Quarta tappa
Tutto si concatena: l’abisso chiama l’abisso. I
Sacramenti! Essi vengono ancora ricevuti e amministrati con rispetto, senza
dubbio, ma non si sente più palpitare la vita che contengono. La presenza di
Gesù Cristo nel tabernacolo o nel sacro tribunale della Confessione non è più
capace di far vibrare le corde della fede fino al midollo dell’anima. La Messa
stessa, che è il sacrificio del Calvario, è come un giardino isolato. L’anima
certamente è ancor lontana dal sacrilegio, vogliamo crederlo, ma non sente più
il calore del sangue divino. Le sue consacrazioni sono fredde e le sue
comunioni tiepide, distratte, superficiali: già l’insidiano la familiarità
irrispettosa, l’abitudine e forse il disgusto.
L’apostolo così deformato vive fuori di Gesù e
non è più favorito da quelle parole intime che Egli vuol dire solo ai suoi veri
amici. Di tanto in tanto, tuttavia, l’Amico celeste gl’invia un rimorso, una
luce, un richiamo: «vieni a me, povera anima ferita, vieni, ché io ti guarirò»
– «Venite ad me omnes et ego reficiam vos» (Mt. 11, 28) – perché io sono la tua
salute – «Salus tua ego sum» (Ps. 34) – «sono venuto a salvare ciò che era
perduto»: «Venit Filius hominis quaerere et salvum facere quod perierat» (Lc.
19, 10). Questa voce tanto dolce, tenera, discreta e premurosa, procura momenti
di emozione, velleità di migliorare; ma siccome la porta del cuore viene appena
socchiusa, Gesù non può entrare, e questi buoni movimenti dell’anima rimangono
senza effetto. La grazia passa invano e finisce col ritorcersi contro l’anima
stessa. Può darsi pure che Gesù, nella sua misericordia, per non ammassare
cumuli di collera, cessi dal parlare: «Temi Gesù che passa ma più non torna»
(S. Agostino).
Ma andiamo avanti e penetriamo nell’intimo di
quest’anima di cui stiamo facendo il ritratto.
Il ruolo dei pensieri è preponderante nella vita
soprannaturale, come lo è per quella intellettuale e morale. Ma quali sono i
pensieri che occupano quest’anima, e a quale corrente obbediscono? Umani,
terreni, vani, superficiali ed egoistici, questi pensieri convergono sempre più
verso l’io o verso le creature, spesso presentandosi con apparenze di
abnegazione e di sacrificio.
A questo disordine nell’intelligenza corrisponde
il disordine nell’immaginazione. Nessuna potenza dell’anima va repressa quanto
questa; eppure qui non si pensa nemmeno di frenarla. Sicché, a briglia sciolta,
essa corre come una pazza verso tutti i traviamenti, tutte le follie. La
progressiva soppressione della mortificazione degli occhi permette alla «pazza di
casa» di trovare un po’ dovunque abbondante pascolo.
Il disordine segue il suo corso:
dall’intelligenza e dall’immaginazione discende negli affetti. Il cuore si
pasce ormai solo d’illusioni. Cosa diventerà questo cuore dissipato che non si
preoccupa quasi più del Regno di Dio in lui e che è divenuto insensibile
agl’intimi colloqui con Gesù, alla sublime poesia dei misteri, alle austere
bellezze della liturgia, agli appelli ed alle attrattive del Dio Eucaristico,
che è insomma diventato insensibile agli influssi del mondo soprannaturale? Si
chiuderà in se stesso? Ma questo sarebbe un suicidio. No: egli ha bisogno di
affetto. Perciò, non trovando più felicità in Dio, amerà le creature. Rimane in
balìa della prima occasione e vi si getta imprudentemente, perdutamente, forse
senza preoccuparsi più dei voti più sacri, né del maggior bene della Chiesa e
nemmeno della propria reputazione. Forse la prospettiva dell’apostasia lo
sgomenta ancora, e profondamente, ma lo scandalo delle anime lo spaventa sempre
meno.
Grazie a Dio, l’andare così fino in fondo è per
certo una rara eccezione. Ma come non capire che il disgusto di Dio e il
cedimento ai piaceri proibiti può portare il cuore alle peggiori sciagure?
Dall’ «uomo animale» che «non comprende le cose dello Spirito divino»
(1 Cor. 2, 14), si scende necessariamente al livello di «coloro che erano
stati allevati nella porpora ma ora sguazzano nello sterco» (Ger., Lam.,
4, 5). L’ostinata illusione, l’accecamento della mente, l’indurimento del cuore
vanno progredendo, e ci si può attendere di tutto.
Per colmo di sventura, benché non sia ancora
distrutta, la volontà è ridotta ad uno stato d’indebolimento e di mollezza che
equivale quasi all’impotenza. Se gli domandate, non dico di reagire
energicamente, il che sarebbe inutile, ma solo di tentare un misero sforzo, non
otterrete che questa scoraggiante risposta: «Non posso». Ora, non essere più
capace di uno sforzo, significa incaminarsi verso le peggiori catastrofi.
Un noto empio osò dire che non poteva credere
alla fedeltà ai voti e agli obblighi monastici in certe anime immischiate, per
la loro azione, nella vita del secolo. «Esse camminano su una corda tesa –
diceva – e le loro cadute sono inevitabili.» A questa ingiuria a Dio ed alla
Chiesa, bisogna rispondere senza esitare che tali cadute si evitano sicuramente
se si sa ben adoperare il prezioso bilanciere della vita interiore, e che solo
all’abbandono di questo mezzo infallibile vanno attribuite le vertigini e i
passi falsi e scandalosi verso il precipizio.
L’ammirevole gesuita padre Lallemant risale alla
causa originale di questa catastrofe quando dice: «Molti uomini apostolici non
fanno nulla unicamente per Dio. In tutto essi cercano se stessi e, anche nelle
migliori imprese, mescolano sempre segretamente il loro interesse con la gloria
di Dio. Passano così la vita in una mescolanza di natura e di grazia. Alla fine
viene la morte e solo allora aprono gli occhi, vedendo la loro illusione e
tremando all’avvicinarsi del temibile giudizio di Dio»7.
Tra gli apostoli che predicano se stessi, sono
certo ben lungi dall’annoverare quello zelante e potente missionario che fu il
celebre padre Combalot. Non sarà tuttavia fuori luogo citare le parole ch’egli
disse in punto di morte. Il sacerdote che gli aveva amministrato l’estrema
unzione gli andava dicendo:
«Abbiate fiducia, caro amico! Avete mantenuta
integra la vostra vita di sacerdote, e le vostre migliaia di prediche vi
scuseranno davanti a Dio della insufficienza di vita interiore che lamentate».
Il moribondo rispose: «Le mie prediche? Ahimé, sotto qual luce ora le valuto!
Se non sarà il Signore a parlarmene, non sarò certo io a farlo!». Al lume
dell’eternità, quel venerando sacerdote vedeva, nelle sue migliori opere di
zelo, delle imperfezioni che allarmavano la sua coscienza perché le attribuiva
a manchevolezza della sua vita interiore.
Il cardinale Du Perron, al momento della morte,
esprimeva il pentimento per essersi dedicato nella sua vita più a perferzionare
l’intelligenza con gli studi scientifici che non la volontà con gli esercizi
della vita interiore.
O Gesù, Apostolo per eccellenza, chi mai si è
prodigato come Voi quando abitavate fra gli uomini? Oggi Vi donate ancora più
abbondantemente con la vostra vita eucaristica; tuttavia non abbandonate mai il
seno del vostro Padre! Fate che noi non dimentichiamo mai che Voi non vorrete
considerare le nostre opere, se non sono animate da un principio veramente
soprannaturale e se non sono radicate nel vostro Cuore adorabile!
|