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Dom Jean-Baptiste Gustave Chautard
Anima di ogni Apostolato

IntraText CT - Lettura del testo

  • La vita interiore è condizione della fecondità delle opere
    • 1. La vita interiore attira le benedizioni di Dio
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1. La vita interiore attira le benedizioni di Dio

«Sazierò di grassi l’anima dei miei sacerdoti e il mio popolo si pascerà dei miei doni» (Ger. 31, 14). Notiamo il legame tra le due parti di questo testo. Dio non dice: «Io darò ai miei sacerdoti più zelo, più talento», ma dice: «Sazierò la loro anima». E non significa altro che questo: io li colmerò del mio spirito, comunicherò a loro grazie elette e così il mio popolo riceverà la pienezza dei miei beni.

Dio avrebbe potuto distribuire la sua grazia secondo il suo beneplacito, senza tener conto né della pietà del ministro né delle disposizioni dei fedeli, come fa nel Battesimo dei bambini. Invece, in base alla legge ordinaria della sua Provvidenza, questi due elementi diventano la misura dei doni celesti.

«Senza di me non potere far nulla» (Gv. 15, 5): questo è il principio. Sul Calvario venne sparso il Sangue redentore; ma in che modo Dio ne ha assicurato l’originaria efficacia? Con una miracolosa diffusione della vita interiore. Non v’era nulla di più angusto che l’ideale e lo zelo degli Apostoli prima della Pentecoste; lo Spirito Santo li trasforma in uomini interiori e sùbito la loro predicazione opera meraviglie. Ordinariamente, Dio non rinnoverà più il prodigio del Cenacolo, ma lascerà le grazie di santificazione alle prese con la libera e laboriosa corrispondenza della sua creatura. Facendo però della Pentecoste la data ufficiale della nascita della Chiesa, non vuole forse farci capire che i suoi apostoli devono far precedere la loro santificazione personale all’opera di corredentori?

Per questo tutti i veri operai apostolici si attendono molto più dai loro sacrifici e dalle loro preghiere che non dall’organizzazione della loro attività. Il padre Lacordaire, prima di salire sul pulpito, rimaneva lungamente in preghiera, e quando rientrava in cella si faceva flagellare. Il padre Monsabré, prima di prendere la parola a Notre Dame, recitava in ginocchio il Rosario intero. Ad un amico che gli domandava perché lo facesse, rispose scherzosamente: «Prendo la mia ultima infusione».

Questi due religiosi vivevano entrambi di quel principio dettato da san Bonaventura: «I segreti di un fecondo apostolato si attingono ben più ai piedi del Crocifisso che nel dispiegamento di brillanti qualità». San Bernardo esclama: «Tre sono le cose che restano: la parola, l’esempio e la preghiera; ma la più importante delle tre è la preghiera»; espressione molto forte, ma che è solo il commento della risoluzione presa dagli Apostoli di abbandonare certe occupazioni allo scopo di potersi applicare prima di tutto alla preghiera e soltanto dopo al ministro della parola (At. VI, 4).

Abbiamo abbastanza notato, a questo riguardo, l’importanza fondamentale che il Salvatore a questo spirito di preghiera? Gettando uno sguardo sul mondo e sui secoli futuri, e prevedendo la grande moltitudine delle anime chiamate a beneficiare del Vangelo, Egli esclama con tristezza: «La messe è abbondante ma gli operai son pochi» (Mt. 9, 3). Ma che cosa propone Gesù come il mezzo più rapido per diffondere la sua dottrina? Domanderà forse ai suoi discepoli di frequentare le scuole di Atene o di andare dai Cesari di Roma a studiare come si conquistano e si governano gli imperi? Uomini di zelo, ascoltate il Maestro. Quel che ci rivela è un programma ed una fonte di luce: «Pregate dunque il padrone dei campi, perché mandi operai a mietere» (Mt. 9, 3).

Sapienti organizzazioni, risorse da procurarsi, chiese da edificare, scuole da fondare: nessuna menzione di tutto ciò. «Rogate ergo»: preghiera e spirito di orazione; il Maestro non si stanca di repeterci questa verità fondamentale. Il resto, tutto il resto, ne deriverà.

Rogate ergo! Se il timido mormorio della supplica rivolta da un’anima santa è capace di reclutare legioni di apostoli più che la parola eloquente d’un cercatore di vocazioni meno pieno dello spirito di Dio, che se ne deve concludere? Questo: che lo spirito di preghiera, il quale nel vero apostolo vai di pari passo con lo zelo, sarà la causa principale della fecondità del suo lavoro.

Rogate ergo! In primo luogo pregate; soltanto dopo il Signore aggiunge: «Andate dunque ad insegnare, a predicare» (Mt. 10, 7). Certo, Dio si servirà anche di questo mezzo; ma le benedizioni che dànno la fecondità al ministero sono riservate alla preghiera dell’uomo di orazione; preghiera così potente, da far uscire dal seno di Dio gl’inebrianti profumi di un’azione irresistibile sulle anime.

Anche San Pio X, con la sua autorevole parola mette in rilievo la tesi del nostro modesto lavoro:

«All’Azione Cattolica, poiché si propone di restaurare tutte le cose in Cristo mediante l’apostolato dell’azione, le è necessaria la grazia divina, e questa non si che all’apostolo che è unito a Cristo. Soltanto quando avremo formato Gesù Cristo in noi, potremo più facilmente darlo alle famiglie e alla società. Epperò quanti sono chiamati a dirigere o si dedicano a promuovere il movimento cattolico, devono essere cattolici a tutta prova, (...) di pietà vera, di maschie virtù, di puri costumi»2.

Quanto diciamo della preghiera va applicato all’altro elemento della vita interiore: alla sofferenza, cioè a tutto quello che viene ad urtare la nostra natura, sia dal di fuori come dal di dentro. Si può soffrire come un pagano, come un dannato o come un santo. Per soffrire veramente con Cristo bisogna cercare di soffrire da santo. Allora la sofferenza serve al nostro personale profitto e per applicare all’anima il mistero della Passione: «Completo nella mia carne quel che manca alle sofferenze di Cristo a beneficio del suo Corpo che è la Chiesa» (Col. 1, 21). Nel commentare questo passo, dice sant’Agostino: «I patimenti di Gesù Cristo erano completi, ma soltanto nel capo: mancavano ancora i suoi patimenti nelle sue mistiche membra». Praecessit Christus in capite: Gesù Cristo ha sofferto, ma come capo; sequitur in corpore: ora tocca al suo corpo mistico soffrire. Ogni sacerdote può dire: «Questo corpo sono io, perché sono un membro di Cristo; ciò che manca alle sofferenze di Cristo, bisogna che lo completi io a beneficio del suo Corpo ch’è la Chiesa».

La sofferenza è il più gran sacramento, diceva il padre Faber. Questo profondo teologo ne mostra la necessità e ne deduce le glorie; tutti gli argomenti del celebre oratoriano si possono applicare alla fecondità dell’azione per mezzo dell’unione dei sacrifici dell’operaio evangelico con il Sacrificio del Calvario, e perciò con la partecipazione all’efficacia infinita del Sangue divino.




2 San Pio X, Il fermo proposito, Enciclica ai Vescovi d’Italia, dell’11 giugno 1905, n. 8.






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