1. La vita
interiore attira le benedizioni di Dio
«Sazierò di grassi l’anima dei miei sacerdoti e
il mio popolo si pascerà dei miei doni» (Ger. 31, 14). Notiamo il legame tra le
due parti di questo testo. Dio non dice: «Io darò ai miei sacerdoti più zelo,
più talento», ma dice: «Sazierò la loro anima». E non significa altro che
questo: io li colmerò del mio spirito, comunicherò a loro grazie elette e così
il mio popolo riceverà la pienezza dei miei beni.
Dio avrebbe potuto distribuire la sua grazia
secondo il suo beneplacito, senza tener conto né della pietà del ministro né
delle disposizioni dei fedeli, come fa nel Battesimo dei bambini. Invece, in base
alla legge ordinaria della sua Provvidenza, questi due elementi diventano la
misura dei doni celesti.
«Senza di me non potere far nulla» (Gv. 15, 5):
questo è il principio. Sul Calvario venne sparso il Sangue redentore; ma in che
modo Dio ne ha assicurato l’originaria efficacia? Con una miracolosa diffusione
della vita interiore. Non v’era nulla di più angusto che l’ideale e lo zelo
degli Apostoli prima della Pentecoste; lo Spirito Santo li trasforma in uomini
interiori e sùbito la loro predicazione opera meraviglie. Ordinariamente, Dio
non rinnoverà più il prodigio del Cenacolo, ma lascerà le grazie di
santificazione alle prese con la libera e laboriosa corrispondenza della sua
creatura. Facendo però della Pentecoste la data ufficiale della nascita della
Chiesa, non vuole forse farci capire che i suoi apostoli devono far precedere
la loro santificazione personale all’opera di corredentori?
Per questo tutti i veri operai apostolici si
attendono molto più dai loro sacrifici e dalle loro preghiere che non
dall’organizzazione della loro attività. Il padre Lacordaire, prima di salire
sul pulpito, rimaneva lungamente in preghiera, e quando rientrava in cella si
faceva flagellare. Il padre Monsabré, prima di prendere la parola a Notre Dame,
recitava in ginocchio il Rosario intero. Ad un amico che gli domandava perché
lo facesse, rispose scherzosamente: «Prendo la mia ultima infusione».
Questi due religiosi vivevano entrambi di quel
principio dettato da san Bonaventura: «I segreti di un fecondo apostolato si attingono
ben più ai piedi del Crocifisso che nel dispiegamento di brillanti qualità».
San Bernardo esclama: «Tre sono le cose che restano: la parola, l’esempio e la
preghiera; ma la più importante delle tre è la preghiera»; espressione molto
forte, ma che è solo il commento della risoluzione presa dagli Apostoli di
abbandonare certe occupazioni allo scopo di potersi applicare prima di tutto
alla preghiera e soltanto dopo al ministro della parola (At. VI, 4).
Abbiamo abbastanza notato, a questo riguardo, l’importanza
fondamentale che il Salvatore dà a questo spirito di preghiera? Gettando uno
sguardo sul mondo e sui secoli futuri, e prevedendo la grande moltitudine delle
anime chiamate a beneficiare del Vangelo, Egli esclama con tristezza: «La messe
è abbondante ma gli operai son pochi» (Mt. 9, 3). Ma che cosa propone Gesù come
il mezzo più rapido per diffondere la sua dottrina? Domanderà forse ai suoi
discepoli di frequentare le scuole di Atene o di andare dai Cesari di Roma a
studiare come si conquistano e si governano gli imperi? Uomini di zelo,
ascoltate il Maestro. Quel che ci rivela è un programma ed una fonte di luce:
«Pregate dunque il padrone dei campi, perché mandi operai a mietere» (Mt. 9,
3).
Sapienti organizzazioni, risorse da procurarsi,
chiese da edificare, scuole da fondare: nessuna menzione di tutto ciò. «Rogate
ergo»: preghiera e spirito di orazione; il Maestro non si stanca di repeterci
questa verità fondamentale. Il resto, tutto il resto, ne deriverà.
Rogate ergo! Se il timido mormorio della
supplica rivolta da un’anima santa è capace di reclutare legioni di apostoli
più che la parola eloquente d’un cercatore di vocazioni meno pieno dello
spirito di Dio, che se ne deve concludere? Questo: che lo spirito di preghiera,
il quale nel vero apostolo vai di pari passo con lo zelo, sarà la causa
principale della fecondità del suo lavoro.
Rogate ergo! In primo luogo pregate; soltanto
dopo il Signore aggiunge: «Andate dunque ad insegnare, a predicare» (Mt. 10,
7). Certo, Dio si servirà anche di questo mezzo; ma le benedizioni che dànno la
fecondità al ministero sono riservate alla preghiera dell’uomo di orazione;
preghiera così potente, da far uscire dal seno di Dio gl’inebrianti profumi di
un’azione irresistibile sulle anime.
Anche San Pio X, con la sua autorevole parola
mette in rilievo la tesi del nostro modesto lavoro:
«All’Azione Cattolica, poiché si propone di
restaurare tutte le cose in Cristo mediante l’apostolato dell’azione, le è
necessaria la grazia divina, e questa non si dà che all’apostolo che è unito a
Cristo. Soltanto quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più
facilmente darlo alle famiglie e alla società. Epperò quanti sono chiamati a
dirigere o si dedicano a promuovere il movimento cattolico, devono essere
cattolici a tutta prova, (...) di pietà vera, di maschie virtù, di puri
costumi»2.
Quanto diciamo della preghiera va applicato
all’altro elemento della vita interiore: alla sofferenza, cioè a tutto quello
che viene ad urtare la nostra natura, sia dal di fuori come dal di dentro. Si
può soffrire come un pagano, come un dannato o come un santo. Per soffrire
veramente con Cristo bisogna cercare di soffrire da santo. Allora la sofferenza
serve al nostro personale profitto e per applicare all’anima il mistero della Passione:
«Completo nella mia carne quel che manca alle sofferenze di Cristo a beneficio
del suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1, 21). Nel commentare questo passo, dice
sant’Agostino: «I patimenti di Gesù Cristo erano completi, ma soltanto nel
capo: mancavano ancora i suoi patimenti nelle sue mistiche membra». Praecessit
Christus in capite: Gesù Cristo ha sofferto, ma come capo; sequitur in
corpore: ora tocca al suo corpo mistico soffrire. Ogni sacerdote può dire:
«Questo corpo sono io, perché sono un membro di Cristo; ciò che manca alle
sofferenze di Cristo, bisogna che lo completi io a beneficio del suo Corpo ch’è
la Chiesa».
La sofferenza è il più gran sacramento, diceva
il padre Faber. Questo profondo teologo ne mostra la necessità e ne deduce le
glorie; tutti gli argomenti del celebre oratoriano si possono applicare alla
fecondità dell’azione per mezzo dell’unione dei sacrifici dell’operaio
evangelico con il Sacrificio del Calvario, e perciò con la partecipazione
all’efficacia infinita del Sangue divino.
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