Con la vita interiore l’apostolo irradia
l’umiltà
E’ facile comprendere che la bontà e la dolcezza
di Gesù attiravano le moltitudini; ma si può attribuire lo stesso potere alla
sua umiltà? Non dubitiamone.
«Senza di me non potete fare nulla» (Gv. 15, 5).
Innalzato dal Creatore alla dignità di cooperatore, l’apostolo diventa uno
strumento di operazioni soprannaturali, ma a condizione che vi si manifesti il
solo Gesù. Più saprà cancellarsi e diventare impersonale, più Gesù avrà cura di
manifestarsi. Se non c’è questa impersonalità, frutto della vita interiore,
l’apostolo pianterà e irrigherà invano: non germoglierà nulla.
L’umiltà vera ha un fascino speciale la cui
fonte è Gesù stesso. Essa respira il divino. Allo zelo che l’uomo impiega nel
far scomparire se stesso per far sì che sembri agire solo Gesù – «Bisogna
ch’Egli cresca e io diminuisca» (Gv. 3, 30) – il Signore corrisponde il dono,
concesso al suo ministro, di guadagnare sempre più i cuori.
In tal modo, l’umiltà diventa uno dei più
potenti mezzi d’azione sulle anime. Diceva san Vincenzo de’ Paoli ai suoi
sacerdoti: «Credetemi, noi non saremo mai adatti a compiere l’opera di Dio, se
non ci convinceremo che da noi stessi siamo capaci più di rovinare tutto che di
costruire qualcosa».
Può darsi che qualcuno si stupisca del mio
frequente ritornare su certi pensieri; lo faccio perché mi sembra che soltanto ripetendoli
potrò inciderli nello spirito dei miei cari lettori mostrandone loro tutta
l’importanza.
Modi di procedere arroganti e arie presuntuose,
non hanno forse spesso gran colpa nella sterilità delle opere?
Il cristiano «moderno» pretende di salvaguardare
la propria indipendenza; accetterà di obbedire a Dio, ma a Dio solo. Dal
ministro di Dio non accetterà ordini né direttive e neppure consigli, se non vi
leggerà l’autentica firma di Dio.
Per questo è necessario che l’apostolo sappia
talmente occultarsi e scomparire mediante il sacrificio dell’umiltà, frutto
della vita interiore, da arrivare al punto di essere, agli occhi di quelli che
l’ascoltano e lo giudicano, nient’altro che la trasparenza di Dio, realizzando
in sé la parola del Maestro: «Chi è maggiore fra voi, sarà vostro servitore.
Voi non definitevi maestri e non fatevi chiamare dottori» (Mt. 29, 31).
Il semplice aspetto dell’uomo di vita interiore
diventa un insegnamento della scienza della vita, che è la scienza della
preghiera (Sant’Agostino). E perché questo? Perché con l’umiltà egli ispira la
dipendenza da Dio. Questa dipendenza, in cui l’anima si mantiene di continuo,
si manifesta con l’abitudine di ricorrere a Dio in ogni occasione, sia per
prendere una decisione, sia per trovare consolazione nelle difficoltà, sia
soprattutto per ottenere la forza sufficiente a trionfarne.
Nel Breviario, al Comune dei Confessori non
Pontefici, si leggono le seguenti parole con le quali san Beda commenta tanto
mirabilmente l’espressione «piccolo gregge»: «Il Salvatore chiama ‘piccolo’ il
gregge degli eletti, sia perché lo paragona alla moltitudine dei reprobi, sia
più ancora per il suo appassionato zelo per l’umiltà; per quanto numerosa ed
estesa sia ormai la sua Chiesa, Egli vuole tuttavia ch’essa cresca sino alla
fine del mondo sempre nell’umiltà, arrivando così al regno promesso all’umiltà»10.
Questo testo s’ispira alle forti lezioni che
Gesù Cristo dà ai suoi Apostoli quando, per esempio, essi vogliono ritorcere a
proprio vantaggio la loro vocazione all’apostolato, mostrandosi pieni di
ambizione e di gelosia. «Voi sapete – dice a loro il Maestro – che i capi delle
nazioni le dominano ed i grandi esercitano il potere sopra di esse. Ma tra voi
non sarà così; anzi, chi vorrà tra voi diventare il maggiore vi faccia da
ministro e chi vorrà tra voi essere il primo, diventi vostro servo» (Mt. 20;
Lc. 22).
Ma in tal modo non sin finirà con l’indebolire
l’autorità? Risponde Bourdaloue: ci sarà sempre abbastanza autorità tra voi se ci
sarà abbastanza umiltà; ma se l’umiltà svanisce, l’autorità diventa pesante ed
insopportabile.
Senza la vera umiltà, l’apostolo cade in uno di
questi eccessi: o diventa troppo bonaccione, o più spesso tende a diventare un
tiranno.
Lasciamo qui da parte la questione dottrinale.
Supponiamo che l’apostolo sia sufficientemente illuminato da preservare la sua
intelligenza tanto da una tolleranza senza limiti quanto da un’asprezza di
zelo, entrambe sconvenienze criticate da Dio; supponiamo che suoi principi siano
perfettamente sani e che la sua scienza sia esatta. Posto questo, affermo che
un tale apostolo, senza l’umiltà, non riuscirà a tenere il giusto mezzo tra i
due estremi e che la vigliaccheria, o più spesso l’orgoglio, si manifesteranno
nella sua condotta.
O, cedendo ad una falsa umiltà, egli sarà
pusillanime, lascerà che la carità degeneri in debolezza, sarà l’uomo delle
concessioni esagerate, delle riconciliazioni ad ogni costo, e il suo zelo nel
preservare i princìpi scomparirà con mille pretesti, motivazioni di prudenza e
calcoli meschini.
Oppure il naturalismo e la cattiva tendenza
della volontà metteranno in gioco l’orgoglio, la suscettibilità, l’Io. Ne
deriveranno odi personali, «autoritarismo», rancori, dispetti, rivalità,
antipatie, parzialità, ambizioni, vendette, gelosie, desideri troppo umani di
privilegi, calunnie, maldicenze, parole aspre, mondano spirito di parte,
asprezza nel difendere i princìpi, eccetera.
Invece di restare il vero fine alla cui ricerca
si nobilitano le nostre passioni, la gloria di Dio verrà ridotta da questo
apostolo alla condizione di mezzo e di pretesto per puntellare, sviluppare e
giustificare quelle stesse passioni in ciò che hanno di troppo umano. I minimi
attacchi alla gloria di Dio o alla Chiesa provocheranno scatti d’ira in cui lo
psicologo scoprirà la difesa della personalità dell’operaio apostolico o dei
privilegi della propria casta in quanto società puramente umana, ben più che la
dedizione alla causa di Dio, unica ragione dell’esistenza della Chiesa come società
perfetta stabilita da Nostro Signore.
La sicurezza di dottrina e il sano discernimento
non bastano a preservare da queste deviazioni, perché l’apostolo privo di vita
interiore, essendo perciò privo di vera umiltà, verrà influenzato dalle proprie
passioni. Solo l’umiltà, conservandolo nella rettitudine di giudizio e
distogliendolo dall’agire per impressioni, darà maggior equilibrio e stabilità
nella sua vita. Unendolo a Dio, lo farà partecipare, per così dire, alla
immutabilità divina; simile alla fragile edera che diviene forte e stabile,
della fortezza incrollabile della quercia, quando con tutte le sue fibre
s’attacca al robusto tronco di questa regina delle foreste.
Non si esiti a riconoscerlo: senza l’umiltà,
seppure non cadremo nel primo eccesso, la nostra natura ci trascinerà al
secondo, oppure oscilleremo ora verso l’uno ed ora verso l’altro, a seconda
delle circostanze o delle passioni. In tal modo si realizzeranno quelle parole
di san Tommaso: «L’uomo è un essere mutevole; è costante solo nella sua
incostanza».
Il logico risultato di un apostolato così
difettoso sarà o il disprezzo per una autorità pusillanime o la diffidenza, e
spesso l’odio, verso un’autorità che non riflette quella di Dio.
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