5. La vita
interiore affina nell’apostolo la rettitudine d’intenzione
L’uomo di fede giudica l’azione sotto una luce
ben diversa da chi vive esteriormente. Più che l’aspetto appariscente, egli ne comprende
il ruolo che svolge nel piano divino e i risultati soprannaturali.
Così pure, considerando se stesso come un
semplice strumento, egli ha tanto più in orrore ogni compiacenza delle sue
proprie capacità, quanto più fonda la speranza della sua riuscita nella
persuasione della propria impotenza e sulla confidenza in Dio solo.
Egli si radica in tal modo nello stato
d’abbandono. Nel mezzo delle difficoltà, quale differenza tra il suo
atteggiamento e quello dell’apostolo che non conosce l’intimità con Gesù!
Nondimeno, questo abbandono non diminuisce
affatto il suo ardore per l’impresa. Egli agisce come se il successo dipendesse
unicamente dalla propria attività, tuttavia non l’aspetta che da Dio solo (S.
Ignazio). Non prova perciò nessuna pena a subordinare tutti i suoi progetti e
le sue speranze ai segni incomprensibili di quel Dio, che spesso fa servire al
bene delle anime i rovesci meglio ancora dei trionfi.
Pertanto quest’anima si trova in uno stato di
santa indifferenza all’insuccesso come alla riuscita. Essa è sempre pronta a
dirvi: «Mio Dio, Voi non volete che l’opera incominciata giunga a compimento.
Preferite che io mi limiti ad agire generosamente, ma sempre in pace, e a
sforzarmi per ottenere il risultato, riservando solo a Voi la cura di decidere
se il successo Vi procurerà maggior gloria che un mio atto di virtù derivato
dall’accettare un fallimento. Sia mille volte benedetta la vostra santa e
adorabile volontà! Con l’aiuto della vostra grazia, fate che io sappia
reprimere i più piccoli sintomi di vana compiacenza, quando Voi benedite i miei
disegni, e fate che sappia umiliarmi e adorarvi, quando la vostra Provvidenza
giudica bene annientare il frutto delle mie fatiche».
In verità, il cuore dell’apostolo sanguina nel
vedere le tribolazioni della Chiesa; ma non c’è nulla di comune tra il suo modo
di patire e quello dell’uomo che non è animato da spirito soprannaturale. Al
momento in cui sopraggiungono le difficoltà, lo dimostrano il contegno e
l’attività febbrile di costui, le sue impazienze ed il suo abbattimento, la sua
disperazione e talvolta il suo annientamento di fronte a rovine irreparabili.
Il vero apostolo invece utilizza tutto, trionfi e rovesci, per accrescere la
sua speranza e dilatare la sua anima nel fiducioso abbandono alla Provvidenza.
Nessun particolare del suo apostolato che non diventi occasione per un atto di
fede. Nessun istante del suo perseverante lavoro che non sia occasione per dar
prova della sua carità, perché, con l’esercizio della custodia del cuore,
giunge a compiere tutto con una purezza d’intenzione sempre più perfetta, e con
l’abbandono rende il suo ministero sempre più impersonale.
Così, ogni sua azione s’impregna sempre più dei
caratteri della santità; mescolato all’inizio a tante imperfezioni, il suo
amore per le anime, purificandosi sempre più, finisce col non vedere in esse
che Gesù, col non amarle che in Gesù; e così, per mezzo di Gesù, le genera a
Dio: «o figli miei, per i quali io continuo a soffrire i dolori del parto,
finché non avrò formato in voi il Cristo» (Gal. IV, 19).
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