pertanto un giorno in cui si intravede il
pericolo: l’angelo custode ha parlato e la coscienza reclama. Bisognerebbe
tornare padroni di sé, esaminarsi nella calma di un ritiro spirituale, prendere
la risoluzione di attenersi rigorosamente ad un regolamento, che non va
tralasciato mai, anche a costo di trascurare per questo certe occupazioni che
s’erano prese a cuore. Ma ahimé, ormai è troppo tardi! L’anima, che ha già
assaporato il piacere di vedere coronati i suoi sforzi dai più incoraggianti
successi, esclama sempre: «domani, domani! Oggi è impossibile: manca il tempo,
perché debbo continuare quella serie di discorsi, scrivere questo articolo,
organizzare quel sindacato o quell’associazione di carità, preparare quella
rappresentazione teatrale, fare quel viaggio, sbrigare la mia corrispondenza,
eccetera».
Com’è lieta quest’anima di potersi giustificare
con tali pretesti! Il fatto è che il solo pensiero di confrontarsi con la
propria coscienza le è divenuto insopportabile. E’ giunto il momento in cui il
diavolo può lavorare con piena facilità alla rovina di un cuore che si fa così
volentieri suo complice. Il terreno è pronto per questo: l’azione era divenuta
per la sua vittima una passione e il diavolo la rende febbricitante.
Dimenticare il tumulto degli affari per raccogliersi, le pareva già una cosa
insopportabile; il demonio gliene ispira l’orrore, e per giunta non manca
d’inebriare quell’anima con nuovi progetti ch’egli abilmente maschera col
pretesto della gloria di Dio e del maggior bene delle anime.
Ed ecco che quest’uomo, fino a poco tempo fa
pieno di abitudini virtuose, passando da debolezza a debolezza sempre più
grave, arriva a porre il piede su un pendio ch’è troppo sdrucciolevole per
potersi fermare nella caduta. Ma l’infelice, pur avendo una vaga coscienza che
tutta la sua agitazione non è secondo il cuore di Dio, per soffocare i rimorsi,
si slancia nel turbine con la massima passione. Le mancanze si accumulano
fatalmente e ciò che altre volte turbava la retta coscienza di quest’anima, ora
non è più che un vano e spregevole scrupolo. Volentieri essa proclama che
bisogna saper esser del proprio tempo e lottare coi nemici ad armi pari; per
questo esalta le «virtù attive», dimostrando solo disprezzo per quella che essa
chiama sdegnosamente «pietà d’altri tempi». D’altra parte, le sue opere
prosperano più che mai, il pubblico le ammira, ogni giorno vede spuntare nuovi
successi. «Dio benedice la mia opera», esclama l’anima illusa, sulla quale
forse piangeranno domani gli angeli del cielo per le sue gravi colpe.
Come mai quest’anima è caduta in uno stato così
deplorevole? Con l’inesperienza, la presunzione, la vanità, l’imprevidenza e la
viltà. Essa si è lanciata avventurosamente tra i pericoli, senza valutare le
sue scarse risorse spirituali. Una volta esaurite le riserve della vita
interiore, si è trovata nella situazione del navigante temerario che non ha più
forza di lottare contro corrente e si lascia trascinare verso l’abisso.
Fermiamoci dunque un momento per misurare da
vicino la china percorsa e la profondità dell’abisso. Procediamo con ordine e
numeriamo le tappe.
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