La vita interiore è condizione della fecondità delle opere
Facendo astrazione da quella ragione di fecondità
che i teologi chiamano ex opere operato, consideriamo qui soltanto
quella che risulta ex opere operantis. Ricordiamo che, se l’apostolo
realizza il detto evangelico: «Se uno rimane in me e io in lui...», la
fecondità della sua azione voluta da Dio è assicurata: «...costui porta molti
frutti» (Gv. 15, 5). Questo testo è di una tale evidenza logica che è
superfluo, dopo questa Autorità, provare la tesi; ci limitiamo pertanto a
confermarla con alcuni fatti.
Per più di trent’anni ho potuto seguire da
lontano le vicende di due orfanotrofi femminili tenuti da Congregazioni
diverse. Entrambi subirono un periodo di manifesto decadimento. Perché
nasconderlo? Su sedici orfanelle ricoverate nelle medesime condizioni e che
avevano lasciato l’istituto appena giunte alla maggiore età, tre che erano
uscite dalla prima casa e due dall’altra, in un tempo da otto a quindici mesi
erano passate dalla Comunione frequente allo stato più degradante della scala
sociale; delle altre undici solo una rimase profondamente cristiana. Eppure,
alla loro uscita, avevano tutte trovato una conveniente collocazione.
In uno di questi orfanotrofi, undici anni fa, la
superiora venne cambiata. Dopo appena sei mesi, si poteva già constatare una
profonda trasformazione nello spirito dell’istituto.
La stessa trasformazione fu osservata tre anni
dopo nell’altro orfanotrofio quando, sebbene superiora e religiose rimanessero
le stesse, venne cambiato il cappellano. Da allora in poi, delle povere giovani
uscite maggiorenni, neppure una fu gettata nel fango da Satana, ma tutte senza
eccezione son rimaste brave cristiane.
La ragione di questi risultati è semplice. Alla
guida dell’istituto o nel confessionale non c’era una direzione fortemente
soprannaturale; ciò bastava per paralizzare o per lo meno attenuare l’azione
della grazia. La precedente superiora nel primo caso e il precedente cappellano
nel secondo, persone sinceramente pie ma prive di seria vita interiore, non
avevano una influenza profonda e duratura. La loro era una pietà dovuta al sentimento,
all’ambiente, all’inerzia, fatta soltanto di pratiche e di abitudini, che non
poteva generare convinzioni profonde ma solo un amore senza calore e una virtù
senza radici. Una pietà fiacca, tutta apparenze, sdolcinature o atteggiamenti;
una bigotteria che forma brave ragazze incapaci di darvi fastidio, smorfiose
che sanno fare la riverenza, ma che non hanno forza di carattere e che si
lasciano trascinare dalla loro sensibilità e immaginazione. Una pietà incapace
di delineare un vasto orizzonte di vita cristiana e di formare donne forti,
preparate alla lotta, ma capace al massimo di trattenere in gabbia povere
fanciulle languenti, che sospirano il giorno in cui potranno uscirne. Ecco
tutta la vita cristiana che erano riusciti a far germogliare operai evangelici
ai quali la vita interiore era quasi sconosciuta!
Ma poi, in quelle due comunità, una superiora o
un cappellano vengono sostituiti: tutto cambia aspetto. Com’è più compresa la
preghiera e come i Sacramenti sono più fecondi! Quale diverso comportamento in
cappella e persino al lavoro e a ricreazione! Cambiamenti radicali che sono
dimostrati dall’osservazione e testimoniati dalla gioia serena, dallo slancio
nell’acquisto delle virtù e, in alcune anime, dal desiderio ardente di
vocazione religiosa. A cosa attribuire una simile trasformazione? La nuova
superiora ed il nuovo cappellano erano anime di vita interiore.
Non c’è dubbio che in molti collegi, convitti,
ospedali, patronati e persino in parrocchie, comunità e seminari, l’attento
osservatore avrà dovuto attribuire simili effetti ad identiche cause.
Ascoltiamo San Giovanni della Croce: «Gli uomini
divorati dall’attività, che si illudono di poter cambiare il mondo con le loro
predicazioni e le altre opere esteriori, riflettano un momento. Comprenderanno
facilmente che sarebbero ben più utili alla Chiesa e più graditi al Signore –
senza parlare del buon esempio che darebbero – se consacrassero più tempo
all’orazione e agli esercizi della vita interiore.
«In tali condizioni, con un’opera sola, essi
compirebbero un bene maggiore e con minor fatica di quanto ne farebbero in
mille altre alle quali dedicano la vita. L’orazione farebbe meritare questa
grazia e darebbe a loro loro le forze spirituali necessarie per produrre simili
frutti. Senza di essa, tutto si riduce ad un gran chiasso, come il martello che
battendo sull’incudine fa risuonare l’eco tutt’intorno. Si fa poco più che
nulla, spesso assolutamente nulla o addirittura del male. Dio ci liberi da una
tale anima, se càpita che si gonfi di superbia! Invano le apparenze
testimonierebbero in suo favore; la verità è che essa non riuscirà a far nulla,
poiché è assolutamente certo che nessuna opera buona può essere compiuta senza
la virtù divina. Ah, quanto si potrebbe scrivere al riguardo, rivolgendosi a
coloro che abbandonano l’esercizio della vita interiore e aspirano alle opere
clamorose, capaci di metterli in vista e di farli ammirare da tutti! Costoro
non conoscono affatto la sorgente d’acqua viva e la fontana misteriosa che fa
tutto fruttificare»1.
Alcune espressioni di questo santo sono forti
quanto quell’altra di san Bernardo, già ricordata: «occupazioni maledette». Non
è possibile accusarle di esagerazione, se ci si ricorda che le qualità più
ammirate da Bossuet in San Giovanni della Croce sono appunto il perfetto buon
senso, lo zelo nel mettere in guardia dal desiderio di percorrere vie
straordinarie per giungere alla santità, l’esatta precisione nell’esprimere
pensieri di notevole profondità.
Vediamo ora di studiare alcune cause della
fecondità della vita interiore.
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