Undicesima Verità
Se Dio mi chiede di applicarmi non solo alla mia
santificazione, ma anche alle opere di apostolato, dovrò prima di tutto
formarmi nell’anima questa ferma convinzione: Gesù deve e vuole essere la vita
di queste opere.
I miei sforzi, da soli, non sono nulla,
assolutamente nulla: «Senza di me non potere far nulla» (Gv. 15, 5); essi non
saranno né utili né benedetti da Dio, se non li unisco costantemente all’azione
vivificante di Gesù mediante una vera vita interiore. Essi diventeranno allora
onnipotenti: «Tutto posso, in Colui che mi dà forza» (Fil. 4, 13). Ma se questi
sforzi provenissero da un’orgogliosa autosufficienza, dalla fiducia nei miei
talenti e dal desiderio del successo, i miei sforzi sarebbero rigettati da Dio.
Non sarebbe infatti una sacrilega follia da parte mia, se volessi rubare a Dio,
per farmene bello, un poco della sua gloria?
Ben lungi dal rendermi pusillanime, tale
convinzione sarà la mia forza. E come mi farà sentire il bisogno della
preghiera per ottenere questa umiltà, tesoro per l’anima mia, sicurezza
dell’aiuto di Dio e caparra di successo per le mie opere!
Penetrato dall’importanza di questo principio,
mi esaminerò coscienziosamente nei giorni di ritiro, per verificare se non si è
indebolita la convinzione che la mia azione è nulla quando è sola ma è forte quando
è unita a quella di Gesù Cristo, se escludo spietatamente ogni compiacenza,
ogni vanità ed ogni ripiegamento su me stesso nella mia vita di apostolo, se mi
mantengo in un’assoluta diffidenza di me stesso, e se prego Dio di vivificare
ogni mia opera e di preservarmi dall’orgoglio, ch’è il primo e principale
ostacolo al suo aiuto.
Questo credo della vita interiore, una volta
divenuto per l’anima la base della sua esistenza, le assicura fin da questa
vita una partecipazione alla felicità celeste.
Vita interiore, vita di predestinati. Essa
corrisponde al fine che Dio si è proposto nel crearci8, ma
corrisponde anche al fine dell’Incarnazione:
«Dio inviò nel mondo il Suo Figlio unigenito,
affinché viviamo per Lui» (1 Gv., 4, 9).
E’ uno stato di beatitudine: «Il fine della
creatura umana consiste nell’unirsi a Dio; in questo infatti consiste la sua
felicità» (San Tommaso d’Aquino).
Al contrario delle gioie mondane, se fuori ci
sono le spine, dentro ci sono le rose. «Come sono da compiangere i poveri
mondani!», esclamava il santo curato d’Ars. Essi portano sulle spalle un
mantello foderato di spine e non possono fare una mossa senza pungersi. I veri
cristiani invece portano un mantello foderato di pelle di coniglio. «Si guarda
la Croce, ma non si vede l’unzione» (San Bernardo).
E’ uno stato celeste in cui l’anima diventa un
cielo vivente9. Con santa Margherita Alacoque si può dire:
«In ogni tempo posseggo e in ogni luogo porto il Dio del mio cuore e il cuore
del mio Dio».
E’ il principio della
beatitudine: «Una certa qual anticipazione dell’eterna beatitudine»10. La grazia è il Cielo in germe.
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